Giuseppe Bardari

Maria Stuarda

Gaetano Donizetti, Maria Stuarda

★★★☆☆

Zurigo, Opernhaus, 27 settembre 2020

(live streaming)

Due regine, un trono: la grottesca Totentanz di Alden

Terzo appuntamento della trilogia della speranza lanciata dall’Opera di Zurigo: tre grandi opere messe in scena in tre serate consecutive e trasmesse in live streaming. Un segno di vitalità del teatro in musica in tempo di pandemia. Dopo Die Csárdásfürstin e Boris Godunov, si affronta il belcanto italiano con Maria Stuarda, a sua volta il secondo pannello pannello della “trilogia Tudor” di Donizetti.

L’Opera di Zurigo ha voglia di fare e ha a disposizione dei budget che consentono ingaggi come quelli di questa produzione di due anni fa. La messa in scena si vede che non è stata progettata per le limitazioni dovute alla pandemia, ma il problema dell’assenza del coro in scena è risolto con dei figuranti che hanno la mascherina protettiva e quindi non si capisce se cantano oppure no – ovviamente no, essendo il coro a un chilometro di distanza, come l’orchestra. Purtroppo si sente la mancanza di un direttore fisicamente a ridosso dei cantanti, soprattutto nei concertati che denunciano qualche scollatura. Enrique Mazzola alla testa della Philharmonia Zürich stacca tempi molto rilassati, forse un ritmo più incalzante avrebbe messo in difficoltà i cantanti in questa situazione, così che la preghiera di Maria nell’ultima parte ha meno risalto di quanto avrebbe, anche se Diana Damrau, una delle interpreti della produzione del 2018 assieme a Nicolas Testé, fa di tutto per renderla toccante. Il colore scuro della partitura è bene realizzato dal direttore italo-spagnolo che punta ai dettagli orchestrali, ai suoni ovattati dei legni e a quelli metallici degli ottoni stesi sul sontuoso tappeto degli archi. Frequenti sono piccoli tagli ai recitativi.

Al debutto nella parte Diana Damrau esibisce le sue risorse migliori: fiati immensi, legati, mezze voci e una grande intensità espressiva. Mancano i sopracuti alla fine delle arie, ma la performance si incide nella memoria per il temperamento esibito nel duello verbale con Elisabetta, qui Salome Jicia, anche lei al debutto in Donizetti. Il soprano georgiano dimostra una notevole presenza vocale ma la dizione è quasi incomprensibile. Ahimè, una grande delusione è il Roberto di Paolo Fanale, esangue e dagli acuti tirati, un Nemorino fuori posto. Nicolas Testé non è mai stato particolarmente convincente dal punto di vista vocale e neanche questa volta lo è: il suo è un Talbot spento e grigio. André Courville è un Cecil vocalmente grezzo e rovinato dalla regia.

La regia, dunque. Alden enuncia fin da subito il tema: durante la sinfonia iniziale le due regine si affrontano nel vuoto dello spazio marmoreo di Gideon Davey che firma anche i costumi. Al centro il baluginio delle pietre preziose di una corona su una sedia: due regine, un solo trono. La lettura di Alden e la drammaturgia di di Fabio Dietsche sono estremamente semplicistiche e con scelte al limite del grottesco, come lo scheletro dorato che scende dall’alto o il Cecil dall’aria truce che si aggira minaccioso con una scure per tutta la durata dell’opera fino a farla scendere con sadica soddisfazione sulla testa della Stuarda nel finale. I personaggi sono in abiti che mescolano elementi di varie epoche, costumi non molto comodi in cui spesso gli interpreti inciampano o non riescono a levarsi di dosso quando è l’ora. Bello invece il finale, con il popolo che porta i ritratti della regina, fiori e candele sul luogo dell’esecuzione, come abbiamo visto in televisione dopo gli attentati terroristici.

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Maria Stuarda

Gaetano Donizetti, Maria Stuarda

★★★★☆

New York, Metropolitan Opera House, 19 gennaio 2013

(live streaming)

McVicar e la seconda parte della trilogia Tudor

Al Metropolitan di New York il produttore Peter Gelb nel 2011 aveva incaricato David McVicar di mettere in scena la trilogia donizettiana e questa è la Maria Stuarda trasmessa in HD anche nel resto del mondo. Per la parte di Maria viene scelto il mezzosoprano americano Joyce DiDonato la cui prestazione è un modello di tecnica belcantistica, colore, dizione ed espressività. Il suo intervento sia dal punto vocale che interpretativo fa della infelice regina un ritratto a tutto tondo.

Il soprano sudafricano Elza van den Heever fa il suo debutto al Met nel ruolo della tempestuosa Elisabetta, vocalmente eccellente e di gran carattere. Combattuto tra le due regine il conte di Leicester trova in Matthew Polenzani un tenore di presenza e stile ineccepibile. Al solito inespressivo e legnoso il lord Talbot di Matthew Rose e particolarmente sgradevole il Lord Cecil di Joshua Hopkins. Uno specialista di questo repertorio come Maurizio Benini conduce con partecipazione l’orchestra del teatro newyorchese.

Sir David McVicar (nel frattempo è stato infatti insignito del titolo di Knight Bachelor dalla Regina) affronta qui la seconda opera. Assieme allo scenografo e costumista John Macfarlaine i due scozzesi allestiscono uno spettacolo rigoroso e rispettoso del libretto, con grande cura delle personalità dei personaggi. Tra il primo e secondo atto i dieci anni di prigionia sono evidenziati dal tremore parkinsoniano esibito dalla sventurata Maria, da qualche filo bianco in più tra i capelli di Roberto e dall’andatura da cowboy della regina Elisabetta. La scena viene aperta da un sipario in cui il leone e il drago, simboli delle due case regnanti, si affrontano con veemenza. Il bianco e nero dei costumi e delle scene sono macchiati dal rosso dell’abito da caccia di Elisabetta e di quello da vittima sacrificale di Maria.

Il trovatore

Giuseppe Verdi, Il trovatore

★★★☆☆

Monaco, Nationaltheater, 5 luglio 2013

(live streaming)

«Di qual tetra luce»

Come si può mettere il scena Il trovatore senza farlo diventare la caricatura dei Marx Brothers? L’assurda e macchinosa vicenda se la decostruisci perde senso, tanto vale allora prenderla sul serio come fa Olivier Py alla Bayerische Staatsoper. La sua lettura “new gothic” si avvale del complesso apparato scenografico del fedele Pierre-André Weitz che si occupa anche dei costumi – quindi è suo il gilet di paillettes di Manrico!

Su una piattaforma rotante un’imponente struttura metallica piena di macchinari e ruote ad ogni giro mostra qualcosa di diverso: una locomotiva, un bosco di alberi scheletriti, un teatrino, uno schermo cinematografico, un crocefisso in fiamme, una camera da letto, una serie di facciate di case… Con gran profusione di neonati sanguinolenti, manichini maschili e femminili, fantasmi della zingara arsa sul rogo, mimi,  ballerini/e, comparse varie, lo spirito è quello del drammone a fosche tinte di Gutiérrez. Le luci di Bertrand Killy rendono ancora più vividi, al limite dell’espressionismo, le immagini delle quattro parti in cui è suddivisa l’opera. Al più si può criticare Py per mettere esplicitamente in scena quello che viene solo raccontato (la pantomima della zingara al rogo) o di sottolineare quanto viene cantato («Non può nemmeno un dio» afferma il Conte di Luna spezzando un crocefisso), ma la turgida vicenda qui ha una sua forza che nonostante tutto non vira nel grottesco malgrado il continuo trambusto e affollamento in scena.

Coerente con la sovrabbondante scelta registica è la direzione di fuoco di Paolo Carignani, con strette impetuose e ritmi incalzanti accanto a languidi cantabili. Alla sua concertazione si adegua un cast di grande livello nei due personaggi principali. Lo scavo psicologico è impresa impossibile nel caso di Manrico, ma Jonas Kaufmann riesce comunque a trasmettere una naturale empatia per il suo personaggio: parte a gambe larghe come il tipico tenore/eroe da melodramma (e il suo «Deserto in terra» è un tantino stentoreo), ma presto gioca la carta dell’introversione e della malinconia, cosa che gli riesce sempre molto bene e qui il meglio lo dà nelle mezze voci nei suoi duetti con Leonora e con la madre, dove i pianissimi e le smorzature sono una lezione di elegia liederistica. Comunque, quando viene il momento della “pira” – qui abbassata di mezzo tono, ma con la ripresa – lo squillo non manca e fa venir giù il teatro dagli applausi. Vocalmente sontuosissima, stilisticamente ineccepibile e dai fiati prodigiosi è Anja Harteros, una Leonora qui cieca. Questa sua menomazione dà ancora maggiore risalto al suo destino funesto che inizia con un amore impossibile, prende in considerazione la clausura in convento e culmina nel suicidio con veleno. Spiega inoltre il suo scambio di persona nella prima parte, la sua domanda «Sei tu dal ciel disceso, | o in ciel son io con te?» nella seconda e il suo lamentare «Di qual tetra luce | il nostro imen risplende!» nella terza. Se talora le prove verdiane della Harteros hanno avuto un che di algido, qui invece gli slanci hanno un fuoco sorprendente e il personaggio acquista una particolare vivezza, molto apprezzata dal pubblico. Voluminoso ma monocorde Alekseij Markov così che il personaggio del Conte di Luna rimane solo rozzamente sbozzato. Non memorabile il Ferrando di Kwangchul Youn. Meglio i comprimari Ines e Ruiz, affidati rispettivamente a Golda Schultz e Francesco Petrozzi.

La Azucena di Py è alcolizzata, prestigiatrice – la dimensione meta-teatrale della rappresentazione ha un tocco per il pubblico rimasto in sala durante l’intervallo, allorché Elena Manistina esegue il classico trucco del corpo segato e separato in due parti e il corpo è quello di Jonas Kaufmann che si presta simpaticamente al siparietto – e madre morbosamente attaccata al “figlio” tanto da sfiorare con lui un rapporto sado-masochistico e incestuoso (d’altronde è il figlio del suo acerrimo nemico…). Grande presenza scenica quella di Elena Manistina, ma il meglio la sua voce lo dà nel registro basso, essendo mancante in quello acuto così che un passaggio viene eliminato. E sono molti i tagli di tradizione inopportunamente effettuati in questa esecuzione.

Il trovatore

Giuseppe Verdi, Le trouvère

★★★☆☆

Parma, Teatro Farnese, 29 September 2018

 Qui la versione in italiano

Robert Wilson’s lunar Trouvère

Parma’s Verdi Festival presents less frequented versions of the composer’s output. After opening with Macbeth in its 1847 original edition, it is now the turn of Le trouvère, the Parisian version of Il trovatore, adapted for Paris in 1857.

Obviously, Verdi had to add a ballet in Act 3 that was requested in the French capital, but Azucena’s role underwent some changes too, with 24 extra bars to her tale when she tries to raise the Count’s compassion. Act 4 was also modified: Leonora is deprived of her cabaletta, thus shifting the dramaturgical balance of the opera towards Azucena…

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Il trovatore

Giuseppe Verdi, Il trovatore

★★★☆☆

Turin, Teatro Regio, 10 October 2018

  Qui la versione in italiano

In Turin’s Trovatore, the women carry the day

Time was when it was the least performed work of Verdi’s popular trilogy. Now there is no theatre in Italy that does not put Il trovatore on stage and many opera seasons open with this title, as is the case of Turin’s Teatro Regio.

A rare work by Umberto Giordano, Siberia, was planned for the opening, but the replacement of the theatre manager and resulting resignation of musical director Gianandrea Noseda led to a revolution in the billboard that now displays an utterly autarchical choice: only works by Italian composers are present, only the most popular and in settings of guaranted tradition, like this 2005 production…

 

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Il trovatore

Giuseppe Verdi, Il trovatore

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 10 ottobre 2018

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Nel Trovatore di Torino sono le donne a primeggiare

Una volta era l’opera della trilogia popolare verdiana meno rappresentata, ora non c’è teatro in Italia che non la metta in scena e molti aprono la loro stagione lirica proprio con Il trovatore, così come fa il Teatro Regio di Torino.

Per l’inaugurazione era prevista una rara opera di Umberto Giordano, Siberia, ma le vicissitudini subite col cambio di soprintendente e le conseguenti dimissioni del direttore musicale Gianandrea Noseda hanno portato a una rivoluzione nel cartellone che ora si presenta in forma del tutto autarchica: solo opere di autori italiani, le più popolari e in allestimenti di rassicurante tradizione, come questo spettacolo che recupera una produzione bolognese del 2005.

Ben distante da Le trouvère “lunaire” parmense di Robert Wilson – anche se qui un’enorme luna piena sovrasta la scena – la regia di Paul Curran non aveva destato soverchi entusiasmi tredici anni fa e non li desta neppure adesso. La lettura del regista scozzese è lineare, descrittiva e non si scosta dalla tradizione anche se sposta l’ambientazione in epoca risorgimentale, quella della composizone dell’opera (1851-1853), che i costumi di Kevin Knight aiutano a definire: i soldati del Conte con le loro giubbe rosse qui sembrano volontari di Garibaldi e le donne sfoggiano ampie gonne e corpetti stretti in vita. Alcune trovate sceniche vanno contro la drammaturgia prevista da Verdi, come la presenza di Azucena durante duetto Manrico-Leonora in carcere, mentre il libretto prescrive che si svegli solo poco prima del finale in cerca del figlio. O come l’uccisione di Manrico in scena, con una pistola finta di cui si sente il clic fuori tempo sul tremolo degli archi prima del finale in fortissimo.

Il regista evidenzia il clima bellico e passionale dell’opera nella scena dell’accampamento che apre il terzo quadro, “Il figlio della zingara”. Prima ancora che si ascoltino le note di inizio, una donna urlante irrompe davanti al sipario braccata da due soldati. La stessa donna la vedremo insanguinata ed esamine alla fine della scena. I disastri della guerra non hanno età e colpiscono sempre i più deboli e le donne in primis. Le scenografie, dello stesso Kevin Knight, sono formate da un’alta scalinata che scorre e si apre per formare altri spazi, e da due bastioni laterali, il tutto scuro e incombente. Le tenebre qui regnano sovrane, punteggiate dalle fioche lampade delle religiose e dalle fiaccole dei monaci durante il Miserere.

All’atmosfera cupa in scena corrisponde la direzione piena di contrasti di Pinchas Steinberg che sceglie la tradizione dei tagli e dei rallentandi per la sua lettura della partitura, non priva di efficacia, però non evita talora l’effetto zum-pa-pa di certi accompagnamenti.

Nel cast vocale primeggiano le voci femminili. Inizialmente Verdi voleva intitolare il lavoro col nome della zingara poi, dopo la morte prematura del librettista Cammarano, il compositore aveva sviluppato ulteriormente la parte di Leonora, salvo poi a evidenziare nuovamente quella di Azucena nella versione francese del 1857. La maggior cura psicologica qui è dedicata ai due personaggi femminili e in scena qui a Torino due grandi interpreti sembrano dar ragione al compositore. Il soprano americano Rachel Willis-Sørensen debutta nel ruolo di Leonora, il suo secondo ruolo verdiano, e incanta il pubblico torinese con la sua bella linea di canto, una voce dal timbro particolare ma molto ben proiettata e dalla dizione perfetta. Più esaltante nei momenti lirici che in quelli di agilità, delinea una Leonora difficile da dimenticare. Sulla prestazione di Anna Maria Chiuri si andava sul sicuro: sono noti il temperamento e la ricca vocalità del mezzosoprano, appropriati per definire la figura di Azucena, una donna investita di una missione ineludibile, quella di vendicare la morte della madre sul rogo. Le alterne passioni che agitano la donna sono rese con grande mestiere dalla Chiuri che alterna a pianissimi sussurrati scoppi di emotività incontrollata, quella stessa emotività che l’ha portata a scambiare sul rogo il proprio figlio con quello dell’aborrito Conte.

Deludente il Manrico di Diego Torre: il tenore messicano, allievo del Domingo-Thornton Young Artist’s Program di Los Angeles, è scenicamente impacciato in un personaggio che il libretto vuole misterioso, sfuggente. Vocalmente è poco gradevole, il timbro è ingolato e la dizione non sempre cristallina. Il momento della “Pira” manca di pathos e gli acuti sono tutt’altro che luminosi. Massimo Cavalletti è un elegante Conte di Luna, qui personaggio meno cattivo del solito, che convince più nei momenti di riflessione lirica che in quelli di sdegno e gelosia. 

Maria Stuarda

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Gaetano Donizetti, Maria Stuarda

★★★★☆

Genova, Teatro Carlo Felice, 17 maggio 2017

Antoniozzi conclude la sua trilogia Tudor

Davanti allo specchio dei rispettivi camerini le due regine si danno gli ultimi ritocchi: la sarta aggiusta le pieghe della gonna, la truccatrice sfuma col pennello il rosso delle gote. Poi le due donne si alzano, si salutano affettuosamente come care amiche e salgono in “scena”, una piattaforma quasi circolare, per una volta non rotante, cui si accede da quattro lati tramite gradini. Due inservienti hanno nel frattempo portato via frettolosamente un ceppo e una scure. Così inizia l’allestimento della Maria Stuarda di Donizetti, opera per la prima volta sulle tavole del Teatro Carlo Felice, con cui il regista Alfonso Antoniozzi conclude gli allestimenti della “trilogia Tudor” del compositore bergamasco.

Questo inizio non prelude alla solita declinazione di teatro nel teatro, però. La lettura di Antoniozzi rimane su una meta-teatralità molto sobria e la vicenda, che nel libretto del Bardari di verità storica ne ha ben poca, è fedelmente narrata nella sua drammaturgia. Il regista concentra giustamente tutto il dramma nella tensione psicologica fra le due donne, tensione che culmina nella invettiva che conclude il primo atto e che suggella definitivamente il destino della Stuarda. Questa celeberrima scena è trattata con intelligente sobrietà nella lettura del regista, sobrietà esaltata nel finale: qui non c’è nessun patibolo insanguinato o effetto grandguignolesco – «il truce apparato» è già stato portato via all’inizio, come abbiamo visto – e Maria abbraccia una croce scesa dall’alto e rimane lì, «innocente, infamata, sì», risparmiandoci la testa mozzata e rotolante per il palcoscenico, come s’è visto talvolta.

A sipario aperto appaiono le candide gorgiere e le nere palandrane del coro dei cortigiani; nera è la piattaforma e neri sono i pochi elementi scenografici in stile Tudor della scarna scenografia di Monica Manganelli. Soli accenti di colori sono gli abiti dei sei protagonisti, disegnati come sempre con sontuosa fantasia da Gianluca Falaschi. Preziosamente realizzati e giustamente voluminosi (con fatica si adattano allo stretto trono gotico!) quelli delle due regine, altrettanto volutamente eccessivi quelli degli uomini. Gli ampi gonnoni di Talbot, Cecil e Leicester danno a questi personaggi una figura “femminilizzata” e impacciata che mette in risalto la decisionalità e il temperamento delle due regine, gli unici personaggi “attivi” di questa vicenda, anche se quello di Roberto di Leicester, in raso celeste ricamato, è imposto a un cantante che già di suo dispone di una corporatura generosa. Impietoso diventa il contrasto tra l’elegante bozzetto riportato sul programma di sala e il risultato visto dal vivo.

Per il debutto di Maria Stuarda il teatro genovese non ha lesinato sul cast, anzi sui cast, visto che quello alternativo è parimente superlativo. Alla prima il ruolo della protagonista titolare è stato affidato a Elena Moșuc, soprano rumeno ben noto in Italia, la quale ha incantato il pubblico genovese con le straordinarie mezze voci di «quando di luce rosea» nel suo ultimo incontro con Talbot e poi nella sublime preghiera del finale resa in maniera struggente. Preziosi sono stati in questi momenti i contributi del coro e dell’orchestra diretta da Andriy Yurkevych, concertatore di grande sensibilità e maturità, che ha dipanato la partitura con volumi sonori e tempi sempre giusti riuscendo dalla buca a sostenere in maniera ideale il canto degli interpreti sul palco. Ottima prova hanno infatti dato gli orchestrali del teatro, che si sono distinti sia nei raffinati assoli strumentali sia nei pieni delle pagine più drammatiche.

Inflessibile rivale della Moșuc è Silvia Tro Santafé: il bravissimo mezzosoprano valenciano con la sua voce d’acciaio delinea una Elisabetta di grande carattere che non eccede mai negli effetti, ma sa invece usare in maniera magistrale il suo particolare timbro vocale con colori ed espressività sempre perfettamente dosati. Come la rivale,  anche lei dimostra una grande presenza scenica risolta con eleganza.

Terzo big della serata è nientemeno che Celso Albelo. C’è poco da aggiungere alle qualità canore del cantante tinerfeño, anche qui ampiamente dimostrate: bellissimo timbro, fraseggio affascinante, squillo luminoso, tutto al servizio di un personaggio che vive solo per la bellezza della musica che canta, non certo per quello che fa.

Un po’ sopra le righe il Cecil di Stefano Antonucci, che accenta in maniera esagerata ogni parola, mentre più efficace è risultato il Talbot di Andrea Concetti. Alessandra Palomba è Anna, la fedele nutrice di Maria.

Festose accoglienze per tutti i protagonisti dello spettacolo, con particolari ovazioni per i tre interpreti principali da parte di un pubblico, ahimè, poco numeroso. Scoraggiante risultato per un teatro che ha speso le sue migliori risorse per uno spettacolo che si spera attivi un ben maggiore riscontro nelle repliche.


foto © Teatro Carlo Felice

Il trovatore

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Giuseppe Verdi, Il trovatore

★★★☆☆

Londra, Royal Opera House, 31 gennaio 2017

(live streaming)

Il tank del Conte di Luna

Non sempre l’attualizzazione fa bene a un’opera: trasformare una faida famigliare di inizio ‘400 in una guerra moderna con tanto di carri armati e mitragliatrici, trasportando quindi la vicenda – con annessi e connessi di trovatori, duelli al pugnale, roghi di streghe, fughe in convento, serenate e liuti – ai giorni nostri, non trasforma Il trovatore in qualcosa di più logicamente ammissibile di quanto sia, né rende più accettabile l’assurda vicenda di infanticidio e vendetta narrata dal Gutiérrez, messa in rima dal Cammarano e musicata da Verdi.

David Bösch e lo scenografo Patrick Bannwart non usano la mano leggera nel trasferire la storia del giovane combattuto tra l’amore per l’infelice amata e l’affetto per la donna che crede essere sua madre in paesaggi, presumibilmente balcanici, devastati da guerre civili, divisi da fili spinati e teatro di crudeltà gratuite e incongrue. Ovunque è devastazione nella messa in scena del regista tedesco, un mondo tutto grigio ravvivato solo dai colori sgargianti dei costumi degli zingari, una troupe di circo felliniano che si muove su veicoli improvvisati, con Azucena su una roulotte disseminata di lugubri bambolotti. Il regista ha infantili cadute di gusto come quando Leonora incide L♡M sul tronco di un albero spoglio, o la bottiglietta di veleno che porta appesa al collo con una catenina, i bianchi fiori di carta sugli alberi scheletriti, le ingenue proiezioni video. Questa è la terza ripresa della produzione di Bösch alla Royal Opera House e molti particolari di quella originale sono stati abbandonati o modificati – un selfie col prigioniero, farfalle sfarfallanti, la testa di Manrico che rotola come una palla… – ma la messa in scena ancora non convince e la regia attoriale è sempre latitante.

Non si contesta invece l’aspetto musicale della rappresentazione. Star indiscussa della serata è ancora una volta Anita Rachvelishvili, fatta segno di meritate ovazioni. Debuttante nel ruolo, si è subito dimostrata un’Azucena memorabile: pur con tutta la potenza vocale in possesso, è nelle mezze voci del suo racconto allucinato, nella mesta dolcezza di «Ai nostri monti», nel soffocato grido finale «Era tuo fratello!» che va ricercata la grandezza di un’artista che tramuta in oro tutto quello che fa, contendendo spesso i riflettori ai protagonisti titolari – che si tratti della sua Amneris in Aida, Ljubaša ne La sposa dello zar o Končakovna nel Principe Igor. Per non parlare delle sue indimenticabili Carmen o Dalila.

Non che il ruolo del titolo non sia affidato a un illustre interprete, ma qui (magia dell’opera) il figlio Manrico ha il doppio degli anni della madre Azucena! Gregory Kunde è vocalmente il miracolo che conosciamo: il nobile fraseggio, l’espressività della parola, gli acuti luminosi – Kunde non ci priva neppure delle puntature di tradizione della «pira», anche se qui un po’ corte – ma è scenicamente che si fa fatica a riconoscere il giovane e irruente Manrico, qui travestito da hippy, nell’affascinante uomo di mezza età che porta con orgoglio i suoi anni.

Molto festeggiato dal pubblico anche l’altro interprete femminile, il soprano armeno Lianna Haroutounian che dipinge una Leonora dal bel timbro, eccellente dizione e con frasi splendidamente legate in cui è la liricità a prevalere, meno l’agilità richiesta dal compositore nell’aria «D’amor sulle ali rosee» con quei trilli un po’ schiacciati.

Conte di Luna è qui un terzo cantante di area orientale, l’ucraino Vitaliy Bilyy dalla generosa e bella vocalità. Assiduo del ruolo, ne «Il balen del suo sorriso», un suo cavallo di battaglia, ha infiammato il pubblico londinese, ma è forse quello che più ha sofferto della mancanza di regia sugli interpreti e il personaggio rimane rigido e indefinito.

Ancora un altro ucraino per Ferrando, cui presta la possente voce Alexander Tsymbalyuk, l’intenso Boris Godunov di Calixto Bieito.

In questa ripresa il direttore Richard Farnes prende il posto del nostro Noseda alla guida dell’orchestra reggendo bene il confronto: tempi non trascinanti ma complessivamente giusti, buona resa dei colori e delle frasi musicali, rispetto per la voce di cantanti. Ma qui c’è il sospetto di una amplificazione, cosa difficile da verificare in una sala cinematografica con il volume a pieni decibel.

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Maria Stuarda

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Gaetano Donizetti, Maria Stuarda

★★★☆☆

Milano, Teatro alla Scala, 15 gennaio 2008

(registrazione video)

La trilogia di Donizetti sui Tudor, iniziata nel 1830 con Anna Bolena prosegue nel 1835 con Maria Stuarda e si completerà nel 1837 con Roberto Devereux. Un anno dopo il maestro sarà a Parigi, stanco delle censure dell’ambiente napoletano. Parigi e Vienna saranno le sedi in cui debuttano i suoi ultimi lavori.

Questo è l’antefatto della vicenda romanzata da Schiller e messa in musica da Donizetti come sua 41esima opera. Maria Stuarda, regina di Scozia è costretta ad abdicare e fuggire in seguito alla ribellione dei nobili scozzesi. Cattolica e coronata all’età di nove mesi, Maria era stata promessa al Delfino di Francia ed era cresciuta alla corte francese. All’età di 18 anni ritorna al suo paese dopo l’improvvisa morte del marito, Francesco II, dopo aver regnato un solo anno come regina di Francia. Non riuscendo a tenere sotto controllo la nobiltà protestante e conseguenti tumulti, intrighi e omicidî, Maria cerca asilo da sua cugina, la regina Elisabetta, ma la sua presenza nell’Inghilterra protestante è di imbarazzo per la regina d’Inghilterra e i suoi consiglieri. In quanto discendente dei Tudor, i cattolici inglesi la considerano la legittima erede alla corona di Enrico VIII (essendo stata Elisabetta dichiarata illegittima in seguito all’esecuzione per adulterio della madre Anna Bolena). Un’inchiesta degli inglesi sullo scandalo dell’assassinio del secondo marito di Maria, Lord Danley, non ha provato la sua complicità nel fatto, ma è servita comunque come pretesto per tenere imprigionata per molti anni l’ex regina di Scozia.

Primo atto. Elisabetta annuncia le sue nozze future col re di Francia, per poter rafforzare il regno. Essa è allegra e Talbot approfitta della sua contentezza per affrontare un argomento delicato: Maria Stuarda. Talbot chiede alla regina la liberazione della povera scozzese, detenuta in un castello in mezzo al bosco, accusata di alto tradimento. Cecil, il gran tesoriere, invece esorta la regina a non aver pietà. La regina è dubbiosa: ella sa che Maria ama l’uomo amato anche da lei stessa, Roberto Leicester. Lo stesso Leicester viene incontrato da Talbot, che gli consegna un foglio: è da parte di Maria, a cui Talbot è andato appena fare visita. La regina, insospettita, riesce ad ottenere il foglio, e lo legge. Maria chiede, tramite Leicester, un colloquio alla Regina, nella sua prigione di Forteringa: Elisabetta, stupita, insinua che Leicester provi del tenero per la rivale. Alla fine la Regina, al colmo della gelosia, acconsente ad andare a Forteringa.
Secondo atto. Maria, reclusa nel castello di Forteringa, rievoca i bei momenti vissuti in Francia da bambina con la nutrice Anna. La sua tranquillità viene turbata dai suoni delle trombe da caccia. Giunge Leicester, che spiega a Maria che la caccia è una scusa per Elisabetta per venire a vederla. Roberto la esorta a rimanere calma dinnanzi alla Regina. Elisabetta arriva a Forteringa col suo seguito: per l’imminente incontro delle due Regine v’è una tensione palpabile. Maria finalmente arriva, scortata da Talbot e implora la pietà della cugina. Elisabetta tuttavia rimprovera a una prostrata Maria i suoi crimini: l’infedeltà coniugale e la sua implicazione nella morte del secondo marito Enrico Stuart, nonché le numerose congiure che le vengono attribuite. Maria, all’inizio supplichevole, al colmo del furore, la copre d’insulti spregevoli. Elisabetta, infuriata più che mai, la fa arrestare, promettendole la scure.
Terzo atto. Elisabetta, nei suoi appartamenti, è indecisa se ordinare la condanna a morte della Stuarda, come le consiglia continuamente Cecil. L’arrivo di Leicester fa accendere in lei la gelosia, e le preghiere dell’amato non riescono a farla smuovere dal suo proposito. Nel castello, Maria teme che la regina si vendichi su Leicester, e in quel momento giungono Talbot e Cecil, a confermarle la condanna. Maria rifiuta di essere confessata da un pastore protestante, essendo cattolica, come le offre Cecil. Rimasta sola con Talbot, Maria confessa tutti quanti i suoi peccati (l’infedeltà coniugale e la sua implicazione nel complotto Babington). Talbot la perdona e le assolve i peccati. Maria sta per essere decapitata: i familiari ed Anna l’attendono per vederla l’ultima volta. Maria appare, e chiede a tutti di pregare per la sua anima. Il primo colpo di cannone introduce Cecil, che chiede a Maria l’ultimo desiderio: la regina chiede solo di avere Anna accanto a sé sul patibolo. Leicester, furente, entra, maledicendo l’ingiusta morte dell’amata: Maria lo supplica di perdonare, come lei ha perdonato i suoi assassini, e si avvia al patibolo.

La storia della nascita di quest’opera è lunga e travagliata. Il librettista è quel Giuseppe Bardari, diciassettenne studente di legge e testa calda, che una volta nominato giudice verrà rimosso dall’incarico per aver partecipato ai moti del ’48. La fonte è ancora una volta un dramma di Schiller del 1800. Fin da subito la censura fa sentire la sua oppressione, prima chiedendo cambiamenti al libretto e poi bocciandolo senza appello a pochi giorni dal debutto. Per onorare comunque il contratto, Donizetti riutilizza buona parte della musica e fa scrivere un nuovo raffazzonato libretto per un Buondelmonte, tratto da Machiavelli, che ha esito negativo e viene presto dimenticato.

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La partitura dell’opera originale cade però nelle mani della Malibran che si propone di cantare il ruolo di Maria alla Scala. Veloci adattamenti della musica alla nuova interprete e il librettista Calisto Bassi ha il compito di attenuare il testo.

L’acme del dramma teatrale è infatti lo scontro tra i due personaggi, «dialogo delle due Regine» recita il libretto originale con impagabile understatement: «Figlia impura di Bolena, | parli tu di disonore? | Meretrice indegna e oscena, | in te cada il mio rossore. | Profanato è il soglio inglese, | vil bastarda, dal tuo piè!» che vale un breve momento di trionfo per Maria, che lo pagherà con la morte. (1) Con il Bassi l’invettiva è meno violenta: «Di Bolena oscura figlia, | parli tu di disonore? | E chi mai ti rassomiglia? | Su di te cada il rossore. | Profanato è il suolo inglese, | donna vile, dal tuo piè!» La censura è soddisfatta e l’opera va finalmente in scena a Milano.

Nell’edizione del gennaio 2008 al teatro alla Scala non c’è la Malibran, ma una grande cantante dei nostri tempi. Mariella Devia interpreta questo difficile personaggio alla bella età di 60 anni! Chapeau, ma si rimane sempre un pochino in ansia quando affronta i passaggi più impervi della scrittura, che comunque risolve egregiamente. Su timbro, tecnica, fraseggio, accento drammatico e senso musicale della cantante non c’è nulla da aggiungere a quanto già lodato da tanti. Come antagonista ha una Caterina Antonacci in gran forma e un Francesco Meli Conte di Leicester, piacevole ma che darà il meglio di sé in altre opere. Mediocre la direzione di Antonino Fogliani che non sembra in grande accordo con l’orchestra del teatro e che alla fine si prende anche qualche contestazione dal pubblico.

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Dopo la ripresa dell’opera nel 1865 a Napoli seguì un silenzio quasi totale di un secolo. Il cammino trionfale di Maria Stuarda riprese nel 1967 al Maggio Fiorentino con le due regine Leyla Gencer e Shirley Verrett in una produzione firmata da Giorgio de Lullo e Pier Luigi Pizzi.

Ritroviamo tanti anni dopo Pizzi che qui oltre alla regia e ai costumi crea una scenografia fissa ispirata alla lontana alle incisioni delle prigioni del Piranesi: un reticolo metallico che avvolge il palcoscenico come una gabbia, una pedana, scalini, un ceppo che esce dal pavimento, tutto rigorosamente in nero. Anche la foresta nasce all’interno di questa gabbia per subito sparire appena Stuarda intona la sua cabaletta prima dell’incontro con l’altra regina.

(1) Andrea Maffei, il traduttore di Schiller, nel 1843 rende in maniera più fedele come «Il trono d’Inghilterra è profanato | d’una bastarda! Il popolo britanno | da una mima è tradito! Ove il buon dritto | regnasse, tu saresti nella polve | stesa a’ miei piedi, ché tuo Re son io!» i versi originali di Schiller: «Der Thron von England ist durch einen Bastard | entweiht, der Briten edelherzig Volk | durch eine list’ge Gauklerin betrogen. | – Regierte Recht, so läget Ihr vor mir | Im Staube jetzt, denn ich bin Euer König.».