Die Liebe der Danae

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Richard Strauss, Die Liebe der Danae (L’amore di Danae)

★★☆☆☆

Salzburg, Grosses Festspielhaus, 31 luglio 2016

(video streaming)

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Danae nel serraglio

Dopo il suo formidabile Die Soldaten di quattro anni fa alla Felsenreitschule, il regista Alvis Hermanis ritorna a Salisburgo per allestire la penultima opera di Richard Strauss (1), ora nella Großes Festspielhaus. Come aveva già fatto con la sua insopportabile Jenůfa, il regista punta tutto sulla ricchezza dei costumi, qui con una profusione di ori accecanti. Per Hermanis la vicenda mitologica diventa una fiaba e l’isola greca di Eos un Medio Oriente di fantasia e caricaturale (turbanti oversize, abiti fluttuanti, donne in burqa, tappeti orientali…) pronto per il Ratto dal serraglio. Il regista lèttone ultimamente a proposito dei rifugiati se ne è uscito con delle dichiarazioni razziste in linea con quelle farneticanti di un Donald Trump o dei partiti xenofobi di questa parte d’Europa e le sue idee politiche incominciano a collidere con le sue idee registiche con un risultato preoccupante. Il suo esotismo di maniera svuota la storia di ogni possibile implicazione psicologica, sociale, politica o anche solo culturale per le quali il regista dimostra una totale indifferenza.

Anche la sottile ironia insita nella musica della Danae è del tutto assente nello stucchevole e vacuo allestimento e non esistono significative interrelazioni tra i personaggi: questa storia d’amore in cui una donna tra un dio e un asinaio sceglie il secondo, con grande scorno del primo, diventa uno sterile sfoggio di rutilanti tableaux vivants. A questo punto quasi si rimpiange che non sia stata riproposta l’edizione di Günter Krämer qui presentata nel 2002.

Consumato il budget sui costumi (di Juozas Statkevičius), l’impianto scenico risulta per converso povero e solo le sapienti luci di Gleb Filshtinsky rendono accettabile la piramide di asettiche piastrelle bianche, ma nulla possono invece con il brutto elefante di gesso su rotelle – è invece vero l’asinello albino che a un certo punto appare in scena. La pioggia d’oro è affidata alla videografica di Ineta Sipuniva mentre monotoni oltre ogni dire sono i movimenti coreografici di Anna Sigalova, gli stessi della Jenůfa, a metà strada tra show televisivo e spettacolo di Las Vegas con dodici imperversanti ballerine, dorate anche loro.

Note positive per la compagnia di canto. La bulgara Krassimira Stoyanova si conferma cantante di eccellenti mezzi vocali e grande presenza scenica, anche se qui è costretta ai gesti stereotipati imposti dalla fatua regia. Tomasz Konieczny, Jupiter fascinoso, è un Wotan dagli occhi cerulei e dalla sontuosa vocalità e non si capisce come Danae gli possa preferire il pesante Mida/asinaio di Gerhard Siegel, dall’intonazione per di più periclitante. Peccato che la scena della rinuncia di Jupiter non venga esaltata né dalla regia né dalla direzione orchestrale ed è un momento in cui si vorrebbero sterminate le onnipresenti ballerine che agitano fazzoletti bianchi per dare l’addio al nume…

Brave le altre parti, tra cui ricordiamo almeno il Pollux di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke, e il coro della Staatsoper viennese.

Franz Welser-Möst è al solito inamidato, ma qui è anche particolarmente affrettato e non riesce a mettere in luce le straordinarie armonie e i colori timbrici della partitura pur avendo sotto di sé un’orchestra di lusso come quella dei Wiener Philharmoniker.

(1) Della vicenda di questa “heitere Mythologie in drei Akten” (satira mitologica in tre atti) si è già scritto a proposito del DVD relativo all’allestimento berlinese del 2011.

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2 comments

    1. Con Welser-Möst “ce l’ho” da quando ha eliminato i recitativi cantati della “Clemenza di Tito” a Zurigo… Scherzi a parte, è un direttore discontinuo: il suo “Turco in Italia”, sempre a Zurigo, ad esempio, è quasi inascoltabile.

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