Giovanni Emanuele Bidera

Marino Faliero

Gaetano Donizetti, Marino Faliero

★★★★☆

Bergamo, Teatro Donizetti, 20 November 2020

 Qui la versione italiana

(live streaming)

From Byron to Donizetti, the political drama of Marino Faliero

In this calamitous year, many opera festivals have had to be abandoned, but Bergamo, the Italian city most affected by the Covid-19 pandemic, refused to give up and its Donizetti Opera, reduced in scale, took place without an audience. Instead of music devotees, cameras and microphones of Donizetti Web TV filled the newly restored Teatro Donizetti.

The festival opened with Marino Faliero, an historical libretto by Giovanni Emanuele Bidera based on Casimir Delavigne’s play which was, in turn, based on Lord Byron’s 1821 tragedy, Marino Faliero, Doge of Venice. The opera represents Donizetti’s French debut, composed in the summer of 1834 for the Théâtre des Italiens, then directed by Rossini, where it was presented on 12th March 1835, just a few months after the triumph of I puritani by his rival, Bellini…

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Marino Faliero

Gaetano Donizetti, Marino Faliero

★★★★☆

Bergamo, Teatro Donizetti, 20 novembre 2020

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(live streaming)

Da Byron a Donizetti, il dramma politico e patriottico di Marino Faliero

In questo anno disgraziato molti festival d’opera hanno dovuto dare forfait. Bergamo, la città italiana più colpita dalla pandemia di Covid-19, non si è invece arresa e non ha rinunciato al suo ambizioso Donizetti Opera che, appena ridotto nelle dimensioni, si svolge in diretta streaming senza pubblico in sala. Nell’appena restaurato Teatro Donizetti invece degli appassionati venuti da tutto il mondo entrano telecamere e microfoni della Web TV.

Si inizia con Marino (o Marin) Faliero, dramma storico di Giovanni Emanuele Bidera basato sul testo omonimo di Casimir Delavigne a sua volta tratta del Marino Faliero, Doge of Venice, tragedia di Byron del 1821. L’opera rappresenta il debutto francese di Donizetti. Era stata infatti scritta nell’estate del 1834 per il Théâtre des Italiens, diretto allora da Rossini, dove fu presentata il 12 marzo 1835 a pochi mesi dal trionfo de I puritani del rivale Bellini. Il libretto venne ritoccato dall’esule politico Agostino Ruffini per la rappresentazione a Parigi, città in cui la censura era meno rigida che in Italia, dove difficilmente sarebbe stato accettato un testo che esaltava il patriottismo. L’opera tanto entusiasmò Mazzini che la citò quale pietra miliare di un teatro musicale nuovo e impegnato nel suo saggio Filosofia della musica. E questo prima che Giuseppe Verdi diventasse il depositario delle speranze risorgimentali del paese.

La vicenda del Marino Faliero è ambientata nella Venezia del XIV secolo, la città per antonomasia degli intrighi, delle delazioni, dei delitti e dei balli in maschera per gli scrittori romantici. Il Doge Faliero è in grande contrasto con i patrizi della città che seminano calunnie nei suoi confronti. Scoperta una cospirazione contro di loro, Faliero non esita a capeggiarla, ma scoperto viene deposto e giustiziato per tradimento. A fianco del tema politico (pubblico) non poteva certo mancare quello amoroso (privato), in questo caso di Elena, la moglie del Doge, che ha una relazione col di lui nipote Fernando. La morte in duello di quest’ultimo risolve la scabrosa situazione troppo tardi per portare pace alla coppia.

Atto primo. Venezia, 1355. I lavoratori dell’arsenale commentano una scritta apparsa a Rialto che accusa Elena, moglie del doge Marino Faliero, di aver tradito il marito. Il loro capo, Israele Bertucci, ricorda l’impresa di Zara alla quale aveva partecipato con Faliero. Arriva Steno, un arrogante patrizio: accusa gli artigiani di non lavorare abbastanza e minaccia punizioni. Israele e i suoi criticano la prepotenza dei nobili. Nel palazzo del doge, suo nipote Fernando, innamorato corrisposto di Elena, ha deciso di lasciare Venezia. Giunge Elena, che gli dona un velo a ricordo del loro amore. Il doge, ignaro del legame tra i due, allontana la moglie e confida al nipote il proprio turbamento per l’infamante accusa a lei rivolta. Faliero è anche amareggiato per l’invito a una festa in maschera del patrizio Leoni, alla quale si sente costretto a partecipare. Rimasto solo, il doge è raggiunto da Israele che gli svela una congiura contro i patrizi. I due si accordano: alla festa di Leoni, Israele indicherà al doge il numero e il nome di coloro che hanno aderito. Nel palazzo di Leoni arrivano Faliero, Elena e Fernando. Il doge si apparta con Israele che gli comunica che i congiurati agiranno la notte stessa, muovendo da San Giovanni e Paolo. Elena è infastidita da una maschera. È Steno, che Fernando sfida a duello: si incontreranno all’alba, a San Giovanni.
Atto secondo. I congiurati si riuniscono a San Giovanni. Arriva anche Fernando che attende l’ora del duello. Quando il campanile suona le tre, si avvia al luogo stabilito. I congiurati escono allo scoperto, raggiunti dal doge. Mentre un temporale si avvicina, si sente un rumore di spade: Fernando è stato colpito a morte e nell’agonia indica Steno come suo uccisore.
Atto terzo. Nel palazzo ducale, Faliero annuncia a Elena la morte di Fernando. In quel momento entra Leoni a reclamare la presenza del doge contro i congiurati. Faliero se ne dichiara capo e si proclama re, ma viene arrestato dagli sbirri, mentre Elena si abbandona alla disperazione. Nella sala del Consiglio dei Dieci, Faliero, Israele e gli altri congiurati vengono condannati a morte. Rimasto solo, il doge deposto viene raggiunto da Elena. Faliero le chiede di essere sepolto con il velo che il nipote portava con sé. Elena lo riconosce e, assalita dal rimorso, confessa di aver amato Fernando. Dapprima furioso, Faliero si placa, perdona la sposa e si avvia al patibolo. Elena prega e, quando i tamburi annunciano l’esecuzione, cade svenuta.

Pur nella sua inconfondibilità, la musica del Marino Faliero dimostra la grande influenza di Rossini, il dominatore del teatro musicale dell’epoca. Rossini stesso aveva chiesto a Donizetti alcune modifiche per la rappresentazione parigina – sostanzialmente il passaggio a tre atti invece di due, una sinfonia iniziale invece del breve preludio previsto originariamente e altri rimaneggiamenti – per meglio adattarsi ai gusti del pubblico. L’opera tuttavia sconcertò ugualmente per alcune scelte che andavano contro la tradizione, come la morte del tenore già nel secondo atto o la mancanza di un’aria di sortita per la prima donna la quale aveva una grande scena per sé solo nel finale.

C’è chi ha paragonato quest’opera a I due Foscari non solo per la stessa ambientazione veneziana e per la comune derivazione byroniana, ma anche per il fatto che entrambe mettono in scena due anziani in lotta tra questioni private e pubbliche. E come l’opera di Verdi anche il Marino Faliero è opera notturna – il termine notte ricorre ben 18 volte nel libretto – la cui atmosfera e il colore cupo sono sottolineati dal direttore musicale del festival Riccardo Frizza. La frequentazione di questo repertorio ha fatto del maestro bresciano, un interprete di riferimento della musica donizettiana e con l’orchestra del teatro riesce a restituire la dimensione inquietante della città lagunare tra duelli e feste, congiure e serenate dei gondolieri. Insolita la disposizione dell’orchestra: il direttore è nel mezzo, davanti ha gli archi, dietro i fiati, separati da schermi di plexiglas, in fondo sul palcoscenico il coro.

Le parti vocali del Faliero sono estremamente impegnative essendo state pensate per dei fuoriclasse dell’epoca: il basso Luigi Lablache (il Doge), il soprano Giulia Grisi (Elena), il tenore Giovanni Battista Rubini (Fernando) e il baritono Antonio Tamburini (Israele), gli stessi solisti de I puritani. Con quel quartetto di eccezione si confrontano qui a Bergamo interpreti non meno eccellenti. Primo fra tutti Michele Pertusi che è un Faliero di enorme autorevolezza e maestro di stile. Il personaggio del Doge sembra tagliato su misura per la sua personalità e sensibilità. Di grande effetto è la parte del generoso plebeo Israele Bertucci, che qui ha in Bogdan Baciu un interprete che non è mai sopra le righe ma risulta comunque efficace e nel Maestoso «Ero anch’io» del primo atto mette in luce le sue grandi capacità espressive.

Quello di Fernando è un ruolo tenorile temibile, che finora ha ostacolato la ripresa di questo titolo e che in questa proposta bergamasca nasce sfortunato. Il previsto Javier Camarena è stato sostituito per motivi di salute da Michele Angelini che però anche lui si è rivelato indisposto, ma che è generosamente salito in scena per salvare lo spettacolo portando a termine la sua performance con evidenti segni di fatica. Peccato, perché avremmo ammirato il timbro luminoso, il fraseggio accurato e la bella linea di canto, doti dimostrate ad esempio nel suo Almaviva del Barbiere parigino di Pelly o nel Riccardo dell’Anna Bolena all’opera di Lituania il mese scorso, il suo debutto in Donizetti. Non si può che augurargli di rimettersi presto e dispiace che ci sia stata solo questa recita.

Serata pienamente positiva invece per Francesca Dotto, Elena di grande temperamento, che nella scena a lei dedicata nell’atto terzo recupera tutto quello che non ha potuto dimostrare nei due atti precedenti, ossia una potenza vocale ragguardevole che le permette di affrontare con agio l’impervia tessitura scritta per la Grisi e gli accenti drammatici di un personaggio tormentato. Ottimi si sono dimostrati gli interpreti degli altri personaggi, soprattutto Christian Federici come perfido Steno e Giorgio Misseri, il gondoliere fuori scena. Impegnato in momenti strategici della vicenda – il coro degli artigiani con cui inizia l’opera, il finale primo, il coro di congiurati («Siamo i figli della notte») e il finale secondo, il coro di damigelle e quello dei patrizi nel terzo – il coro, invisibile dietro l’orchestra, istruito da Fabio Tartari ha dimostrato grande coesione e perfetta intonazione.

Sia Eugène Delacroix (1) che Francesco Hayez (2) hanno ritratto gli ultimi momenti del Doge Faliero sulla scalinata del cortile del Palazzo Ducale, ma è un falso perché il grandioso scalone dei Giganti fu costruito cent’anni dopo. Tuttavia le scale sono presenti in quantità nel progetto creativo del ricci/forte performing art ensemble: tante rampe inserite in una struttura di metallo disegnata da Marco Rossi che occupa tutta la platea del teatro. Nel gioco luci di Alessandro Carletti la luce verdastra della «torbida laguna» inonda questo labirinto tridimensionale che ricorda il dedalo di calli, ponti e scalette della città o i pali su cui sono costruiti i suoi palazzi, ma anche le passerelle che vengono posate per l’acqua alta, come pure la scaffalatura di un un patibolo o infine una gabbia che imprigiona le solitudini dei personaggi e il loro distanziamento. Inquietanti e viscidi figure si aggrappano e abitano questa struttura trasformandosi anche in marionette o marionettisti quando ai loro fili sono legati i personaggi schiavi del destino. I loro movimenti sono coordinati da Marta Bevilacqua. I costumi di Gianluca Sbicca mescolano stili diversi con i loro tagli moderni, i colori insoliti e i tessuti preziosi che sembrano essere usciti dalle botteghe veneziane di sete e broccati. Come si vede molti sono i richiami evocati dall’allestimento di Stefano Ricci e Gianni Forte, da quest’anno direttori artistici della Biennale Teatro di Venezia.

(1) L’exécution du doge Marino Faliero, 1825 – Londra, Wallace Collection

(2) Gli ultimi momenti del doge Marin Faliero sulla scala detta del piombo, 1867 – Milano, Pinacoteca di Brera

Gemma di Vergy

★★★☆☆

Un esercizio di stile donizettiano

«Derivata da un farraginoso pastrocchio di Dumas padre [Charles VII chez ses grands vassaux], la vicenda ambientata all’epoca di Giovanna D’Arco riguarda una signora [Gemma] che non può avere figli e viene ripudiata da un marito [il conte di Vergy] preda di rimorsi ma anche di desiderio per “l’altra” [Ida di Gréville] che va a impalmare e – lui spera – ingravidare; “l’infeconda” (la chiamano proprio così) oscilla tra seccata matrona e donna molto disturbata che via via prevale; c’è un arabo [Tamas] che non si sa da dove venga, forse prigioniero ma munito di spade e pugnali così da poter uccidere due uomini (il secondo è il marito ripudiante), viene perdonato del primo omicidio ma per il secondo provvede a suicidarsi perché par di capire ama la ripudiata e ha voluto vendicarne l’oltraggio. Il tutto con versi orripilanti di romanticismo di terza mano («d’uman sangue sitibondo», «mal genio del deserto») e arcadia di quarta («cosa di cel mi sei»), tradotti in una musica dove la routine la fa da padrona, da un lato scadendo nel mestiere più trito, e dall’altro facendo lampeggiare qua e là sparuti interessi strumentali e vocali, come nel bel concertato conclusivo del prim’atto». Così Elvio Giudici presenta l’opera che debuttò alla Scala il 24 dicembre 1834 su libretto di Giovanni Emanuele Bidera, il poeta che per Donizetti l’anno dopo scriverà anche il Marin Faliero.

Non molto positivo è anche il giudizio dell’Ashbrook che considera il personaggio di Gemma «fondamentalmente individualistico ed egoistico. […] resta troppo isolata da qualunque rapporto umano per poter suscitare un’autentica e profonda compassione […] l’assenza di quella forma di catarsi sentimentale che ci fa partecipi delle sofferenze di Anna, Parisina, Maria Stuarda, è in definitiva il motivo per cui al personaggio di Gemma manca il calore umano».

Presto uscita di repertorio dopo il successo iniziale, Gemma di Vergy fu riportata sulle scene nel 1975 da Montserrat Caballé che la registrò ben tre volte su disco (due dal vivo: prima al SanCarlo di Napoli con Armando Gatto e poi a New York con Eve Queler, e una in studio nuovamente con Gatto e l’Orchestre Philharmonique de Radio France). La Caballé aveva giudicato la parte di Gemma difficile quanto tre Norme – e Norma quanto tre Brunildi…

Questa è la registrazione della produzione bergamasca del 2011 con un Roberto Rizzi Brignoli che non riesce a farci cambiare idea sulla qualità della musica dell’opera e una messa in scena di Laurent Gerber che allestisce un banale teatro dei pupi. Colpa di direttore e regista è di prendere troppo sul serio quest’opera e non proporne invece una lettura drammaturgica critica.

Per fortuna c’è Maria Agresta a sostenere un ruolo quasi impossibile che Donizetti aveva affidato a Giuseppina Ronzi de Begnis, cantante voluttuosamente in carne e di ribollente temperamento sfogato nei suoi alterchi con la rivale Anna Del Sere durante le prove della Maria Stuarda. Fin dal suo poderoso ingresso l’Agresta sfoggia una vocalità sicura e omogenea nei vertiginosi passaggi di registro. Quello che le manca è una presenza attoriale che renda più teatrali le smanie di questa donna fuori di senno, ma musicalmente il soprano lucano non ha rivali e l’ultima scena, con quel gioco di pianissimi e fiati lunghissimi, sta a dimostrarlo ampiamente. Gregory Kunde compie il miracolo di riuscire a dare senso a quel personaggio assurdo di Tamas con la sua generosità vocale e la sua credibilità scenica. Mario Cassi è il marito tentennante e solo la sua bella voce di baritono riesce a farci quasi dimenticare il suo risibile ingresso in scena con armigeri impacciati e un coro, soprattutto quello femminile, talora impacciato.

Costumi sontuosi compensano le scenografie appena abbozzate di Angelo Sala che però non si fa mancare sagome di cavalli come in un Ronconi al risparmio, e pure un vero falco con annesso falconiere.

Sulla confezione del disco si parla di un ideatore di “movimenti coreografici” del tutto inesistenti. Una stella in più del valore effettivo il disco se la merita per la proposizione del raro titolo.