Georg Büchner

Wozzeck

Alban Berg, Wozzeck

★★★★☆

New York, Metropolitan House, 11 gennaio 2020

(live streaming)

Il buon soldato Wozzeck

«Arriverà al MET» scriveva con entusiasmo il New York Times nell’agosto 2017 riguardo alla produzione del Wozzeck salisburghese. L’allestimento di William Kentridge aveva fatto scalpore allora per la sua complessità visiva: il mondo visionario dell’artista sudafricano diventava quello del protagonista in un horror vacui che non trascurava nessun punto della scenografia di Sabine Theunissen, una struttura di piattaforme precarie, che veniva ricoperta e resa irriconoscibile da un flusso di immagini fisse o in movimento.

Lo spettacolo ora al Metropolitan gioca sul dubbio se quello che vediamo sia un incubo frutto della mente sconvolta dell’uomo o sia reale (il ricordo della Grande Guerra). Infatti, dirigibili, biplani, fari della contraerea, maschere antigas, feriti, storpi, crocerossine, stampelle fanno pensare al periodo in cui Berg era al fronte e la scrittura della sua opera subiva un comprensibile rallentamento, ma la disumanizzazione di cui era testimone la riversava nell’intonazione del testo di Büchner. Una terza possibilità ci viene data: quello che vediamo è la visione al tempo della composizione di futuri ancora più tragici avvenimenti.

Il bombardamento di immagini cui è sopposto lo spettatore porta a condividere lo smarrimento del Capitano nella prima scena: «Langsam, Wozzeck, langsam! Eins nach dem Andern! | Er macht mir ganz schwindlich…» (Adagio,Wozzeck, adagio! Una cosa alla volta! Mi fa girar la testa…). Tanta è la solitudine di Wozzeck quanto è invece l’affollamento in scena di immagini, video, burattini. Sì, perché il bambino della coppia è un burattino con la maschera antigas, una figura che potrebbe essere uscita da un cartoon di Tim Burton oppure da una tela di George Grosz: non solo la donna non ha più un rapporto affettivo col padre del figlio, in quel mondo brutale non c’è neanche posto per il calore materno. Nell’angoscioso finale dell’opera il sipario scenderà sul corpo inerte del burattino di legno.

È la terza volta che Kentridge lavora per il MET dopo Il naso di Šostakovič (ottobre 2013) e la Lulu (novembre 2015). Alla Haus für Mozart Matthias Goerne e Asmik Grigorian erano diretti da Vladimir Jurowski, al Metropolitan il podio è per il suo direttore musicale Yannick Nézet-Séguin e nella parte del protagonista c’è un Peter Mattei che è difficile pensare debutti nella parte essendo tale la confidenza che dimostra nell’incarnare il personaggio. Inghiottito dalle immagini di Kentridge, il suo Wozzeck non ha quasi nulla della follia che lo porta a uccidere la moglie, anzi accetta con pazienza le angherie del Capitano – a cui non fa la barba ma mostra delle immagini animate di un proiettore che lui stesso aziona – o le sadiche pratiche che il Dottore gli somministra in un armadio da incubo espressionista e nella sua torpida inedia e ottusità ricorda piuttosto il soldato Šveik di Hašek.  Il baritono svedese delinea un Wozzeck quasi lirico con la sua bella voce che ricorda nel timbro quella di Dietrich Fischer-Dieskau. Forse è fin troppo ben cantato. Così è anche per la Marie di Elza van den Heever che manca della carica sensuale quasi animalesca che dovrebbe avere il personaggio. Gerhard Siegel è efficace nella parte non molto isterica qui del Capitano, mentre Christian Van Horn è un Dottore di sadica lucidità. Un Christopher Ventris talora affaticato dà corpo al Tamburmaggiore, Tamara Mumford è Margret e Andrew Staples Andres.

L’enorme orchestra del Wozzeck (1) ha pochi momenti in cui usa tutta la sua potenza sonora, ma quei singoli lancinanti accordi sono memorabili nella direzione di Yannick Nézet-Séguin. Per il resto la sua è una concertazione di grande trasparenza che tocca l’ineffabile nell’elegia che precede l’epilogo.

(1) Oltre agli archi (almeno cinquanta) l’orchestra comprende 4 flauti, 4 oboi, 4 clarinetti, clarinetto basso, 3 fagotti, controfagotto, 4 corni, 4 trombe, basso tuba e una sterminata percussione che include tra l’altro xilofono, celesta. Sono poi richieste una banda militare (atto primo, scena III), un’orchestrina sul palcoscenico per la taverna (atto secondo, scena IV) e un pianoforte scordato (atto terzo, scena III). I complessi sul palcoscenico possono essere formati da musicisti dell’orchestra: Berg fornisce nella partitura l’indicazione di quando i musicisti debbano lasciare la buca per recarsi sul palcoscenico e quando debbano farne ritorno.

Foto dell’allestimento salisburghese con Matthias Goerne e Jens Larsen

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Jacob Lenz

Wolfgang Rihm, Jakob Lenz

★★★★☆

Bologna,Teatro Comunale, 12 aprile 2012

(registrazione video)

Il peso dell’esistenza da Wozzeck a Lenz

Seconda, dopo Faust und Yorick (1976), delle Kammeroper di Wolfgang Rihm, Jakob Lenz fu presentata alla Staatsoper di Amburgo l’8 marzo 1979 riscuotendo subito un grande successo nel mondo germanico, diventando un classico del XX secolo ed entrando stabilmente in repertorio. Cosa non frequente per un compositore – per di più venticinquenne – della seconda metà del secolo scorso.

Il libretto di Michael Fröhling è liberamente tratto dal racconto di Georg Büchner Lenz, centrato sulla figura del poeta tedesco Michael Reinhold Lenz – primo fra i teorici dello Sturm und Drang – che anticipò il romanticismo proprio come Büchner fece con l’espressionismo. Lenz, nato nel 1751, fu trovato morto per strada a 41 anni. Scissa tra l’educazione religiosa pietista e l’attrazione per un naturalismo pagano ed erotico, la sua fu una vita di sofferenza ed emarginazione. Lenz fu amico di Goethe e proprio una frase del Faust, nella prima parte, «Due anime, ahimè, dimorano nel mio petto e una è sempre divisa dall’altra», allude al suo contrasto interiore. Lenz fu anche autore de Die Soldaten, il “bürgerliches Trauerspiel” (tragedia borghese) da cui sono tratte le opere di Manfred Gurlitt (Soldaten, 1930) e Bernd Alois Zimmermann (Die Soldaten, 1965), due capisaldi dell’opera del Novecento che ha riscoperto Lenz in tutta la sua attualità: i suoi Anmerkungen übers Theater (Osservazioni sul teatro), un saggio del 1775, sono in anticipo di quasi due secoli!

Nel lavoro di Rihm aleggia un filo conduttore che da Büchner giunge a Berg attraverso i personaggi di Lenz e di Woyzeck. Anche il ruolo di baritono affidato a Lenz coincide con quello del protagonista dell’opera di Berg e si può dire che Jakob Lenz inizi là dove finisce Wozzeck. Anche i due personaggi di Oberlin e Kaufmann richiamano il Capitano e il Dottore che nel finale disquisiscono sulla follia alla morte di Wozzeck. Qui essi sono positivi, vogliono aiutare, ma il loro aiuto è al di fuori della prospettiva dell’uomo.

Jakob Lenz non racconta la progressiva degenerazione psico-fisica del poeta, che è malato fin dall’inizio. Il suo crol​lo è so​lo un percorso di autocoscien​za anche se una certa evoluzione si nota nell’uso dei diversi colori orchestrali col procedere della malattia del poeta: la mu​si​ca sca​va sempre più in profon​di​tà e dal de​li​rio si pas​sa al​lo psicodramma.

«L’opera è costituita da dodici quadri e da un epilogo: fin dalla prima battuta risuona, affidato ai violoncelli, quell’accordo si-fa-sol bemolle che costituirà una sorta di Leitmotiv e dal quale deriveranno altri due intervalli chiave […]. Lenz si presenta sulla scena (subito insieme al coro che ne rappresenta il prisma riflettente psicologico) “con un grido disumano tenuto a lungo”. Il secondo quadro si basa sul contrasto tra il timbro scuro di Oberlin e il falsetto acuto, immateriale e inquietante di Lenz. Le rapide figure scalari del clavicembalo, che siglano (insieme agli accordi sincopati dell’orchestra) il brevissimo interludio strumentale che collega secondo e terzo quadro, ritorneranno nell’arco della scena stessa e saranno rievocati, come spettri ossessivi, anche in altri momenti dell’opera. Lenz giace su un letto, in una stanza dove campeggia, sul muro, un Cristo, e non riesce a dormire. Il senso delle sue farneticazioni, sospese tra il desiderio erotico e il misticismo visionario, è concentrato nelle poche, intensissime battute del Lied corale sulle parole “Auf dieser Welt hab’ ich kein’ Freud'” (In questo mondo non ho gioia). Nel quarto quadro, Oberlin trova Lenz che sta facendo il bagno e lo incoraggia a gioire della natura e del creato. Lenz si lascia trascinare in un’euforia che è solo l’altra faccia della più cupa depressione. L’abbandono visionario alle immagini consolatrici si concentra, con l’intervento delle voci, in un Ländler che sfocia in un ‘Quasi corale’. Nel quinto quadro, Lenz chiede a Oberlin di lasciarlo predicare, poiché ha studiato da teologo. Il suo sermone, che comincia con uno Sprechgesang e via via si anima fino al canto spiegato, culmina in un dialogo con le voci e con i bambini, dominato da un sorriso beffardo, stravolto e carico di allucinazioni mistiche. Il sesto quadro, incentrato sul colloquio di Lenz con Kaufmann, disegna il profilo di un parroco ottuso e un po’ sadico, che dopo aver burlato il poeta, lentamente comincia a ‘torturarlo’ psicologicamente in un crescendo di aggressività. In questo episodio, intessuto sulla presenza costante, come punto di riferimento melodico e armonico, dell’intervallo di terza minore, il registro tenorile piuttosto acuto di Kaufmann e la sua ambiguità ironica, ricordano in qualche modo il personaggio del capitano nel Wozzeck di Berg. Un intenso Interludio strumentale dal sapore mahleriano avvia il settimo quadro, molto lirico e intenso. Lenz, solo, in mezzo alla natura, canta il tema della perdita e della salvazione, sostenuto, poi, dall’intervento madrigalistico del coro e delle voci bianche. Una citazione dalle Kinderszenen di Schumann aleggia nell’interludio strumentale tra settimo e ottavo quadro, nella quale Lenz chiede a Oberlin notizie della ragazza che ama e per la quale soffre così tanto. Oberlin, ormai, stenta a trovare un punto di contatto con lui. Lenz intona una melodia nostalgica e ricca di cromatismi, sulle parole “Wenn sie so durch das Zimmer ging, war jeder Schritt für mich Musik”(Quando lei andava e veniva per la stanza ogni suo passo era per me musica), accompagnata da un ostinato percussivo che avvolge il canto in una pàtina di alienazione. Il quadro nono, ‘Quasi una sarabanda’, comincia con un ritmo ossessivo che sembra dilatarsi emotivamente all’intera sezione. Il coro riprende le parole “Auf dieser Welt hab’ ich kein’ Freud'” e il dialogo con Lenz si fa sempre più straniato e disarticolato. Una voce femminile intona una sorta di melodia virtuosisticamente ornata giurando di essere sua e implorandolo di non abbandonarla mai più. Nel decimo quadro Lenz sta seguendo il corteo funebre di una bambina, che crede la sua donna. Sui battiti ossessivi di un’incudine, il poeta e il coro sussurrano un frammentario parlato ritmico. Nel penultimo episodio, Lenz vaga senza meta, nella campagna, all’alba. Un dialogo straziante con le voci lo spinge alla decisione di uccidersi, per seguire l’amata. Il coro, alternando momenti omoritmici ad altri di complessità contrappuntistica, scandisce, sulle parole “Du must sterben” (Tu devi morire) un ritmo complesso già ascoltato nel settimo quadro (affidato ai violoncelli, sulle parole “Sie ist verloren” (Ella è perduta) del sestetto vocale) e che ritornerà anche nella prossima. L’episodio si conclude con il crollo di Lenz sottolineato dall’esplosione angosciante delle percussioni. Kaufmann ha trovato Lenz ferito, che dopo aver cercato di riesumare la salma della fanciulla morta, ha tentato di uccidersi. Il terzetto cresce di intensità mostrando Kaufmann sempre trincerato dietro il suo crudele buon senso e Oberlin ormai scoraggiato. Lenz continua ad invocare l’amata, finché non gli viene messa una camicia di forza. Poco dopo, nel quadro conclusivo, avviene il distacco definitivo dal mondo. Lenz è ormai completamente perso nelle sue visioni ed ossessioni. Oberlin è straziato e Kaufmann lo accusa di aver accolto un pazzo. Lenz ripete, in lontananza, “Konsequent… Konsequent…”». (Lidia Bramani)

In Italia Jakob Lenz è stato allestito per la prima volta nel 2007 al Teatro Lauro Rossi di Macerata, nella messa in scena di Henning Brockhaus, con finalità didattiche all’interno del “Master di primo livello in organizzazione, produzione e comunicazione per il Teatro Musicale” organizzato dall’Accademia delle Belle Arti di Macerata e dalla Regione Marche.

Il regista tedesco firma anche le luci e la scenografia: una stanza che sembra quella di un ospedale psichiatrico estremamente deteriorato – finestre dai vetri se non rotti luridi, muri che trasudano umidità, una vasca da bagno ripugnante, una latrina immonda, un letto di ferro; un universo claustrofobico che sostituisce le diverse scene del racconto di Büchner. Qui però le pareti sono di gomma, si deformano e si animano coi deliri del poeta in una visione sconvolta sempre più scollata dal mondo intorno a sé. Alla ricerca di una impossibile comunicazione, si ha la sensazione che il pa​sto​re Ober​lin, l’ami​co Kaufmann, il coro e le voci siano proiezioni in carne e ossa delle molteplici e contrastanti sfaccettature della personalità del poeta, dei suoi assilli, dei pensieri deliranti rivolti alla donna amata. Brockhaus usa il suo linguaggio simbolico nella lettura di Jacob Lenz. Dalle finestre entra la pioggia e Lenz chino a un tavolino col cappotto e la testa nascosta tra le mani.

Passando da Lugo – forse la sala ideale per dimensioni – questa semplice e forte produzione arriva a Bologna. Marco Angius, propugnatore dei lavori contemporanei di cui è interprete di riferimento, legge la partitura con grande chiarezza e partecipazione e dipana i particolari minimi e penetranti della partitura, fino a trascinarli in scheletriche esplosioni sonore con una scarna orchestra formata da soli tredici elementi che comprendono un clavicembalo, che dal ruolo di accompagnatore qui diventa strumento protagonista, e tre violoncelli che diventano il sinonimo di un’intera orchestra d’archi. Così avviene per i sei strumenti a fiato, 2 per tre come i personaggi in scena. Tutti maschili, sono affidati a efficaci interpreti: il poeta Jakob Lenz, Thomas Möwes, intrepido nel passaggio tra i diversi stili di canto richiesti; il parroco Oberlin, Markus Hollop; l’amico Kaufmann, Daniel Kirch. Le trasfigurate voci che citano la musica madrigalistica trovano un’ottima realizzazione in sei voci femminili e due bianche.

Wozzeck

Alban Berg, Wozzeck

★★★★★

Monaco, Nationaltheater, 23 Novembre 2019

(diretta streaming)

Il coltello nell’acqua

Nei quattordici anni della repubblica di Weimar (1919-1933, due in più del periodo Nazista) vi fu un rigoglioso fiorire artistico in tutti i campi. In musica ricordiamo almeno Strauss, Korngold, Brauenfels, Berg, Zemlinsky, Hindemith. Come autori di “arte degenerata” molti furono poi messi a tacere, banditi o peggio annientati .

Il libretto del Wozzeck, messo in scena nel 1925, ha qualcosa di sinistramente profetico quando parla di fumo che esce da una fornace («Und sieh, es ging der Rauch auf vom Land, wie ein Rauch vom Ofen»), anche se è una citazione biblica, e di esperimenti sul corpo del povero attendente, richiamando alla mente sadici esperimenti in altri laboratori dell’orrore.

Tutto è lucidamente messo in scena da Andreas Kriegenburg, la cui produzione del 2008 viene ora riproposta dalla Bayerische Staatsoper. I personaggi sembrano usciti dai dipinti di Georg Grosz o Otto Dix con i loro costumi deformanti (di Andrea Schraad) mentre una folla anonima in nero è costretta a portare letteralmente sulle proprie spalle la piattaforma su cui suona l’orchestrina del terzo atto, oppure raccatta  le monetine gettate nell’acqua. Già, perché nella scenografia di Harld B. Thor questo è un elemento presente fin dall’inizio, come se lo stagno in cui annega il protagonista nel finale fosse tracimato. L’acqua allaga il palcoscenico come in un set cinematografico e l’allestimento del regista tedesco cita il mezzo filmico anche nell’uso della camera senza finestre di Marie, che avanza e retrocede come in uno zoom, o nel gioco luci di Stefan Bolliger. Il reiterato gesto del coltello gettato nell’acqua sembra poi richiamare il titolo del famoso film d’esordio di Roman Polański (Nóż w wodzie, 1962).

Il dramma dell’uomo Wozzeck, secondo Kriegenburg, è la solitudine, l’alienazione: egli non è mai richiamato al suo ruolo di padre, anzi quando il figlio scrive la parola “papà” sul muro la cancella nervosamente. Né ha momenti di tenerezza per la donna, mai, neppure all’inizio. A difesa dell’accusa di immoralità e depravazione che gli vengono mosse dal Capitano e dal Dottore, Wozzeck replica che «noi povera gente non potremmo vivere come voi per quanto ci sforzassimo: le regole della virtù e del vizio sono state stabilite da voi e da altri come voi: per questo seguirle vi è tanto facile». Come scrive Zygmunt Bauman nel suo Danni collaterali: «Se Andrea Kriegenburg […] potesse riscrivere le parole di Wozzeck nella lingua del pubblico a lui contemporaneo, sostituirebbe forse “Wir arme Leut’” con “Wir, die Unterklasse”: la “sottoclasse” non è una comunità, bensì una categoria. L’unico attributo comune a chiunque ne faccia parte è il marchio infamante dell’alienazione, dell’essere stato estromesso». Essere poveri significa essere soli. «È lo stigma di un’esclusione assoluta, che preclude l’accesso a luoghi e situazioni in cui ogni altra identità umana e ogni titolo di riconoscimento sono creati, negoziati, prodotti o smantellati».

Grande è l’attenzione del regista per gli attori/cantanti, alcuni appartenenti a passate edizioni. John Daszak (Tambourmajor), Wolgang Ablinger-Sperrhacke (Hauptmann), Kevin Konners (Andres), Jens Larsen (Doktor) e Heike Grötzingers (Margret) sono tutti efficaci nel tratteggiare la mostruosità della loro condizione e coerenti nella loro interpretazione con la lettura del regista.

Christian Gerhaher debutta a Monaco nel ruolo del titolo e diversamente ad esempio di Simon Keenlyside del 2013 non evidenzia l’aspetto disconnesso del personaggio, ma ne dà una lettura molto fredda, che rende ancora più terribile il suo destino. Sul piano vocale l’esperienza liederistica del baritono tedesco (che è stato allievo di Dietrich Fischer-Dieskau e di Elisabeth Schwarzkopf) fornisce profondità al personaggio mentre il passaggio dal canto al parlato è sempre realizzato con eleganza. Gun-Brit Barkmin è una sofferta Marie: madre suo malgrado, amante suo malgrado, essere che non ha spazio in questo mondo.

Hartmut Haenchen, debuttante alla Bayerische Staatsoper, riprende la concertazione dell’opera affidata in passato a Kent Nagano e Lothar Koenigs. Chiarezza e intensità contraddistinguono la sua lettura di una complessa partitura che affida alle forme musicali del passato il suo potente messaggio: la suite, la passacaglia e il rondò del primo atto, la sinfonia in cinque atti del secondo e le invenzioni musicali del terzo. Tutto è reso con trasparenza di dettagli e stile appropriato. Lo ha seguito con convinzione la magnifica orchestra del teatro.

Wozzeck

Alban Berg, Wozzeck

★★★★★

Amsterdam, het Muziektheater, 20 marzo 2017

(video streaming)

La negazione dell’infanzia nel Wozzeck di Warlikowski

Dal sipario di raso nero sbuca una coppia di impettiti mini ballerini. Assieme ad altri li vedremo in una silenziosa gara di ballo. Un bambino in scena è però refrattario a questa esibizione di finta eleganza: è il piccolo Wozzeck, emarginato dagli altri suoi coetanei.

Trascorrono 7 minuti e 31 secondi prima che si senta una nota dell’opera in programma, Wozzeck di Alban Berg. Nel frattempo è arrivato in scena il protagonista titolare per pulire la pista da ballo prima di ritornare a fare il barbiere e radere il Capitano.

Krzystof Warlikowski e la fedele scenografa Małgorzata Szczęśniak portano in scena ad Amsterdam il lavoro tratto da Büchner che Alban Berg aveva presentato nel 1925. Quando aveva diciassette anni Berg aveva messo incinta una domestica. La cosa era stata messa a tacere, ma il senso di colpa aveva perseguitato il compositore per il resto dei suoi giorni. Da questo episodio parte la lettura del regista polacco che già aveva messo in scena il lavoro nel 2006 al Teatr Wielki di Varsavia. Questa rimane una delle sue migliori creazioni. La sua non è una lettura politica, ma è centrata sulla psicopatologia dell’infelice Wozzeck, qui un adulto mal cresciuto dal parrucchino biondo e con gli occhiali cerchiati, come quelli del figlio, il bambino che abbiamo visto e che è spesso in scena, muto spettatore dell’abiezione della sua famiglia. Egli stesso rifiuta il padre, che non lo guarda mai.

La pantomima iniziale non è l’unica inserzione estranea all’opera: durante il primo interludio il regista fa recitare al bambino, completandola, la favola raccontata da Marie nella scena prima del terzo atto, mentre nel secondo atto alcuni strumentisti salgono sul palco per eseguire il largo, terzo dei cinque movimenti della sinfonia, perno musicale e drammatico dell’opera in cui le parole della donna «Lieber ein Messer in den Leib, als ein Hand auf mich» (meglio un coltello in corpo che le tue mani su di me) fanno scattare la molla omicida nell’uomo. Nella scena della taverna ritornano le coppie di mini ballerini, il primo garzone è un attempato entertainer e il secondo un travestito in guépière.

Particolarmente rispondente agli stimoli musicali è l’attenzione del regista e la messa in scena per una volta chiara e a suo modo fedele alla narrazione, anche se il coltello con cui Wozzeck taglia la gola a Marie è il suo rasoio e non è in uno stagno che lo getta, ma in un putrido acquario in cui poi lava le mani insanguinate e in cui il figlio nel finale immerge gli organi del manichino anatomico presente sul fondo fin dall’inizio.

Ogni volta che si ascolta l’opera di Berg ci si meraviglia della stupefacente orchestrazione con cui il compositore ha saputo ammantare questa trucida vicenda, come se in modo inversamente proporzionale all’abiezione della storia egli volesse contrapporre una musica di grande raffinatezza. Nelle mani di Mark Albrecht l’Orchestra Filarmonica Olandese fa baluginare le lucenti armonie e i motivetti volgari, le strazianti reminiscenze mahleriane e gli spasmodici scoppi orchestrali, i desolati pianissimi e i lancinanti crescendo. La lettura che fa il direttore di Hannover della rigorosa gabbia formale scelta dal compositore è lucida e trasparente, ma anche piena di un lirismo sotteso.

Rispondono a meraviglia gli eccellenti interpreti, tutti debuttanti nei rispettivi ruoli. Christopher Maltman è un Wozzeck rassegnato e intenso che dipana i suoi allucinati dialoghi con la meccanica determinazione di chi sa di avere il destino segnato: «Wir, arme Leute […] armer Teufel […] armen Wurm» (noi, povera gente; povero diavolo; povera creaturina) sono le sue frequenti espressioni. Eva-Maria Westbroek, quasi irriconoscibile sotto il pesante trucco da prostituta e la parrucca rossa, è una drammaticamente intensa Marie. Squillante Tambourmajor per una volta non caricaturale è quello di Frank van Aken, mentre più marcata è la eccellente prestazione di Marcel Beekman, Capitano e poi Pazzo in sedia a rotelle mascherato da pontefice. Jason Bridges è il sensibile Andres e Sir Willard White delinea con autorevolezza il sadico Dottore. Ursula Hesse van den Steinen è una cinica Margret che canta al microfono del locale la sua rassegnata filosofia esistenziale: «In’s Schwabenland, da mag ich nit, | Und lange Kleider trag ich nit, | Denn lange Kleider, spitze Schuh, | Die kommen keiner Dienstmagd zu» (Non voglio andare in Svevia, no, né vesti lunghe voglio, no, ché vesti lunghe, scarpine a punta, non sono adatte a una serva). Una menzione particolare va al bravissimo Jacob Jutte, membro del coro di voci bianche della città.

Wozzeck

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★★★☆☆

Wozzeck messo a nudo

Il Woyzeck di Georg Büchner fu ispirato da un fatto di cronaca: un barbiere di Lipsia nel 1821 aveva ammazzato la moglie e poi si era suicidato. Scritto nel 1837 e rimasto incompiuto per la morte dell’autore, era riapparso nel 1879 in forma di frammento e variamente completato da diversi scrittori. Berg aveva avuto fra le mani proprio quell’edizione in cui il nome del protagonista era stato stampato per errore ‘Wozzeck’ e come tale fu utilizzato per il titolo dell’opera.

Era passato dunque un secolo da quel fatto di cronaca, ma la vicenda conservava una sorprendente modernità nel 1922, anno in cui Berg termina la stesura della partitura. La situazione culturale e sociale nel mondo di lingua tedesca era ovviamente ben diversa. Nelle arti aveva fatto irruzione il movimento espressionista, che proprio in quegli anni giungeva al suo esaurimento in letteratura e in pittura, ma prendeva nuova forma nella cinematografia. La situazione politica era dominata dalla difficile crisi economica e dall’inquietudine sociale di cui approfitterà un certo imbianchino e pittore mancato di Braunau am Inn con buffi baffetti.

L’opera di Berg venne rappresentata solo alla fine del 1925. Un’altra versione operistica del Wozzeck dovuta a Manfred Gurlitt uscirà con lo stesso titolo l’anno seguente. Le 27 brevi scene del lavoro di Büchner vengono tradotte dal compositore austriaco in 15 scene dalla struttura molto precisa: cinque pezzi caratteristici per il primo atto (suite, rapsodia, marcia, passacaglia e rondò), una sinfonia in cinque movimenti per il secondo atto e cinque invenzioni musicali per il terzo.

Atto primo. Scena I. Stanza del Capitano. Di buon mattino. Il Capitano, come di consueto, si fa radere dall’attendente Wozzeck, e intanto conversa con lui. Parla del corso del tempo, della brevità della vita e dell’eternità. Wozzeck, che ha fretta, si limita a rispondere «Signorsì, signor capitano». Il Capitano si diverte per la bonarietà di Wozzeck, ma contemporaneamente, invidioso della sua relazione con Marie, lo rimprovera di non avere morale, perché ha un bambino da lei senza esserne sposato. A questi rimproveri Wozzeck si lascia andare a esporre le sue ragioni, dicendo che la gente povera come lui non ha tempo per la moralità, visto che non ha di che vivere. Il Capitano, sconcertato dalle parole del soldato, trova una spiegazione: Wozzeck pensa troppo, e poi lo manda via. Scena II. Aperta campagna, sullo sfondo la città. Tardo pomeriggio. Wozzeck e il suo commilitone Andres raccolgono in un bosco legna per il Capitano. Andres canta una canzone di caccia. Wozzeck è in preda ad allucinazioni e scorge ovunque immagini di incubo e di terrore. Scena III. La stanza di Maria. Sera, Maria è alla finestra con il bambino avuto da Wozzeck e osserva passare al suono di una marcia i soldati e ne ammira soprattutto il prestante Tamburmaggiore. Ne nasce un battibecco con la vicina Margret, che le rimprovera la sua condotta. Chiusa la finestra, Maria canta una ninnananna al suo bambino che si addormenta. Wozzeck bussa alla finestra. Non ha tempo di entrare in casa perché deve rientrare in caserma. Non riesce a liberarsi delle allucinazioni e visioni avute nel bosco, si sente inseguito e pronuncia frasi sconnesse. Marie non riesce a calmarlo, e Wozzeck si allontana senza nemmeno aver dato uno sguardo al suo bambino. Marie siede esasperata e disperata. Scena IV. Studio del Dottore. Pomeriggio pieno di sole. Si ha qui una prima chiave del contegno strano di Wozzeck: il Dottore, attraverso le sue stravaganti teorie sulla nutrizione, vuole provocare una rivoluzione nella scienza e, per tre soldi al giorno, Wozzeck si sottopone ai suoi esperimenti. Il Dottore rimprovera Wozzeck per aver urinato per strada. Wozzeck cerca di scusarsi «Ma, signor Dottore, quando interviene la natura!» mentre il Dottore insiste sulla sua teoria: «Non ho dimostrato forse che la vescica è sottoposta alla volontà?». Wozzeck è ancora sotto l’incubo del bosco e risponde al Dottore in modo da convincerlo della sua latente follia. Invece di aiutarlo, il Dottore si compiace per le possibilità che gli può offrire la presunta nevrosi di Wozzeck. Scena V. Strada davanti alla porta di Maria. Al crepuscolo. Marie ammira la prestanza fisica del Tamburmaggiore, che si pavoneggia davanti alla sua casa. Marie respinge dapprima le sue avances, quando però queste diventano più violente, cede ad esse quasi fatalisticamente.
Atto secondo. Scena I. La stanza di Maria. È mattina, c’è il sole. Maria seduta con il bambino in grembo si guarda in uno specchio rotto che tiene in mano e ammira gli orecchini che le ha regalato il Tamburmaggiore. Si accorge tardi di Wozzeck, che è arrivato all’improvviso, e non riesce a nascondere gli orecchini. Wozzeck si insospettisce. Poi si calma, le consegna la paga e si allontana. Maria è in preda al rimorso. Scena II. Strada in città. Giorno. Il Capitano trattiene il Dottore, sebbene questi abbia evidentemente fretta. I due si scambiano qualche garbato insulto, ma poi il Dottore si fa prendere la mano dal suo sadismo e prognostica al Capitano, solo in base alla sua “brutta cera” un prossimo e probabile accesso di apoplessia. Sopraggiunge Wozzeck il quale viene provocato pesantemente dai due presenti con allusioni alla sua vita privata, aumentando nel soldato il sospetto del tradimento di Marie. Scena III. Strada davanti alla porta di Maria. Giornata grigia. Wozzeck ritorna verso la casa di Marie, e ha con lei un furioso litigio. La donna nega le accuse di Wozzeck e quando questo alza le mani su di lei, Marie gli urla con disprezzo: «Non toccarmi! Meglio un coltello in corpo che le tue mani su di me!». Da questo momento in poi l’idea del coltello non lascerà più Wozzeck. Scena IV. Giardino di una locanda. Tarda sera. Il soldato vede Marie e il Tamburmaggiore ballare insieme in mezzo alla folla ubriaca di soldati, operai e serve. Dopo che Andres si è allontanato annoiato da lui, Wozzeck freme in silenzio in un angolo. Un pazzo gli si avvicina dicendogli: «Sento odore di sangue!» a cui segue il grido allucinato di Wozzeck: «Sangue, sangue!».  Scena V. Corpo di guardia in caserma. Notte. Dopo aver confidato ad Andres il torturante ricordo della danza di Marie con l’amante, Wozzeck viene provocato dall’ubriaco Tamburmaggiore. Il soldato non reagisce, ma viene lo stesso sbattuto a terra e picchiato a sangue.
Atto terzo. Scena I. La stanza di Maria. È notte. Lume di candela. Wozzeck non è stato da Marie già da due giorni. La donna è sola con il bambino e legge la storia dell’adultera nel Vangelo. Prima respinge il bambino, che sembra disturbarla, poi lo richiama a sé e gli narra quello che ha letto come una fiaba. Scena II. Sentiero nel bosco presso lo stagno. Annotta. Wozzeck e Maria camminano. Maria vuole affrettarsi a tornare in città ma Wozzeck la costringe a fermarsi in riva allo stagno. L’uomo estrae un coltello e affonda la lama nel collo della donna. Scena III. Una bettola. Notte. Luce debole. Giovani e prostitute ballano una polka sfrenata. Wozzeck, ubriaco fradicio, fa la corte a Margret, la quale però si accorge del sangue sulle mani dell’uomo. I presenti si affollano minacciosi intorno a Wozzeck che fugge precipitosamente dall’osteria nella notte. Scena IV. Sentiero nel bosco presso lo stagno. Notte di luna come prima. Wozzeck torna sul luogo del delitto a cercare il coltello che ha dimenticato. Inciampa nel cadavere di Marie ma riesce a trovare il coltello e lo getta nello stagno. Temendo di non averlo gettato abbastanza lontano decide di entrare in acqua per cercarlo nuovamente. Mentre si lava le mani dal sangue, gli sembra che tutta l’acqua, che riflette una luna rossa, si tinga di color di sangue. Sconvolto e senza speranza si lascia andare, annegando nello stagno. Scena V. Strada davanti alla porta di Maria. È mattino chiaro. Splende il sole. Il bambino sta giocando con i compagni. Alcuni ragazzi passando gli gridano: «Ehi, tu! Tua madre è morta». Il bambino non capisce e continua a cavalcare il cavallo di legno.

Influenzato sia dal tardo romanticismo di Mahler che dalle nuove ricerche di Schönberg, in Wozzeck Alban Berg si svincola dall’armonia tonale, che con Wagner e Debussy era arrivata alle sue estreme possibilità, e utilizza sistematicamente la dissonanza, l’atonalità o addirittura la dodecafonia. Il vecchio e sempre vivo problema dell’opera è impostato e risolto in modo geniale e il suo «è un punto di partenza, dunque, e non un binario morto della storia musicale» (Massimo Mila).

Per l’edizione del Gran Teatre del Liceu di Barcellona del 2007 Calixto Bieito cambia il contesto dell’opera di Büchner-Berg: per illustrare l’alienazione e lo sfruttamento dell’uomo non c’è l’esercito del XIX secolo, ma un impianto industriale fantascientifico. La scena infatti ha tubi e condotte a perdita d’occhio (sembra di essere nelle viscere di un’immane bestia di metallo), la casa di Marie è un container illuminato da una crudele luce fluorescente, una passerella in alto è il luogo delle camminate del dottore (una specie di macellaio che effettua i suoi obbrobriosi esperimenti sui corpi degli operai morti) e il capitano (che sfoggia volgari catene d’oro). Tutti gli altri personaggi vestono una tuta rossa da lavoro mentre il tamburmaggiore è un Elvis Presley con parrucca bionda che non si capisce come sia capitato lì.

Bieito non lesina sugli effetti, talora decisamente horror, che però in questo modo smorzano l’impatto della musica stessa, già di per sé angosciosa, della truce vicenda. Se certi momenti sono splendidamente teatrali, come quando sulla musica struggente dell’adagio dell’epilogo, dopo tanti corpi torturati e abbrutiti, sporchi e lividi appaiono nella loro gloriosa bellezza i corpi di giovani nudi che avanzano sotto una doccia purificatrice e rappresentano l’unico momento di luce della vicenda (si sa che Bieito difficilmente rinuncia all’esibizione di nudi nelle sue regie, ma qui ha una sua giustificazione), altrove nello spettacolo una mano più leggera sugli effetti non avrebbe nuociuto. D’altronde con Büchner, Berg e Bieito non ci si poteva aspettare uno spettacolo di intrattenimento sollazzevole.

I due personaggi principali sono interpretati da Franz Hawlata e Angela Denoke con intensità e convinzione. Corretti gli altri interpreti e di prim’ordine la direzione di Sebastian Weigle.

Negli extra un interessante documentario con interviste al direttore d’orchestra e al regista.

  • Wozzeck, Albrecht/Warlikowski, Amsterdam, 20 marzo 2017
  • Wozzeck, Haenchen/Kriegenburg, Monaco, 23 novembre 2019
  • Wozzeck, Nézet-Séguin/Kentridge, New York, 11 gennaio 2020