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Gioachino Rossini, Stabat Mater
Michele Spotti direttore
Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 15 aprile 2022
«Rossini! Divino Maestro!» (1)
Unica manifestazione musicale legata al periodo pasquale – mentre non c’è chiesa in Germania che non organizzi una Passione di Bach… – è questo concerto fuori abbonamento della stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI: nel giorno del Venerdì Santo viene eseguito uno dei pochi lavori che il pesarese non abbia dedicato al teatro, essendo la produzione operistica la più invasiva del suo repertorio creativo, seppure circoscritta a soli diciannove anni di attività.
Rossini iniziò la sua formazione musicale proprio nelle chiese come cantante ed ebbe come insegnanti dei religiosi. Nel 1808 a sedici anni partecipa alla Messa di Bologna, un lavoro collettivo di allievi del liceo, alla quale seguono subito dopo la Messa di Ravenna e la Messa di Rimini, questa di attribuzione dubbia. La Messa di Gloria di Napoli del 1820 precede di tre anni la Semiramide mentre nel 1841 arriva lo Stabat Mater. Rossini aveva abbandonato il mondo teatrale da dodici anni.
Per quest’ultima composizione ci si può domandare quello che si era chiesto il suo stesso autore per la Petite messe solennelle: si tratta di “une musique sacrée” o di “une sacrée musique”? (2) «J’étais né pour l’opera buffa» scriveva Rossini nel 1864. Che cosa troviamo dunque di religioso nell’intonazione del testo di Jacopone da Todi da parte del più grande compositore di opere buffe? La brillante futilità del bel canto per la scena oppure l’espressione di una fede sincera?
Si tratta di una domanda oziosa, come chiedersi se sono maggiormente espressione di fede le severe linee della cattedrale di Reims oppure i riccioli e gli stucchi rococò della chiesa di Rottenbuch: ogni tempo e ogni luogo ha avuto il suo stile espressivo e nel XIII secolo, con Luigi IX il Pio, la religiosità si esprimeva in modo diverso di quanto si farà nell’elettorato di Baviera nel XVIII secolo.
In pieno Romanticismo, il compositore affermava la sua estetica ancora legata al bello ideale e a una concezione neoclassica che ritroviamo chiaramente in questo Stabat Mater che gli era stato commissionato in Spagna nel 1831, due anni dopo il Guillaume Tell. Nel 1833 ne aveva presentata una versione incompleta, i numeri 1 e 5-9, a Madrid il Sabato Santo. I pezzi mancanti della sequenza erano stati musicati da Giovanni Tadolini. Questa partitura fu pubblicata e venduta nonostante le proteste di Rossini e il compositore si affrettò a completare lo Stabat Mater che venne presentato a Parigi il 7 gennaio 1842 con un cast stellare che comprendeva la Grisi e il Tamburini. Donizetti diresse la prima italiana a Bologna il 18 marzo, la prima di numerose repliche coronate da grande successo e qualche distinguo da parte della critica, soprattutto dei paesi del nord Europa. Eppure la compostezza che adotta Rossini, anche nei momenti più drammatici, non avrebbe dovuto dispiacere a un severo luterano. Quello che infastidiva erano gli abbellimenti alla linea vocale, gli stucchi rococo…
Il ventottenne e talentuoso Michele Spotti alla guida dell’Orchestra RAI non punta a una lettura edonistica della partitura, ma neppure ne mortifica la brillantezza: con tempi mai estremi e una cura delle preziosità orchestrali presente in gran copia in questa pagina, incanta il pubblico che si dimostra prodigo di applausi sia per la sua direzione sia per il quartetto vocale sul palco dell’Auditorium Arturo Toscanini. Il soprano Anastasia Bartoli esibisce uno strumento vocale di grande proiezione, una voce d’acciaio che esalta l’aria Inflammatus et accensus di riflessi altamente drammatici. Nell’equilibrio fonico si sarebbe preferito comunque un volume meno eccessivo. Già ascoltato altre volte in questa pagina, il mezzosoprano Marianna Pizzolato conferma la sensibilità con cui rende la cavatina Fac ut portem Christi mortem. La parte del tenore in Cuius animam gementem è quella più virtuosistica, quella che ha fatto storcere il naso a qualche critico, ma che non si tratti solo di una superficiale pàtina di brillantezza lo dimostra un Dmitrij Korčak in stato si grazia che dà significato alle parole delle tre terzine e particolare smalto alla cadenza virtuosistica. Il basso Mirco Palazzi, dal bellissimo timbro e dalla nobile linea di canto, fa di Pro peccatis suae gentis, uno dei numeri composti nel 1841, un pezzo di maestosa bellezza. Nel secondo quartetto ai solisti si unisce il coro, qui quello del Teatro Regio di Torino, perfettamente a suo agio in questo repertorio. Nel finale fugato lo stesso coro tocca i vertici della perfezione per concludere degnamente un lavoro che ad ogni ascolto si scopre sempre più affascinante.
(1) Heinrich Heine, presente la sera del 7 gennaio 1842 nella Sala Ventadour parigina
(2) In francese l’espressione con l’aggettivo che precede il sostantivo si tradurrebbe “un diavolo di musica”.
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