Rigoletto

Giuseppe Verdi, Rigoletto

★★★★★

Venezia, Teatro La Fenice, 8 ottobre 2021

bandiera francese.jpg Ici la version française

Un memorabile Rigoletto quello in scena alla Fenice

L’anno scorso con il suo Rigoletto in piena pandemia Damiano Michieleto tentava nuove strade, una contaminazione fra differenti linguaggi negli spazi aperti ed enormi del romano Circo Massimo. Una lettura cinematografica e realistica, con automobili, roulottes e giostre di luna park in scena. La registrazione di quello spettacolo è diventata un film che viene presentato in questi giorni alla Festa del Cinema di Roma.

Ora la sua precedente produzione di Rigoletto, quella di Amsterdam del 2017, ritorna negli spazi più consueti del teatro veneziano. Pur con qualche variante – non c’è elettroshock per il protagonista, né camicia di forza – l’approccio non è comunque consueto. Che cosa succede a Rigoletto dopo la scoperta dell’assassinio della figlia, si è chiesto il regista. Ecco, il pover’uomo impazzisce per il rimorso di averne provocato involontariamente la morte: il piano ordito per eliminare il duca gli si ritorce contro e l’uomo uccide l’unica cosa preziosa che possiede nella vita, lui che non ha «patria, parenti, amici», come sintetizza efficacemente il libretto di Francesco Maria Piave. Il fatto di essere stato la causa della sua morte lo porta alla follia. È la sua maledizione, parola chiave che doveva essere anche il titolo originale del lavoro. Rigoletto è dunque internato in una struttura manicomiale e rivive tutta la vicenda, una tragedia che ha la forma di un sogno angoscioso nella sua mente malata. Ecco quindi che la «musica interna da lontano» (1) ci arriva smussata come se fosse nella sua testa, mentre la «folla di Cavalieri e Dame» porta la stessa maschera del duca – l’unica, vera ossessione di Rigoletto: «giovin, giocondo, sì possente, bello», mentre lui è «vil, scellerato, difforme…».

Non è la prima volta che Michieletto assume il tema della follia a base della sua lettura. Era già avvenuto con il Sigismondo al ROF del 2010, ma qui la figura di Rigoletto richiama in più quella del Lear scespiriano: un padre che impazzisce per aver avuto un distorto senso di amore per la figlia che alla fine si ritrova cadavere nel pieno di una tempesta. Là Cordelia, qui Gilda.

Nella scenografia di Paolo Fantin il claustrofobico interno è piastrellato come era la cucina di Don Giovanni di uno dei suoi primi spettacoli, quel curioso Il dissoluto punito di Ramón Carnicer i Batlle presentato a La Coruña nel 2006. Ma qui nelle alte pareti bianche si aprono dei varchi da cui entrano i personaggi del suo incubo. A sinistra una grande porta, sempre chiusa, a destra una grande finestra con inferriata. Come per un crudele contrappasso la sua cella è una replica gigante della camera della figlia bambina, che il padre ha protetto dal mondo tenendola chiusa a chiave, praticamente prigioniera.

Con questo spettacolo Michieletto non solo elabora con efficacia la sua personale visione di questo capolavoro, ma ne restituisce la originale forza drammatica. Il pugno nello stomaco che dovevano aver provato gli spettatori nel 1851 lo riproviamo noi oggi dopo aver visto decine di Rigoletti, è come se lo scoprissimo per la prima volta. L’effetto è sconvolgente, quasi non siamo più abituati nel teatro d’opera a vivere emozioni così forti. Lo spettacolo di Michieletto ci sbatte in faccia verità sgradevoli: Rigoletto non è il povero vecchio, ma un uomo moralmente tutt’altro che irreprensibile, che usa i soldi presi dalla tasca del cappotto del duca per pagarsi un sicario. E Gilda non è l’ingenua fanciulla incosciente che cade nella trappola involontariamente tesa. Lei getta via i peluches che le regala il padre e nei suoi disegni infantili la figura della madre è rabbiosamente cancellata con la matita nera – chissà quale dramma nascosto cela quel gesto. Rigoletto non si rivolge a Gilda, bensì a una bambina con una maschera, preferisce una bambola inerte alla ragazza che vuole crescere, diventare donna e vivere la propria vita. E che rischia il tutto per tutto per tagliare l’opprimente legame col padre. In un sogno vediamo infatti la bambina uscire dalla finestra, ora senza sbarre, e correre fuori, libera e felice. Nello stesso momento la parola maledizione rimbomba per l’ultima volta e nella mente di Rigoletto un corto circuito di angosciose emozioni lo condanna per sempre alla follia. Nel finale lo ritroviamo ripiegato nella stessa posizione fetale con cui era apparso all’apertura del sipario.

Nella drammaturgia di Michieletto ogni dettaglio è significativo: il medico che cura Rigoletto diventa subito dopo un trucido Sparafucile, Giovanna è una rigida infermiera. Tutti i personaggi sono vestiti di bianco eccetto la figlia, che porta un vestitino a fiori, strapazzato e strumento lascivo nelle mani dei cortigiani nell’atto secondo. Rivelatore è il fatto che Monterone qui sia un alter-ego di Rigoletto, ne assuma le fattezze – porta la gobba, è claudicante. Sono entrambi padri sventurati accomunati dal fatto di avere una figlia disonorata dal duca e non è senza significato il fatto che Verdi li faccia cantare nello stesso registro vocale.

Che la musica di Rigoletto sia sconvolgente ce lo dimostra con grande chiarezza Daniele Callegari che dell’opera offre una versione senza arbitrii di tradizione, acuti non scritti, corone e tagli. I colori sono pieni di chiaroscuri, la tensione drammatica non ha un momento di stanchezza e si arriva al finale col cuore che batte forte. Luca Salsi supera la prova con bravura sbalorditiva: sempre in scena, la sua presenza fisica e vocale non ha mai un cedimento. La linea scelta dal baritono parmense si muove tra pianissimi – «ah no, è follia» finalmente senza puntatura! –, mezzevoci e linee vocali ampie, robuste, sempre con grande sensibilità e chiarezza di accento. Solo al momento dell’invettiva contro i cortigiani – «quanno ce vò, ce vò»  – tutto solo in scena e con sullo sfondo i colorati disegni infantili della figlia che vengono cancellati dal nero,  si lascia andare a uno sfogo di violenza e verità tali da scatenare l’unico lunghissimo applauso a scena aperta della serata da parte di un pubblico altrimenti soggiogato dalla tensione implacabile della direzione musicale.

Di Iván Ayón Rivas non ho sempre apprezzato lo slancio vocale spesso poco controllato, ma qui con la sua spavalderia riesce a delineare un duca memorabile, la voce è ferma, il timbro luminoso e la proiezione eccezionale, esaltata dalla acustica della sala veneziana. Ottima è la prova fornita da Claudia Pavone (Gilda), donna emancipata piuttosto che fanciulla ingenua e bamboleggiante. Mattia Denti (Sparafucile) e Valeria Girardello (Maddalena) se non vocalmente si fanno notare per la presenza scenica. Efficaci risultano gli altri interpreti, soprattutto il Monterone di Gianfranco Montresor.

Esito felicissimo della serata con applausi copiosi per gli interpeti e vere e proprie ovazioni per Salsi. Un Rigoletto quasi riscoperto di nuovo.

(1) Espressione presente nella prima didascalia per designare la festosa musica suonata da una banda fuori scena.