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Gaetano Donizetti, Maria Stuarda
★★★★☆
Genova, Teatro Carlo Felice, 17 maggio 2017
Antoniozzi conclude la sua trilogia Tudor
Davanti allo specchio dei rispettivi camerini le due regine si danno gli ultimi ritocchi: la sarta aggiusta le pieghe della gonna, la truccatrice sfuma col pennello il rosso delle gote. Poi le due donne si alzano, si salutano affettuosamente come care amiche e salgono in “scena”, una piattaforma quasi circolare, per una volta non rotante, cui si accede da quattro lati tramite gradini. Due inservienti hanno nel frattempo portato via frettolosamente un ceppo e una scure. Così inizia l’allestimento della Maria Stuarda di Donizetti, opera per la prima volta sulle tavole del Teatro Carlo Felice, con cui il regista Alfonso Antoniozzi conclude gli allestimenti della “trilogia Tudor” del compositore bergamasco.
Questo inizio non prelude alla solita declinazione di teatro nel teatro, però. La lettura di Antoniozzi rimane su una meta-teatralità molto sobria e la vicenda, che nel libretto del Bardari di verità storica ne ha ben poca, è fedelmente narrata nella sua drammaturgia. Il regista concentra giustamente tutto il dramma nella tensione psicologica fra le due donne, tensione che culmina nella invettiva che conclude il primo atto e che suggella definitivamente il destino della Stuarda. Questa celeberrima scena è trattata con intelligente sobrietà nella lettura del regista, sobrietà esaltata nel finale: qui non c’è nessun patibolo insanguinato o effetto grandguignolesco – «il truce apparato» è già stato portato via all’inizio, come abbiamo visto – e Maria abbraccia una croce scesa dall’alto e rimane lì, «innocente, infamata, sì», risparmiandoci la testa mozzata e rotolante per il palcoscenico, come s’è visto talvolta.
A sipario aperto appaiono le candide gorgiere e le nere palandrane del coro dei cortigiani; nera è la piattaforma e neri sono i pochi elementi scenografici in stile Tudor della scarna scenografia di Monica Manganelli. Soli accenti di colori sono gli abiti dei sei protagonisti, disegnati come sempre con sontuosa fantasia da Gianluca Falaschi. Preziosamente realizzati e giustamente voluminosi (con fatica si adattano allo stretto trono gotico!) quelli delle due regine, altrettanto volutamente eccessivi quelli degli uomini. Gli ampi gonnoni di Talbot, Cecil e Leicester danno a questi personaggi una figura “femminilizzata” e impacciata che mette in risalto la decisionalità e il temperamento delle due regine, gli unici personaggi “attivi” di questa vicenda, anche se quello di Roberto di Leicester, in raso celeste ricamato, è imposto a un cantante che già di suo dispone di una corporatura generosa. Impietoso diventa il contrasto tra l’elegante bozzetto riportato sul programma di sala e il risultato visto dal vivo.
Per il debutto di Maria Stuarda il teatro genovese non ha lesinato sul cast, anzi sui cast, visto che quello alternativo è parimente superlativo. Alla prima il ruolo della protagonista titolare è stato affidato a Elena Moșuc, soprano rumeno ben noto in Italia, la quale ha incantato il pubblico genovese con le straordinarie mezze voci di «quando di luce rosea» nel suo ultimo incontro con Talbot e poi nella sublime preghiera del finale resa in maniera struggente. Preziosi sono stati in questi momenti i contributi del coro e dell’orchestra diretta da Andriy Yurkevych, concertatore di grande sensibilità e maturità, che ha dipanato la partitura con volumi sonori e tempi sempre giusti riuscendo dalla buca a sostenere in maniera ideale il canto degli interpreti sul palco. Ottima prova hanno infatti dato gli orchestrali del teatro, che si sono distinti sia nei raffinati assoli strumentali sia nei pieni delle pagine più drammatiche.
Inflessibile rivale della Moșuc è Silvia Tro Santafé: il bravissimo mezzosoprano valenciano con la sua voce d’acciaio delinea una Elisabetta di grande carattere che non eccede mai negli effetti, ma sa invece usare in maniera magistrale il suo particolare timbro vocale con colori ed espressività sempre perfettamente dosati. Come la rivale, anche lei dimostra una grande presenza scenica risolta con eleganza.
Terzo big della serata è nientemeno che Celso Albelo. C’è poco da aggiungere alle qualità canore del cantante tinerfeño, anche qui ampiamente dimostrate: bellissimo timbro, fraseggio affascinante, squillo luminoso, tutto al servizio di un personaggio che vive solo per la bellezza della musica che canta, non certo per quello che fa.
Un po’ sopra le righe il Cecil di Stefano Antonucci, che accenta in maniera esagerata ogni parola, mentre più efficace è risultato il Talbot di Andrea Concetti. Alessandra Palomba è Anna, la fedele nutrice di Maria.
Festose accoglienze per tutti i protagonisti dello spettacolo, con particolari ovazioni per i tre interpreti principali da parte di un pubblico, ahimè, poco numeroso. Scoraggiante risultato per un teatro che ha speso le sue migliori risorse per uno spettacolo che si spera attivi un ben maggiore riscontro nelle repliche.


⸪