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Umberto Giordano, Andrea Chénier
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Milano, Teatro alla Scala, 7 dicembre 2017
Trionfa la tradizione alla prima della Scala
Da quando la stagione del Teatro alla Scala viene inaugurata il giorno di sant’Ambrogio, il santo patrono della città, su 66 opere ben 30 sono state di Giuseppe Verdi, il compositore che la città ha adottato come suo.
Ha destato quindi qualche polemica la scelta di mettere in scena per l’occasione un autore del discusso Verismo – discusso da buona parte della critica, ma molto popolare tra il pubblico di melomani. Umberto Giordano è un compositore che nel teatro milanese ha fatto debuttare ben quattro sue opere: dopo l’Andrea Chénier del 1896, accolto da un successo trionfale, fu la volta di Siberia (1903), La cena delle beffe (1924, riproposta qui un anno fa) e Il re (1929).
Come nella Tosca di qualche anno dopo, anche qui il soprano si offre alle sozze brame del baritono per salvare il tenore, ma la vicenda di Andrea Chénier si svolge prima, alla vigilia della Rivoluzione Francese nel primo quadro e successivamente nella Parigi del Regime del Terrore. Si tratta quindi di un quadro storico ben definito che difficilmente permette ai registi riletture spericolate: se in scena risuonano il Ça irà, La carmagnole o La marseillaise c’è poco da inventarsi di nuovo.
Lo spettacolo allestito da Mario Martone è estremamente lineare e descrittivo e non si fa mancare tricolori, carrette dei condannati, ghigliottine e quant’altro, anche se si lascia scappare qualche incongruenza temporale come il mobile Impero o il balletto sulle punte, allora non ancora inventato – bisogna dire che nello stesso errore era incappato anche David McVicar nella sua ben più intrigante produzione londinese dell’Andrea Chénier. Nella scenografia di Margherita Palli la solita piattaforma rotante permette veloci cambi di scena che non interrompono il flusso della musica e grazie anche alla scelta del direttore Riccardo Chailly di eseguire con un solo intervallo le quattro parti e la richiesta di non applaudire dopo le romanze, lo spettacolo acquista un andamento fluido e sostenuto a tutto vantaggio della sua fruizione.
Chailly dimostra di conoscere molto bene la partitura, che aveva eseguito in questo stesso teatro l’ultima volta nel 1985. La sua lettura sinfonica mette in luce il virtuosismo orchestrale di un compositore che non rinuncia a rendere omaggio al lontano maestro con due citazioni wagneriane, il Lohengrin e il Tristano, sapientemente inserite nella partitura. Ma uno dei maggiori meriti del maestro Chailly è quello di aver curato con meticolosità e pazienza la parte del tenore, qui affidata a Yusif Eyvazov. L’interesse per lo spettacolo inaugurale, accompagnato dal solito fasto mondano e ripreso in diretta dalla televisione nazionale e trasmesso live su grandi schermi disseminati in vari punti del centro città, era infatti centrato sul debutto dell’interprete titolare. Diciamo subito che per il tenore azero la scommessa è riuscita quasi pienamente: ha superato il severo giudizio dei loggionisti e ora può essere considerato non solo più come “il marito di Anna Netrebko”. La sua performance ha messo in rilievo le caratteristiche della sua voce dal timbro tutt’altro che bello specialmente nel registro medio che risulta sfocato e poco sonoro. Egli dà il meglio negli acuti squillanti ma sa ben dosare la voce e renderla espressiva nei passaggi più lirici dimostrandosi così adatto a questo repertorio in cui la musica punta all’immediatezza e all’effetto più che all’introspezione psicologica o all’elegante allusione, una sorta di colonna sonora che intensifica la tensione dei momenti più strazianti. Seppure impacciato in scena, e la regia non gli è stata molto di aiuto, il cantante ha dimostrato una grande evoluzione dai suoi esordi, che facevano temere per il peggio.
La Maddalena di Coigny di Anna Netrebko non ha invece destato sorprese: la sontuosità del timbro e il temperamento sono doti che si conoscevano già, anche se l’ineludibile confronto con interpreti del passato ha fatto rilevare nella sua «La mamma morta» una certa esteriorità che Maria Callas, ad esempio, aveva risolto con una tragicità tutta interiore e molto più efficace. Neanche lei si è dimostrata particolarmente spigliata in scena e, stranamente, la scintilla tra lei e Chénier non sembra sia scoccata, forse per la tensione della prima. Non ci sono state sorprese neppure per lo Gérard di Luca Salsi che si è confermato grande interprete della parte. Lo spettacolo ha avuto tutti comprimari di grande livello, come l’Incredibile di Carlo Bosi, la Bersi di Annalisa Stroppa o la Contessa di Coigny di Mariana Pentcheva, ma nel cammeo di Madelon si è fatta rimpiangere la nostra Elena Zilio.
⸪