Giulio Cesare in Egitto

foto © Fabrizio Sansoni – Opera di Roma

Georg Friedrich Händel, Giulio Cesare in Egitto

Roma, Teatro dell’Opera, 13 ottobre 2023

★★★

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Giulio Cesare torna a Roma

Anche l’Italia continua a riscoprire i tesori del teatro barocco in musica, che sono al 99% italiani. Grazie al lavoro di specializzazione in questo repertorio di direttori che non sono più soltanto olandesi o tedeschi, e a registi che propongono letture intriganti di quelle vicende spesso più vicine a noi di quanto lo siano quelle di molto teatro dell’Ottocento, i compositori della prima metà del XVIII secolo godono di una nuova popolarità. Primo fra tutti Georg Friedrich Händel, il cui Giulio Cesare in Egitto approda per la quarta volta al Costanzi: nel 1955 c’era Gavazzeni sul podio e un basso (Boris Hristov) nella parte di Cesare; nel 1985 il condottiero romano era un mezzosoprano (Margarita Zimmermann) come nel 1998 (Alice Baker) mentre ora sono ripristinate le voci originali con controtenori nei ruoli dei castrati, qui dove tutto era iniziato con la loro introduzione nell’opera lirica in seguito al divieto alle donne di salire sui palcoscenici dello stato pontificio. 

Nel Giulio Cesare di Händel oltre al protagonista altri tre ruoli furono affidati ai castrati, quello di Tolomeo, Sesto e Nireno; gli altri due maschi, Achilla e Curio sono bassi, Cleopatra è un soprano e Cornelia un mezzosoprano. Non sempre questa distribuzione è rispettata nelle numerose intonazioni della vicenda di Cesare in Egitto: nella prima versione di Antonio Sartorio (1676) Cesare è un soprano, ma Carlo Francesco Pollarolo preferisce la voce più calda del mezzosoprano nella sua opera del 1713 e nel 1728 Luca Antonio Predieri opta per il contralto Paolo Mariani. Dopo il Giulio Cesare in Egitto di Händel (1724, creato per il Senesino) ci saranno ancora quello di Giacomelli (1736, col Carestini) e di Piccinni (1770). Graun nel 1742 aveva intanto presentato il suo Cesare e Cleopatra col castrato Paolo Bedeschi.

I 44 numeri della partitura originale – arie solistiche, ariosi, recitativi accompagnati, duetti, cori, sinfonie, marce – formano una sequenza di pezzi dalla superba scrittura musicale con cui si intrecciano le vicende d’amore tra Cesare e Cleopatra e quelle di vendetta della moglie Cornelia e del figlio Sesto per la morte di Pompeo in uno schema melodrammatico metastasiano di grande forza drammatica ma senza una vera tensione narrativa.

Molte sono le diverse versioni dell’opera di Händel che, secondo le usanze dell’epoca, venivano adattate alle diverse disponibilità del teatro di turno: venivano così cambiate o tagliate arie, eliminati personaggi. Qui a Roma ancora diversa è la versione proposta: i personaggi sono tutti presenti ma molti numeri musicali sono mancanti: vengono infatti tagliati il coro iniziale, due arie di Cesare, ben tre di Cleopatra e due di Achilla, Cornelia e Sesto vengono privati di un’aria ciascuno. In totale ben dieci pezzi, per non parlare dei recitativi decimati. L’esecuzione è suddivisa in due parti invece che nei tre atti previsti e così si toglie risonanza al duetto Cornelia/Sesto «Son nata a lagrimar, | son nato a sospirar» con cui si conclude il primo atto. Anche il finale secondo, pure lui affidato alla voce di Sesto (qui nella variante «L’angue offeso mai non posa») si trova nel mezzo della seconda parte.

La maestosa orchestrazione di Händel è affidata alle esperte mani di Rinaldo Alessandrini, che della partitura restituisce la ricchezza e sontuosità, ma l’orchestra del teatro non si rivela il miglior strumento espressivo in questo repertorio pochissimo frequentato: il suono è preciso, gli attacchi corretti ma non ci sono lo scatto e il colore dell’opera barocca, gli equilibri sonori sono troppo smorzati, le preziosità strumentali non sempre evidenziate. Ottima è invece la concertazione delle voci in scena affidate ai migliori interpreti di questo repertorio e molto belle le variazioni nei da capo, e qui la mano esperta di Alessandrini è evidente. Raffaele Pe è vocalmente autorevole come Cesare e anche se non affronta la spericolata «Qual torrente, che cade dal monte» del terzo atto, dimostra grande facilità nelle agilità richieste dalla parte e una presenza scenica coerente con l’impostazione registica per la quale Cesare è «un uomo goffo, imbranato, che non ne combina una giusta» e s’innamora di una serva che è Cleopatra travestita. Al suo rientro a Roma, di lì a pochi anni Cesare cadrà sotto le pugnalate dei congiurati che qui compaiono dietro un telo traslucido abbigliati in toga come antichi romani.

Ha già interpretato Cesare e lo farà di nuovo tra poco in versione concertistica con Cecilia Bartoli, ma qui Carlo Vistoli veste i panni di Tolomeo, un ruolo ancora più impervio che però il controtenore romagnolo gestisce in maniera impeccabile vocalmente – sin dalla prima aria di furore «L’empio sleale indegno», come nelle seguenti «Sì spietata, il tuo rigore», «Domerò la tua fierezza», le asprezze e i salti di registro delineano con efficacia la crudeltà del personaggio – e scenicamente, con quel parrucchino biondo e i tatuaggi sulla pelle e con Michieletto che sottolinea il rapporto vagamente morboso con la sorella Cleopatra. Il terzo controtenore, ed è la sorpresa della serata, è Aryeh Nussbaum Cohen, un Sesto di grande potenza vocale, espressivo, dal bellissimo timbro e dalla sicura tecnica con cui riesce a dare del figlio di Pompeo un ritratto in evoluzione. Ci sarebbe un quarto controtenore, Nireno, ma qui non ha un’aria per sé e Angelo Giordano deve aspettare un’altra occasione per farsi meglio apprezzare. Tra le varianti inserite in successive versioni Händel aveva scritto per Nireno un seducente numero («Chi perde un momento | d’un dolce contento») che finora, salvo errore, è stato eseguito solo nella produzione di McVicar. Neanche Curio, qui Patrizio La Placa, ha un’aria tutta sua e non molto meglio va per Achilla a cui rimane un solo intervento solistico su tre («Tu sei il cor di questo core») affidato all’ottimo basso Rocco Cavalluzzi.

E infine le interpreti femminili: Mary Ann Bevan, il soprano americano ammirato nel recente Orfeo ed Euridice veneziano, nella parte di Cleopatra qui ha modo di dispiegare le sue doti di sensualità ed agilità vocale in una serie di momenti musicali che vanno dal frivolo «Non disperar, chi sa?» della sua prima aria al tragico «Piangerò la sorte mia» espresso con grande intensità emotiva. La sua è una Cleopatra meno leggera del solito e dal corposo registro medio. Della Cornelia di Sara Mingardo non c’è molto di nuovo da dire: è uno dei suoi ruoli di elezione e quello in cui le sue qualità vocali si sono meglio espresse. Col tempo l’adesione al personaggio ha raggiunto un livello difficilmente superabile.

Guardando sul programma di sala le foto dei vecchi allestimenti del Costanzi si prova un misto di tenerezza e raccapriccio nel vedere le scenografie in cui l’Egitto è stato visto con l’occhio delle varie epoche – e nessuno era il vero Egitto – e si capisce anche come indietro non si possa tornare: da quando nel 1985 Peter Sellars aveva ambientato la vicenda nel moderno Medio Oriente c’era poi stato Sir David McVicar vent’anni dopo a sbarazzarsi della pseudo-archeologia per ambientare la produzione di Glyndebourne nell’India coloniale. All’Egitto era ritornato, ma con il suo spirito dissacrante, Laurent Pelly, che nel 2011 a Parigi aveva allestito la vicenda nei depositi del Museo del Cairo.

Ancora più radicale la lettura di Michieletto che nel 2022 sorprende il pubblico del Théâtre des Champs Elysées con uno spettacolo di rara purezza visuale, in costumi moderni con solo alcuni dettagli egizi. La sua è una lettura rigorosamente drammatica, non prende in considerazione gli elementi di tragico e comico, di alto e basso che si mescolano nell’opera barocca e che McVicar aveva genialmente ricreato nella sua versione stile Bollywood. Qui invece domina il fatum, con le tre Parche che tessono il destino dell’uomo, e la morte: Pompeo, di cui ci è risparmiata la visione splatter della testa mozza (qui c’è solo l’inquietante sottile rivolo di sangue che esce dalla scatola contenente il “regalo” di Tolomeo), è spesso presente in scena come spettro scespiriano che sostiene il figlio a cui presta gli abiti affinché la reincarnazione in lui sia completa. Alla fine, ricoperto di gesso bianco si trasformerà in statua sotto la quale Cesare cadrà pugnalato nelle fatali Idi di marzo. Con Pompeo Michieletto mette in scena il passaggio nell’aldilà secondo la concezione degli egizi, con la “pesatura dell’anima” del Libro dei Morti, mescolata con il mito delle Parche che qui dipanano il filo dalla bocca del defunto. E il rosso dei fili, che limitano la libertà dell’uomo o lo inglobano in una matassa indistricabile, assieme al nero delle ceneri che a un certo punto cadono su Pompeo, sono gli unici colori nel bianco abbagliante della scenografia di Paolo Fantin che costruisce una scatola bianca con un taglio nero orizzontale che collega l’aldilà. Con le luci di Alessandro Carletti e i costumi di Agostino Cavalca lo spettacolo di Michieletto raggiunge una dimensione onirica e fantastica che ricrea in forme moderne il senso del meraviglioso del barocco .

Il pubblico che ha affollato il teatro Costanzi ha risposto con calore alla inedita proposta dell’Opera di Roma applaudendo a lungo e senza eccezioni tutti gli artefici dello spettacolo. Quasi una delusione la mancanza di buu rivolti al regista e alla sua equipe. Che i tempi stiano cambiando anche per l’opera in Italia?

Il prossimo 20 ottobre Pe, Vistoli e Nussbaum Cohen si esibiranno qui in concerto con musiche di Vivaldi, Händel, Vinci, Porpora, Broschi, Gluck e Rossini. Dopo la stagione dei castrati, trecento anni più tardi, a Roma sembra sia arrivata la stagione dei controtenori.