Gli uccellatori

photo © Clarissa Lapolla

Florian Leopold Gassmann, Gli uccellatori

Martina Franca, Teatro Verdi, 2 agosto 2023

★★★★☆

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Non uno ma tre Papageni (e una quasi Regina della notte)

L’ultimo degli allestimenti in programma al Festival della Valle d’Itria è un titolo settecentesco di Florian Gassmann, compositore austriaco a cavallo di barocco e classicismo, basato sul testo di Li uccellatori di Carlo Goldoni. Messo in scena nel 1759 al Teatro San Moisé di Venezia, la sua partitura manoscritta è stata solo recentemente riscoperta a Vienna dove l’opera era approdata nel 1768. La vicenda si basa sugli intrecci amorosi tra una coppia seria di nobili (il Marchese Riccardo e la Contessa Armelinda) e un gruppo di parti buffe formato da tre cacciatori di uccelli (Cecco, Pierotto e Toniolo) e due servette (Roccolina e Mariannina) in cui il ruspante Cecco è concupito da tutte e tre le femmine.

Allo spuntar dell’aurora gli uccellatori Pierotto, Cecco e Toniolo sono pronti, con quaglie, fringuelli e civette da richiamo, a partire per la caccia, quando vengono raggiunti dalle due servette Mariannina e Roccolina, con le quali si scambiano saluti e sguardi languidi. Entrambe innamorate ma diffidenti l’una dell’altra, le fanciulle preferiscono custodire il proprio segreto d’amore, entrando da subito in competizione. Nel frattempo, la Contessa Armelinda respinge le profferte amorose del Marchese Riccardo: il cuore della donna è infatti piagato da un sentimento inconfessabile, verso qualcuno che non è un suo pari, ma appartiene a una classe inferiore, Cecco. Oggetto del desiderio di ben tre donne, l’uccellatore si troverà, suo malgrado, a dover sventare un attacco omicida nei suoi confronti e a essere testimone di un processo fittizio, in cui giudice e notaio altri non sono che le due servette rivali en travesti. Dopo rinunce e pentimenti, scoppi d’ira e vezzose schermaglie, il lieto fine sancirà, ancora una volta, il ripristino dell’equilibrio sociale ed erotico.

Superato un certo fastidio per l’argomento – la caccia alle povere bestiole e il loro finire in padella – si apprezza l’arguto testo goldoniano in cui cacciatori e cacciati sono gli umani stessi in un gioco di schermaglie amorose interclassiste: la Contessa si dichiara infatuata del popolano Cecco ma non è una novella Lady Chatterly persa per il suo guardacaccia, quanto piuttosto una nobile annoiata che ben presto si rende conto della sconvenienza della sua relazione: «vo facendo il precipizio mio. | Che rossor, che vergogna | amare un uom sì vile» e rientra nei ranghi di una relazione socialmente accettabile accettando la corte del Marchese fino a quel momento bistrattato: «se il Marchese | tornasse a supplicarmi, | forse all’affetto suo potrei piegarmi». Nel finale la morale della storia: «Evviva il dio d’amore | ch’è un bravo uccellatore | e di cuori amanti | sì bella caccia fa».

I personaggi nobili utilizzano un lessico ricercato e cantano in uno stile virtuosistico da opera seria, quelli popolari sono parti buffe che esprimono le pulsioni erotiche con semplice vitalità. Più che il sentimentalismo, la cifra distintiva de Gli uccellatori è l’aspetto ludico e la musica di Gassmann si diverte a richiamare i volatili imitando con oboi e violini i versi della quaglia nell’aria di Pierotto. Ma gli uccelli sono i veri protagonisti fin dalla sinfonia tripartita con le volatine dei flauti nel primo movimento o gli assoli degli oboi che rispondono a quelli dei corni nel terzo. Figurazioni onomatopeiche imitanti cinguettii sono sparse per tutta l’opera e formano una “musica di scena” inserita in un congruo apparato scenico che qui al Teatro Verdi nell’allestimento della regista Jean Renshaw viene realizzato con minimalistica eleganza: i diversi spazi aperti previsti – Piazza con case rustiche e Bosco al primo atto; Giardino e Campagna sparsa di capanne del secondo; il Bosco e Campagna del terzo – sono qui sintetizzati da Christof Cremer, che firma anche i bei costumi, in una scena fissa formata da una tavola inclinata con una botola e pochi altri elementi scenici – due alberelli formano il Bosco, una sedia legata a una scaletta lo scranno del giudice, una panchetta l’unico ambiente chiuso previsto dal libretto etc. La presenza della danzatrice Emanuela Boldetti – Renshaw non si dimentica di essere stata coreografa – richiama con i ventagli le ali dei volatili e con i suoi aggraziati movimenti punteggia i momenti strumentali o si inserisce in modo discreto nell’azione. 

Enrico Pagano a capo dell’Orchestra ICO della Magna Grecia concerta con precisione e gusto una musica che anticipa in alcune pagine quelle che scriverà poi Mozart, soprattutto la prima aria della Contessa che sembra richiamare quella della Donna Anna dongiovannesca. Il giovane direttore romano classe 1995, si è già fatto un nome quale esperto di questo genere e infatti riesce a trascinare la compagine strumentale, per la prima volta impegnata in questo repertorio, in un flusso musicale dove svettano gli interventi strumentali risolti con bello stile. La partitura, come quelle di questo periodo, è scarna di indicazioni e qui è l’inventiva dell’esecutore a rendere vivo quello che in molti casi è appena abbozzato e che poteva variare ad ogni ripresa, un canovaccio da adattare a nuovi teatri, nuovi cantanti, nuove orchestre.

Quasi tutti gli interpreti escono dal progetto dell’Accademia di Belcanto e ben quattro calcano la scena per la prima volta, ma non si nota, vista la sciolta presenza scenica dimostrata dai giovani cantanti. Si diceva che la parte della Contessa anticipa quella della mozartiana Donna Anna, ma qui l’islandese Bryndis Gudjónsdóttir con il suo temperamento e strumento vocale generoso, anche troppo per un teatro minuto come quello di Martina Franca, ricorda quasi più la Regina della Notte quando attacca con vigore l’aria «Palpitare il cor mi sento» che punteggia di vigorosi acuti. Il ruolo del Marchese è irto di agilità che hanno portato in passato ad assegnare la parte a un mezzosoprano o a un controtenore, ma qui il tenore Massimo Frigato riesce a tener testa ai virtuosismi richiesti dalla sua aria di furore «Fremo d’amor, di sdegno». Nel campo dei “comici” qui vincono per qualità le voci maschili su quelle femminili: in Cecco si ammira il bel timbro e la gagliarda presenza del baritono Elia Colombotto; in Pierotto l’entusiasmo e la sicurezza vocale del basso Huigang Liu e in Toniolo l’affermata presenza del tenore Joan Folqué. Vivaci e spigliate sono le servette affidate a Justina Vaitkute (Roccolina) promettente mezzosoprano, e Angelica Disanto, vivace Mariannina.

Un pubblico non numerosissimo ma prodigo d’applausi ha salutato la felice prova dei giovani interpreti e del direttore e la scoperta di questa gemma settecentesca, una delle tante che ancora restano da dissotterrare.