Grazio Braccioli

Orlando furioso

Antonio Vivaldi, Orlando furioso

★★★☆☆

Venezia, Teatro Malibran, 13 aprile 2018

Barocco camp per Vivaldi

In ogni spettacolo c’è un momento in cui questo prende il volo e fa dimenticare un inizio magari sotto tono: nell’Orlando Furioso prodotto dal Teatro la Fenice e già presentato l’anno scorso a Martina Franca, questo è il momento in cui Ruggiero cede agli incantesimi di Alcina in un’aria dolcissima con flauto traversiere obbligato dipanata con un mirabile gioco di legati e mezze voci dal controtenore Carlo Vistoli, la vera sorpresa della serata. Intanto Alcina ha preso al laccio e incappucciato il suo Ippogrifo che viene portato tristemente via.

Ma qual è la genesi dell’opera? Come impresario del Teatro Sant’Angelo nel 1713 Antonio Vivaldi aveva messo in scena con grande successo lOrlando furioso di Giovanni Ristori su libretto di Grazio Braccioli. L’anno successivo era invece miseramente fallito il suo Orlando finto pazzo, anch’esso su libretto del Braccioli, tanto che molta della musica di quello venne interpolata all’opera del Ristori precipitosamente rimessa in cartellone. Dopo tredici anni Vivaldi si cimentò nuovamente col personaggio dell’Ariosto, autore che godeva di molta fortuna nel mondo musicale dell’epoca, basti pensare ai tre lavori händeliani che si succederanno di lì a pochi anni: OrlandoAlcina e Ariodante.

Il Prete Rosso era ripartito dal libretto del Braccioli rimaneggiato non tanto nella vicenda quanto nel testo delle arie: solo cinque rimasero immutate, tutte le altre furono riscritte. Le modifiche furono probabilmente dello stesso Vivaldi, certamente non del librettista originale, di cui non venne nemmeno citato il nome sul testo stampato.

Con il titolo Orlando, il 10 novembre 1727 debuttò dunque questo “drama per musica” con un cast prevalentemente femminile e vocalmente omogeneo: i tre contralti/mezzosoprani Lucia Lancetti (Orlando), l’amata Annina Girò (Alcina) e Maria Caterina Negri (Bradamante), due semisconosciuti contraltisti castrati nelle parti di Medoro e Ruggiero, il soprano Benedetta Sorosina (Angelica) e il basso Gaetano Pinetti (Astolfo).

Sulla trama e sulle vicende dell’opera si veda quanto già scritto a proposito delle registrazioni in DVD. Ricordiamo soltanto che, come scrive il Mellace sul programma di sala, qui «Vivaldi [è] al culmine della sua carriera di operista, il compositore si mostra sostanzialmente fedele al proprio ideale di teatro musicale, in cui la voce è coadiuvata da un’orchestra mai confinata allo sfondo, bensì chiamata a collaborare efficacemente ai grandi affreschi […] Ben più che non Händel o a maggior ragione i più “giovani” napoletani, il Prete Rosso predilige infatti una scrittura strumentale densa», cosa che risulterà particolarmente evidente nella conduzione di Diego Fasolis.

Con il titolo Orlando furioso, titolo che si è imposto in epoca moderna ora che nessuno teme più la competizione con l’omonima opera del Ristori, va in scena al Malibran questo nuovo lavoro vivaldiano. La distribuzione rispecchia i generi e i ruoli della prima storica: tre contralti o mezzosoprani (Sonia Prina, Lucia Cirillo, Loriana Castellano), due contraltisti (Raffaele Pe e Carlo Vistoli), un soprano (Francesca Aspromonte) e un baritono (Riccardo Novaro). Tutti italiani e tutti specialisti del genere – la presenza di Diego Fasolis, a capo dell’orchestra del teatro e alle tastiere del clavicembalo, non avrebbe ammesso qualcosa di diverso. Fasolis imprime fin dalla sinfonia iniziale un impulso incessante e neanche una battuta viene posta in ombra dalla sua partecipe e sapiente conduzione.

Nel ruolo titolare Sonia Prina, habituée dei ruoli en travesti, conferma il suo eccellente stile e l’agio nelle agilità, ma lo smalto della voce un po’ appannato, il registro basso meno sonoro e quello alto stiracchiato non permettono di rendere al meglio nelle arie del personaggio – «Nel profondo cieco mondo» non convince pienamente proprio a causa della mancanza di corpo delle note basse – e nella sconvolgente scena della pazzia del terzo atto. Più riuscite sono l’Angelica di Francesca Aspromonte e la Bradamante di Loriana Castellano, vocalmente e scenicamente adeguate, mentre Lucia Cirillo delinea un’Alcina caratterizzata come vamp all’inizio, innamorata delusa e vendicatrice alla fine. La voce del mezzosoprano incontra alcune asprezze e non sempre risponde al meglio nelle agilità richieste dalla parte e la sua aria di furore «Anderò, chiamerò dal profondo» è resa con alcune imprecisioni. Nobilmente maschia e suadente nel timbro risulta la voce di Riccardo Novaro, Astolfo di stile impeccabile. Serata no invece per Raffaele Pe che nella prima aria manca alcune note e dimostra sbandamenti di intonazione, ma riprende quota poi nel prosieguo. Di Carlo Vistoli si è già detto: la sua è la performance più pregevole per bellezza di timbro, esattezza di fraseggio e dolcezza di emissione.

Mutilato di alcuni degli effetti scenici che erano stati esibiti sul grande palcoscenico di Martina Franca – come l’apparizione della nave di Medoro o la mongolfiera – l’allestimento di Fabio Ceresa ricrea in maniera camp il barocco di Pier Luigi Pizzi con i fastosissimi costumi di Giuseppe Palella – talmente ricchi di ori che i loro baluginii accecano gli spettatori – e la scena unica di Massimo Checchetto che prevede un’enorme sfera la cui convessa superficie scabra rappresenta quella della Luna. Ruotando su sé stessa diventa una concava conchiglia dorata, una specie di alcova per Alcina e il suo dissoluto e pittoresco seguito. Riccioli barocchi in pietra su cui salire o dietro cui nascondersi completano la scenografia. Il gioco di luci colorate di Fabio Barettin è intrigante, anche se da aggiustare ancora un po’ per non tenere talora alcuni interpreti al buio. Belle le “macchine”: l’ippogrifo e Aronte, quest’ultimo un gigante le cui membra sono mosse da diverse persone.

Come per le precedenti edizioni in DVD, anche in questa produzione si ha una “revisione drammaturgica” qui realizzata dal regista stesso, in cui il libretto originale viene impunemente modificato e la musica drasticamente ridotta. Con Wagner nessuno si sognerebbe di farlo, con Vivaldi invece sì, con lui sono tutti musicologi.

Neanche stavolta dunque c’è stata: quando si potrà avere finalmente un’edizione fedele alle intenzioni dell’autore?

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Orlando furioso

  1. Behr/Pizzi 1990
  2. Spinosi/Audi 2011

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★★★☆☆

1. Di specchi, cimieri, piume di struzzo e chilometri di seta

Al Teatro Sant’Angelo di Venezia nella stagione 1713 era stata allestita con successo un’opera del compositore bolognese Giovanni Alberto Ristori su libretto di Grazio Braccioli dal titolo Orlando furioso. Vivaldi si era appassionato al soggetto e aveva chiesto al poeta ferrarese di adattargli un nuovo testo, questa volta però ispirato maggiormente all’Orlando innamorato del Boiardo; sarà l’Orlando finto pazzo. L’opera va in scena nel novembre 1714 riscuotendo però solo una tiepidissima accoglienza; per rimediare, la direzione del teatro impone il riallestimento del lavoro di Ristori al quale Vivaldi apporta alcuni cambiamenti con l’aggiunta di qualche aria per il nuovo cast.

Dopo un esilio artistico iniziato nel 1718 e segnato da brillanti tappe a Milano e Roma, Vivaldi riallaccia i legami con il Teatro Sant’Angelo che dalla stagione d’autunno 1726 lo assume ufficialmente come “Direttore delle opere in musica”. Così il compositore decide di porre rimedio al fiasco di tredici anni prima rimusicando l’Orlando. Recupera la prima versione di Braccioli, più fedele all’originale letterario, e inserisce anche alcune arie tratte da precedenti opere (di cui 5 dell’Orlando finto pazzo): in questa nuova veste lo ripresenta al pubblico veneziano il 10 novembre 1727, come opera inaugurale. (1)

Presto l’opera cadde in oblio, come quasi tutte le consorelle dell’epoca barocca, fino alla trionfale ripresa moderna con la regia di Pizzi e l’interpretazione di Marilyn Horne su cui Alessandro Mormile dice che «Finalmente l’opera barocca aveva trovato la sua profetessa, capace di resuscitare uno stile esecutivo perduto, figlio di un melodramma che aveva obiettivo di colpire la fantasia dell’ascoltatore e di assecondare un tipo di opera che, imbevuta di belcantismo, amava le stilizzazioni e le astrazioni e, nelle voci, prediligeva i timbri rari e metafisici, in particolare quelli dei castrati».

Dal Filarmonico di Verona nel terzo centenario dalla nascita del prete rosso (1978) fu ripresa in molti teatri lirici internazionali segnando la rinascita in epoca moderna di un interesse a livello mondiale per le opere di Antonio Vivaldi e barocche in generale. Dodici anni dopo l’allestimento viene ripreso a San Francisco e per molto tempo questa rimarrà l’unica registrazione video di un’opera di Vivaldi. (2)

Rispetto al libretto dell’opera disponibile in rete, l’edizione qui registrata è molto diversa e centrata sul personaggio della Horne. Nel primo atto sono eliminate le prime quattro scene e viene anticipata un’aria dell’atto successivo. Nel secondo atto, oltre a vari tagli, viene cambiato l’ordine delle prime dieci scene. Nel terzo atto la seconda metà è completamente diversa con un arioso ricuperato dal primo atto. Da perderci la testa.

Lo scenografo e costumista Pizzi subordina anche la regia alla sua visione: recitazione e definizione espressiva dei personaggi con gesti aulici e pose statuarie sono sottoposti al rito ripetitivo ma visualmente affascinante dello stesso spettacolo barocco di sempre che qui ha rimandi iconografici altissimi: Tiziano, Tiepolo, Veronese, il Settecento dunque, non l’età cavalleresca. Sono candide architetture tardorinascimentali su sfondi di nero lucido o specchi che riflettono costumi sfarzosissimi e come in un défilé di alta moda i cantanti entrano ed escono con i loro chilometrici strascichi, carichi di gioielli baluginanti su sete dai vividi colori e dai cimieri adorni di colorate piume di struzzo. Il tutto ripreso con la solita eleganza dalla regia video di Brian Large.

Con la direzione senza vita di Randall Behr la Horne non ha più la magnificenza vocale dell’edizione audio di tredici anni prima, ma è comunque magistrale nel fraseggio e nei lunghi recitativi. Le eccellenze vocali qui vanno poi ricercate nel Ruggiero elegante e stilisticamente impeccabile del controtenore Jeffrey Gall e nello smalto e nello squillo di William Matteuzzi, Medoro, l’unico italiano del cast, e si sente: negli altri interpreti consonanti doppie e accenti inediti (misèra, rapìda…) si affiancano a interpreti telegeniche (con un’Alcina da cinema muto…) ma semplicemente diligenti dal punto di vista vocale.

La durata è di 147 minuti, quasi cinquanta in meno rispetto all’edizione Spinosi/Audi di Parigi, quella da tutti giudicata troppo veloce! Immagine ovviamente in 4:3, una sola traccia stereo e sottotitoli anche in italiano. Il disco è regionalizzato.

(1) Il luogo dell’azione è l’isola incantata della maga Alcina. Atto I. Mentre Orlando si lamenta della cattiva sorte che gli impedisce di ritrovare Angelica, questa piange la scomparsa dell’amato Medoro. Ma ecco giungere dalle onde Medoro morente su un relitto. In aiuto di Angelica giunge Alcina che, con la sua magia, restituisce la vita a Medoro. Improvvisamente compare Orlando che, folle di gelosia, vuole uccidere Medoro, ma Alcina lo convince che il giovane è fratello di Angelica. Rimasta sola, Alcina vede atterrare un ippogrifo cavalcato da Ruggiero, si invaghisce dell’eroe e lo ammalia con le sue arti. Sopraggiunge Bradamante, amante di Ruggiero, che si dispera trovandolo tra le braccia della maga, sotto l’effetto di un incantesimo.
Atto II. Bradamante scioglie con l’anello magico l’incantesimo di Ruggiero e poi lo abbandona con parole di sdegno. Intanto Astolfo, compagno di Orlando, tenta di conquistare Alcina, ma viene deriso dalla maga. Bradamante e Ruggiero si incontrano di nuovo e questa volta la donna perdona l’amato. Sempre con l’aiuto di Alcina, Angelica tenta di liberarsi dell’insistente corteggiamento di Orlando, chiedendogli di raccogliere per lei un’acqua di giovinezza, custodita da un mostro in cima a una montagna stregata. Orlando sfida il mostro, ma la roccia gli crolla intorno rendendolo prigioniero nell’antro di una grotta. Nel frattempo Angelica e Medoro celebrano in un bosco il loro matrimonio, incidendo i loro nomi sugli alberi circostanti. Sul posto giunge Orlando, liberatosi fortunosamente, e vedendo i nomi degli amanti impazzisce.
Atto III. Ruggiero e Astolfo piangono la sorte di Orlando che credono morto; organizzano la vendetta contro Alcina fidando nell’aiuto della buona maga Melissa. Compare Orlando in preda alla follia e si rivolge con tristi fantasticherie ad Alcina destando la compassione di Ruggiero e Bradamante. Giunge Angelica e Orlando la rimprovera con frasi rese sconnesse dalla follia. Gli eroi presenti accusano Angelica di malvagità e la giovane piange pentita. Dopo altri dolorosi vaneggiamenti, Orlando ingaggia una lotta con Aronte, il guardiano del tempio, e lo uccide. Per effetto della rottura dell’incantesimo crolla il tempio e con esso il regno della maga Alcina. I paladini gioiscono nel ritrovarsi e svegliano Orlando che recupera la ragione. Alcina fugge invocando vendetta, mentre Orlando serenamente perdona Angelica e Medoro, benedicendo le loro nozze.

(2) In Italia intanto i manoscritti vivaldiani del fondo Foà-Giordano giacciono quasi inutilizzati alla Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino a pochi metri da una fondazione lirica che ha sempre considerato il repertorio barocco una strampalata bizzarria per pochi fanatici.

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★★☆☆☆

2. Confezione scadente

Qui abbiamo la registrazione del 2011 dal Théâtre des Champs-Elisées di Pari­gi e un cast ragguardevole: Marie-Nicole Lemieux è molto brava come protagonista, anche se deve andare in giro con la barba di Baba la Turca. La voce di Jenni­fer Larmore denuncia l’età: la sua è un’Alcina antipatica dalla voce sgradevole e acidula e con di­zione tutt’altro che impeccabile. Meglio gli altri interpreti, tutti specialisti del canto barocco, da Jaroussky alla Hammar­ström alla Romina Basso. Conduzione musicale un po’ nervosa di Jean-Christophe Spinosi. La regia di Pierre Audi ambienta l’epi­sodio ariostesco in un interno veneziano triste e monocromo e non c’è traccia di giardini in­cantati. Mono­cromi e grigi anche i costumi, quasi uguali per tutti. Bautte e tricorni pren­dono il po­sto di visiere e cimieri, ma per fortuna ci sono risparmiati i ventagli. Grande uso di sedie Louis XV rovesciate e spostate (un omaggio alla Pina Bausch del Café Müller?), lampadari e vetri di Murano. Col progredire dell’opera la scena si fa sempre più scarna e la follia di Orlando tende a contagiare tutti gli altri personaggi: l’ul­timo atto è quasi da tea­tro espressionista o potrebbe ospitare una pièce di Beckett. Dal vivo lo spettacolo deve aver avuto sicuramente un altro impatto.

La mancanza di informazioni non permette di ricostruire le scelte di Spinosi, sta di fatto che il suo Orlando sembra tutta un’altra opera rispetto a quella dell’edizione con la Horne. Non c’è trac­cia di libretto nel ricco fascicolo di quasi ottanta pagine che ac­compagna la modesta confezione in cartonci­no e manca anche un indice delle scene (!) che possa permettere di fare un confronto con le altre edizioni discografiche.

L’immagine è un po’ granulosa e l’unica traccia sonora è decisamente mediocre, con il suono molto compresso per far stare le oltre tre ore di musica su un solo disco: vien voglia di togliere l’audio e inse­rire il CD della Vivaldi Edition. Niente sottotitoli in italiano! Ver­gogna, trattandosi di un’opera­zione made in Italy.  Ovviamente  nessun extra.

Un’occasione mancata: meritava maggior cura una delle rare edizione delle bellissime opere teatrali del Prete Rosso. Peccato. Aspettia­mo il blu-ray o perlomeno una registrazione su due dischi e una confezione meno trascurata. Tre stelle per l’allestimento e una per la presentazione.