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Alban Berg, Wozzeck
★★★★☆
New York, Metropolitan House, 11 gennaio 2020
(live streaming)
Il buon soldato Wozzeck
«Arriverà al MET» scriveva con entusiasmo il New York Times nell’agosto 2017 riguardo alla produzione del Wozzeck salisburghese. L’allestimento di William Kentridge aveva fatto scalpore allora per la sua complessità visiva: il mondo visionario dell’artista sudafricano diventava quello del protagonista in un horror vacui che non trascurava nessun punto della scenografia di Sabine Theunissen, una struttura di piattaforme precarie, che veniva ricoperta e resa irriconoscibile da un flusso di immagini fisse o in movimento.
Lo spettacolo ora al Metropolitan gioca sul dubbio se quello che vediamo sia un incubo frutto della mente sconvolta dell’uomo o sia reale (il ricordo della Grande Guerra). Infatti, dirigibili, biplani, fari della contraerea, maschere antigas, feriti, storpi, crocerossine, stampelle fanno pensare al periodo in cui Berg era al fronte e la scrittura della sua opera subiva un comprensibile rallentamento, ma la disumanizzazione di cui era testimone la riversava nell’intonazione del testo di Büchner. Una terza possibilità ci viene data: quello che vediamo è la visione al tempo della composizione di futuri ancora più tragici avvenimenti.
Il bombardamento di immagini cui è sopposto lo spettatore porta a condividere lo smarrimento del Capitano nella prima scena: «Langsam, Wozzeck, langsam! Eins nach dem Andern! | Er macht mir ganz schwindlich…» (Adagio,Wozzeck, adagio! Una cosa alla volta! Mi fa girar la testa…). Tanta è la solitudine di Wozzeck quanto è invece l’affollamento in scena di immagini, video, burattini. Sì, perché il bambino della coppia è un burattino con la maschera antigas, una figura che potrebbe essere uscita da un cartoon di Tim Burton oppure da una tela di George Grosz: non solo la donna non ha più un rapporto affettivo col padre del figlio, in quel mondo brutale non c’è neanche posto per il calore materno. Nell’angoscioso finale dell’opera il sipario scenderà sul corpo inerte del burattino di legno.
È la terza volta che Kentridge lavora per il MET dopo Il naso di Šostakovič (ottobre 2013) e la Lulu (novembre 2015). Alla Haus für Mozart Matthias Goerne e Asmik Grigorian erano diretti da Vladimir Jurowski, al Metropolitan il podio è per il suo direttore musicale Yannick Nézet-Séguin e nella parte del protagonista c’è un Peter Mattei che è difficile pensare debutti nella parte essendo tale la confidenza che dimostra nell’incarnare il personaggio. Inghiottito dalle immagini di Kentridge, il suo Wozzeck non ha quasi nulla della follia che lo porta a uccidere la moglie, anzi accetta con pazienza le angherie del Capitano – a cui non fa la barba ma mostra delle immagini animate di un proiettore che lui stesso aziona – o le sadiche pratiche che il Dottore gli somministra in un armadio da incubo espressionista e nella sua torpida inedia e ottusità ricorda piuttosto il soldato Šveik di Hašek. Il baritono svedese delinea un Wozzeck quasi lirico con la sua bella voce che ricorda nel timbro quella di Dietrich Fischer-Dieskau. Forse è fin troppo ben cantato. Così è anche per la Marie di Elza van den Heever che manca della carica sensuale quasi animalesca che dovrebbe avere il personaggio. Gerhard Siegel è efficace nella parte non molto isterica qui del Capitano, mentre Christian Van Horn è un Dottore di sadica lucidità. Un Christopher Ventris talora affaticato dà corpo al Tamburmaggiore, Tamara Mumford è Margret e Andrew Staples Andres.
L’enorme orchestra del Wozzeck (1) ha pochi momenti in cui usa tutta la sua potenza sonora, ma quei singoli lancinanti accordi sono memorabili nella direzione di Yannick Nézet-Séguin. Per il resto la sua è una concertazione di grande trasparenza che tocca l’ineffabile nell’elegia che precede l’epilogo.
(1) Oltre agli archi (almeno cinquanta) l’orchestra comprende 4 flauti, 4 oboi, 4 clarinetti, clarinetto basso, 3 fagotti, controfagotto, 4 corni, 4 trombe, basso tuba e una sterminata percussione che include tra l’altro xilofono, celesta. Sono poi richieste una banda militare (atto primo, scena III), un’orchestrina sul palcoscenico per la taverna (atto secondo, scena IV) e un pianoforte scordato (atto terzo, scena III). I complessi sul palcoscenico possono essere formati da musicisti dell’orchestra: Berg fornisce nella partitura l’indicazione di quando i musicisti debbano lasciare la buca per recarsi sul palcoscenico e quando debbano farne ritorno.




Foto dell’allestimento salisburghese con Matthias Goerne e Jens Larsen
⸪