Emanuel Schikaneder

Die Zauberflöte

 

Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauberflöte

Torino, Teatro Regio, 30 marzo 2023

Col Flauto magico di Kosky il Regio conquista i giovani

Le uniche due produzioni di Barrie Kosky arrivate finora in Italia sono state quelle del suo Evgenij Onegin al San Carlo di Napoli e a Roma di questo Flauto magico. Non molte per un regista che i maggiori teatri del mondo si contendono per la genialità, l’originalità e lo straordinario senso teatrale.

Nato in Australia nel 1967, Kosky nel 2001 diventa co-direttore della Schauspielhaus di Vienna e poi direttore della Komische Oper di Berlino. Primo regista ebreo – e omosessuale dichiarato – ad allestire un’opera di Wagner al Festival di Bayreuth (dei memorabili Maestri cantori), è tra i più ricercati metteur en scène del momento, con un’agenda che prevede una produzione ogni due mesi. Indimenticabili sono le sue escursioni nel genere dell’operetta, soprattutto berlinese (Oscar Straus, Jaromír Weinberger, Paul Abraham), ma anche francese (Jacques Offenbach), e nel musical.

Scelta dal precedente sovrintendente e poi direttore artistico Sebastian Schwarz, questa produzione nata alla Komische Oper di Berlino nel 2012 è il frutto di un progetto del collettivo londinese di animazione “1927” fondato da Suzanne Andrade e Paul Barrit che hanno deciso di richiamarsi a questa data che indica la nascita del cinema sonoro. Se la parte visuale è del “1927”, l’impianto narrativo e l’idea dell’espediente cinematografico sono merito di Kosky che non ha letto l’ultimo lavoro di Mozart come un’opera carica di implicazioni filosofiche e morali, ma ha concentrato la sua lettura sulla figura di Schikaneder, il librettista del Flauto magico.

Alla fine dell’ouverture il sipario rosso si alza e mostra una parete bianca che si trasforma in una foresta con un giovane che corre per sfuggire a un drago-serpente rosso che lo minaccia con le fauci spalancate. Ma il giovane non sta effettivamente correndo: le gambe che si muovono freneticamente sono soltanto proiettate su un piccolo schermo che copre metà della sua figura. In alto, sulla parete tre aperture ruotano e appaiono tre signore con colli di pelliccia e sigaretta in mano: sono le tre dame che salvano il principe Tamino dal drago-serpente. Così inizia il Flauto magico ideato da Barrie Kosky e Suzanne Andrade.

Sospesi ad alcuni metri d’altezza, i cantanti si affacciano dalle finestrelle ritagliate nella parete bianca che funge da schermo per interagire con le figure in movimento. Il Flauto magico è essenzialmente opera di immagini e fu creato per quel teatro figurativo che Schikaneder proponeva al pubblico del suo Freihaus-Theater an der Wieden, un teatro che traduceva in divertimento popolare la spettacolarità barocca con i suoi arditi congegni, le macchine volanti, le botole, i cambi di scena, gli ingenui ma efficaci effetti teatrali. Quella ostentata spettacolarità è qui tradotta nei disegni animati realizzate da Paul Barrit che ha ripreso attualizzandole le tecniche multimediali della “Laterna magika”, teatro sperimentale presente a Praga fin dai primi anni ’60. Lo spettacolo è perfettamente congegnato e ha un enorme appeal per i pubblici di tutto il mondo che scoprono una nuova estetica espressiva. Quello di Kosky è innanzitutto un omaggio al cinema muto: Pamina sembra la Louise Brooks/Lulu di Pabst, Papageno è uno svampito Buster Keaton, Monostatos ricorda il Nosferatu di Murnau, Tamino un disinvolto Charlot. C’è il cinema espressionista tedesco, ma anche quello di Méliès e tanto altro ancora: il vaudeville, il music-hall, il cabaret berlinese, le prime tecniche di animazione, le illustrazione dei libri di Jules Verne, i collage surrealisti di Max Ernst, la grafica in stile neo-gothic di Edward Gorey, l’estetica dei fumetti e delle graphic novel. Da cinema muto sono le didascalie che condensano i dialoghi parlati. La presenza fisica dei cantanti è ridotta al minimo, talora ne vediamo solo la testa, com’è il caso della Regina della Notte trasformata in un gigantesco aracnide o dei genietti, qui simpatiche lucciole. L’obiettivo è inserire la voce dentro un’entità visiva di un universo in bianco e nero che evidenzia i vivaci tocchi di colore. L’interazione tra immagini e interpreti in carne e ossa è realizzata magistralmente, la sincronia con la musica sfiora la perfezione.

La musica del Flauto presenta atmosfere già proiettate verso la sensibilità romantica e oltre. Lo ha ben compreso il direttore Sesto Quatrini che della partitura ha offerto una lettura pulita e trasparente, con tempi distesi – un po’ troppo lenti però quelli dell’aria di Sarastro «In diesen heil’gen Hallen» che hanno messo in difficoltà il povero baritono – ma in generale la sua concertazione ha tenuto conto della qualità delle voci a disposizione ottenendo un buon equilibrio tra scena e buca. L’orchestra del teatro ha dato buona prova nei colori e nella precisione dei loro strumenti. Al fortepiano si sono ascoltate le musiche delle Fantasie per pianoforte in re minore K397 e do minore K475, dello stesso Mozart, che hanno collegato i vari numeri musicali dell’opera con insospettata fluidità. Ottimo l’apporto del coro, prima nascosto e poi solo alla fine in carne e ossa al proscenio, quando la pellicola si brucia e la favola cinematografica finisce: un momento di grande commozione in cui il coro intona quell’inno di lode alla saggezza in cui si vuole unire tutta l’umanità.

Due i cast previsti per la dozzina di recite di questo Flauto magico. Nella serata di giovedì si sono distinti i due interpreti dei personaggi principali: Gabriela Legun ha un bel timbro caldo e un fraseggio impeccabile con cui delineare una sensibile Pamina. La tecnica vocale esibita le permetterà addirittura di interpretare la Regina della Notte in due recite. Giovanni Sala è un Tamino dal timbro fresco e luminoso, dalla linea musicale impeccabile, bello stile e ottima dizione. Vocalmente i momenti migliori della serata sono proprio quelli che hanno visto assieme i due giovani cantanti. Il baritono Gurgen Baveyan è un Papageno corretto ma dalla dizione poco chiara e manca di caratterizzazione di un personaggio che vuole essere il beniamino del pubblico in questa favola. Voce non imponente e dal timbro quasi infantile, ma colorature fluide e precise quelle della Regina della Notte di Beate Ritter, più minacciosa comunque per la figura che per la vocalità. Thomas Cilluffo è un Monostatos di efficace presenza scenica ma voce di non grande proiezione, meglio il Sarastro di In-Sung Sim dalla nobile ed autorevole presenza vocale. Al pari della Papagena di Amélie Hois, molti degli altri interpreti sono artisti del Regio Ensemble: le simpatiche tre dame dalla distinta personalità Lucrezia Drei, Ksenia Chubunova, Margherita Sala; le voci bianche dei fanciulli, e qui in mancanza di maschietti si ripiega sulle pur brave Flavia Pedilarco, Costanza Falcinelli, Blanca Zorec; gli armigeri Enzo Peroni e Rocco Lia.

Anche se dopo questa seconda visione, seguita a quella all’Opéra-Comique di Parigi nel 2017, permangono le riserve già allora avanzate – la bidimensionalità non è solo nelle immagini, ma anche nei personaggi, qui caratteri da fumetto e gli interpreti, imbragati nelle loro finestrelle fissate nello spazio scenico non hanno grandi possibilità espressive oltre alla voce – il fascino dell’operazione rimane immutato. La genialità sta però nella sua unicità: non sarà questo il futuro dell’opera, ma l’entusiasmo del pubblico giovanile ci deve far riflettere: chi non aveva mai visto un’opera forse non si è neanche accorto di essere stato “all’opera”, ma si è divertito e probabilmente ci ritornerà. La recita del 30 marzo era infatti l’Anteprima Giovani, una serata per chi ha meno di trent’anni a 10€ , quanto un biglietto al cinema.

 

Prima dell’inizio nel foyer del teatro c’è stata la “presentazione-spettacolo” della bravissima Giorgia Goldini che con la valida spalla del maestro Giulio Laguzzi al pianoforte non solo ha divertito raccontando a modo suo la trama dell’opera ma ha anche ironicamente esposto le procedure associate al rito dell’andare a teatro e le raccomandazioni su come comportarsi. Non ce n’è stato bisogno: il giovane pubblico si è distinto per l’attentissimo silenzio interrotto solo dagli applausi alla fine di certi numeri e dalle ovazioni finali. Nessun colpo di tosse, nessuno che si sia trastullato col cellulare, nessuno che abbia abbandonato la sala prima della fine o si sia alzato appena la musica si è spenta per correre al guardaroba… Il pubblico ideale.

All’intervallo c’era chi tirava fuori dallo zaino il panino col salame e chi invece passeggiava per i corridoi del teatro con una coppa di prosecco o un succo di frutta in mano. Qualche ragazza era in un lungo abito elegante, qualche ragazzo in nero e col papillon. E dopo lo spettacolo nel Foyer del toro c’era ancora Contrasti, il concerto rock con la partecipazione della band Napoleone per concludere in bellezza. Ragazzi, che serata!

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La flûte enchantée

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Wolfgang Amadeus Mozart, La flûte enchantée (Il flauto magico)

★★★★☆

Versailles, Opéra Royal, 14 gennaio 2020

(video streaming)

Un Flauto nella lingua del suo pubblico

Un flauto magico in francese? Perché no se è destinato alle famiglie. Ma anche un pubblico meno innocente può riscoprire un capolavoro ben conosciuto e apprezzare per una volta uno spettacolo senza tanti sottintesi ideologici.

La versione di Françoise Ferlan, che traduce e riduce il testo originale tedesco smussando le tirate razziste e misogine che tanto preoccupano i custodi del politically correct, realizza quello che Mozart voleva per il suo pubblico viennese: non un’opera italiana, ma uno spettacolo che fosse immediatamente comprensibile per spettatori non smaliziati. È la stessa operazione che Ingmar Bergman fece col suo Trollflöjten, il film che la televisione svedese mandò in onda il 1° gennaio 1975, o più recentemente Graham Vick col suo Flauto Magico a Macerata.

Ma è l’aspetto visivo l’elemento più significativo di questo spettacolo che al pubblico offre una successione senza respiro di trovate immaginifiche. La messa in scena è affidata a Cécile Roussat e Julien Lubek e nella loro lettura Tamino è a letto nel suo pigiama a righe quando viene minacciato dal serpente, salvato dalle tre dame, eccetera. Il letto è il suo “mezzo di trasporto” e ricomparirà nella scena finale con un piccolo Tamino, probabilmente un suo discendente, che ascolta meravigliato quella bella storia raccontatagli da Sarastro. È stato tutto un sogno allora? Un bel racconto filosofico per fanciulli?

La produzione era nata a Aix-en-Provence e ora approda in un luogo più adatto: l’Opéra Royal di Versailles. Questa volta i due registi-scenografi riescono nell’intento di esaltare gli aspetti comici o poetici del lavoro e con il coro in buca arrivano a ottenere in scena fluidità di movimenti e gustose trovate visuali: la prima volta la Regina della Notte appare in uno specchio come nella Biancaneve di Walt Disney; l’ultima volta viene inghiottita da una grande tela di ragno; Monostatos esce dal camino, i tre genietti dall’armadio; il tempio di Sarastro è formato da enormi libri; i mobili si muovono… E ben vengano le capriole, le gag, i pennuti veri, le scenografie e i costumi fiabeschi, la preziosità della location. Diciamo che si apprezzerebbe tutto di più se solo la direzione di Hervé Niquet alla guida de Le Concert Spirituel fosse un po’ meno soporifera.

Tamino trova in Mathias Vidal un tenore dalla voce chiara e dagli acuti luminosi che si concede anche alcune sapide variazioni consentite dalla sua frequentazione con il repertorio barocco. La Pamina di Florie Valiquette si trova un po’ costretta nella parte di bambola ma riesce a dispiegare una vocalità espressiva. Sia Marc Scoffoni (Papageno) che Tomislav Lavoie (Sarastro) hanno qualche difficoltà nel registro grave. La Regina della Notte di Lisa Mostin ha voce ferma e precisa, ma manca di carattere. Adeguato il resto del cast.

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Il flauto magico

Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauberflöte (Il flauto magico)

★★★☆☆

Macerata, Arena Sferisterio, 20 luglio 2018

(registrazione video)

Tamino e la ruspa: il Flauto didattico di Vick

Graham Vick non si lascia certo intimorire dai particolari contesti in cui allestisce un’opera, anzi ne è stimolato: dopo capannoni industriali, lounge aeroportuali, tende del circo, palazzetti per lo sport, teatri di corte, questa volta tocca a quello spettacolare Sferisterio di Macerata da tempo adibito a spettacoli lirici che però non sempre ne hanno saputo sfruttare la peculiarità – la larghezza del palcoscenico, la vicinanza col pubblico, l’imponente muro di fondo, il plein air, lo stretto rapporto con la città. Tutti elementi che sono invece presi in considerazione e genialmente sfruttati dal regista inglese che coinvolge cento maceratesi (uomini e donne, giovani e vecchi, italiani e immigrati) a mo’ di coro greco, in questa gioiosa rappresentazione del Flauto magico che inaugura il festival lirico della città marchigiana.

Nello spirito originario dell’opera – la sua dimensione autenticamente popolare – e per avvicinarla ancora di più al pubblico la versione è quella in italiano nella datata traduzione di Fedele D’Amico con i dialoghi aggiornati da Vick e da Stefano Simone Pintor. La drammaturgia tiene conto della nostra modernità senza però scostarsi dalla vicenda che viene fedelmente rappresentata. All’opposto di quanto aveva fatto Romeo Castellucci nella sua estetizzante visualizzazione nella prima parte ed estrema ideologizzazione della seconda, qui Vick allestisce uno spettacolo coinvolgente che a un certo punto richiede anche l’attiva partecipazione degli spettatori nel coro dei sacerdoti del secondo atto – con il pubblico istruito alla bisogna da “Tamino” prima della fine dell’intervallo.

 

Lo sterminato palcoscenico dello Sferisterio riesce a ospitare i tre templi a cui bussa il principe: i grattacieli della Banca Centrale Europea e la basilica di San Pietro (i due simboli del potere) e un Apple store (il tempio della sapienza). Ma ci sono pure uno scavo stradale, una tendopoli, una folla di rifugiati e una ruspa gialla (il drago che minaccia Tamino all’inizio dell’opera). La scenografia e i costumi, ossia abiti di tutti i giorni, sono di Stuart Nunn mentre Ron Howell ha il non semplice compito di far muovere un centinaio di persone che non hanno mai calcato le scene. Ma l’entusiasmo e l’impegno dei cittadini di Macerata portano a un risultato eccellente per quanto riguarda la fluidità dei movimenti e gli interventi di recitazione.

Il percorso iniziatico dei personaggi verso la luce della saggezza avviene tra transenne, buche, poliziotti, ma soprattutto tra confronti con gli altri: è la ricerca della felicità dei diseredati contro i poteri forti con la vittoria nel finale espressa dalla caduta dei tre edifici e da una gioiosa salva di fuochi d’artificio.

Sul piano musicale si ascolta una corretta, ma niente più, concertazione di Daniel Cohen mentre tra i giovani interpreti si distaccano il Tamino (principe in canottiera e tuta da ginnastica) Giovanni Sala, tenore di bel timbro; il vivace Papageno (delivery boy della ditta Superpollo) Luigi Loconsolo; l’Astrifiammante di Tetiana Zhuravel (soprano coloratura ucraino dalla voce un po’ metallica); la tenera Pamina di Valentina Mastrangelo e il Sarastro di Antonio di Matteo.

Sconcerto e divertimento sono i due stati d’animo con cui si è diviso il pubblico. Ma nello spettacolo di Vick c’era ben poco da scandalizzarsi e se gli si può fare una critica è che il suo messaggio si limita a un generico e un po’ prevedibile auspicio di accoglienza e pacifica convivenza.

Die Zauberflöte

Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauberflöte (Il flauto magico)

★★★★☆

Lione, Opéra Nouvel, 6 luglio 2013

(live streaming)

Quando il Singspiel diventa Rockspiel

Pierrick Sorin, che nel 2007 assieme al regista Giorgio Barberi Corsetti aveva stupito il pubblico dello Châtelet di Parigi con una versione de La pietra di Paragone di Rossini in cui le scenografie dipinte o tridimensionali venivano soppiantate da una ricostruzione virtuale, ritorna a utilizzare la tecnica del chroma key per la favola in musica per eccellenza, Il flauto magico. Il racconto di Schikaneder è tra quelli che più si prestano a una lettura che ricrea con la tecnologia più attuale la magia delle antiche macchine teatrali e dei loro trucchi.

Con un uso sapiente di schermi, modellini, inservienti “invisibili” e tanta fantasia, Sorin e Luc de Wit interpretano per il grande pubblico l’ultimo capolavoro di Mozart. E grande il pubblico lo è: nell’ambito di “L’opéra pour tous”, lo spettacolo dell’Opéra de Lyon viene trasmesso nelle piazze di Parigi e di 14 altre città francesi per un totale di quasi 25000 spettatori, quelli che un grande teatro lirico riesce a racimolare a malapena in un mese.

La trasmissione televisiva aggiunge una dimensione in più a quella ottenuta in palcoscenico dove al pubblico sono mostrati in contemporanea la fabbrica e l’illusione, la realtà e la sua messa in scena: in basso i modellini, i diorami, gli effetti speciali, i cantanti sullo sfondo blu; in alto sullo schermo il risultato finale, fonte di meraviglia quanto lo era il cinematografo delle origini, quello di Méliès soprattutto.

Questa volta l’approccio è forse un po’ timido rispetto allo spettacolo rossiniano: sarà stato per la novità o per il fondo ironico dell’opera, le trovate là erano più incisive e il coinvolgimento dei cantanti maggiore, ma anche così Il flauto magico di Sorin e de Wit è uno spettacolo estremamente gradevole che ricrea la poesia dell’originale per un pubblico che si lasci ammaliare. I due artisti tralasciano gli elementi filosofici e simbolici, anche se qualche elemento massonico è seminato qua e là, per puntare a una lettura favolistica immersa in un tempo senza età, con costumi fantasiosi e aerei, soprattutto quello di Pamina e delle tre dame, di Thibault Vancraenenbroeck, con gli animali robotizzati di Nicolas Darrot e l’efficace gioco di luci di Christophe Grelié.

In scena ci sono personaggi molto umani e interpreti giovani e belli – sì tutti, anche Monostatos qui lo è – e vocalmente convincenti. Jan Petryka è un Tamino di timbro soave e grande eleganza che espande la sua liricità nelle arie a lui dedicate; Camille Dereux è una trepidante e sensibile Pamina; chiara e limitata in volume la voce di Guillaume Andrieux, un Papageno un po’ troppo giovane ma scenicamente vivace; ovviamente strepitosa la Regina della Notte di Sabine Devieilhe e nobilmente autorevole il Sarastro di Johannes Stermann. Efficaci gli altri interpreti. Non sempre giuste le note dei tre genietti, ma se anche in Francia si trovano dei ragazzini per la parte, possibile che qui in Italia sia un’impresa disperata e si debba sempre ricorrere a tre fanciulle?

Stefano Montanari, specialista della musica barocca ed eccellente violinista, che ha già diretto la trilogia mozartiana, torna ancora una volta a Lione per dirigere l’orchestra del teatro con la sua solita verve, tempi sostenuti e un suono preciso e un po’ secco, barocco appunto.

Die Zauberflöte

Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauberflöte (Il flauto magico)

★★★★☆

Milano, Teatro alla Scala, 20 marzo 2011

(registrazione video)

Il Flauto visionario di Kentridge

La favola di Schikaneder ha sempre affascinato gli artisti: da Karl Friedrich Schinkel, che disegnava le scene del Flauto magico ad appena vent’anni dalla prima, a Oskar Kokoschka e Marc Chagall nel secolo passato, da Maurice Sendak a David Hockney più recentemente. In tutti questi pittori la vivacità del colore è un elemento determinante. William Kentridge, invece, come immagine della dicotomia luce/tenebre della vicenda sceglie un rigoroso bianco e nero che declina in mezzi espressivi diversi: il gesto tracciato dal gesso sulla lavagna (1), il teatro d’ombre e il cinema dei primordi. Le tre dame non si muovono mai senza un apparecchio che assomiglia al cinématographe dei fratelli Lumière e i tre gèni una lavagna su cui sono tracciati grafici geometrici. La scenografia, ideata assieme a Sabine Theunissen, richiama una camera oscura dove è la luce a creare le immagini fotografiche con il positivo/negativo della pellicola e il tutto è qui reso con proiezioni di quella grafica digitale che rende fluidi i movimenti delle immagini. Al contempo, però, con questa moderna tecnica l’artista sudafricano sembra voler ricuperare la bidimensionalità delle vecchie scene dipinte su tela del teatro barocco e dei fondali piatti in prospettiva. Nelle sue proiezioni rincorrono elementi egizi e massonici e per la Regina della Notte l’artista riprende il cielo stellato disegnato da Schinkel, ma in nero. L’unica concessione al colore è quella dei bei costumi fine ‘800 di Greta Goiris con gli sgargianti panciotti degli uomini, l’abito rosso di Pamina e la gonna verde di Papagena.

Nel 2007 è stato pubblicato un magnifico libro sull’allestimento dell’opera (Flute, David Krut Publishing) contenente i disegni dell’artista, interviste e commenti sul processo di creazione, libro che si trova solo più nel mercato dell’usato a prezzi da amatore. In rete è però disponibile il saggio di Serena Guarracino dell’Università degli Studi di Milano, The Dance of the Dead Rhino: William Kentridge’s “Magic Flute”, che analizza vari aspetti della produzione tra cui l’ambientazione allusiva al colonialismo evidente nella metafora del rinoceronte bianco africano che vediamo prima danzare nei suoi disegni e poi venire ucciso da un bracconiere in un filmato d’epoca. Lo stesso soggetto è presente in altre opere dell’artista mentre qui è la silenziosa voce della passata violenza coloniale che si mescola al messaggio ottimistico della musica di Mozart. Per Kentridge infatti il colonialismo è una realizzazione pratica dell’Illuminismo nel voler portare la “luce” (la democrazia) nel continente “nero” – gli adepti di Sarastro sembrano membri della National Geographic Society e Tamino compare vestito da esploratore.

Questo Flauto magico era nato a La Monnaie di Bruxelles nel 2005 ed era stato in seguito ripreso a Napoli, Lille, Caen, Parigi, New York e Cape Town. L’ingranaggio perfettamente rodato dell’allestimento, arrivato alla Scala di Milano nel 2011 verrà registrato per un DVD della Opus Arte.

Invece dei secchi accordi del clavicembalo i recitativi sono qui accompagnati da più complessi interventi musicali ideati da René Jacobs, ma la direzione di Roland Böer non è sempre convincente, con tempi staccati in maniera rigida. Le eccellenze della serata vanno assegnate, in ordine decrescente, alle voci principali. Prima di tutto all’impareggiabile Alex Esposito, il cui Papageno sanguigno e stralunato offre una lezione di recitazione teatrale in ogni sillaba del canto e del parlato, ogni movimento del corpo o smorfia della mutevole espressione facciale. Vero animale da palcoscenico, oltre che cantante di eccellente livello, Esposito saprà abilmente adattare il suo personaggio ad altre letture del Flauto Magico, come sarà pochi anni dopo per il Papageno bidello nella regia di Michieletto alla Fenice di Venezia. Subito dopo si colloca la strepitosa Astrifiammante di Al’bina Šagimuratova, per potenza vocale, precisione e acrobazie stratosferiche nelle sue due temibili arie. Intensa l’ottima prestazione di Genia Kühmeier, Pamina, qui il ruolo centrale della lettura di Kentridge: il personaggio meno compromesso con la filosofia della ragione. Di bel timbro ma esangue il Tamino di Saimir Pirgu, un principe scenicamente poco espressivo. Bella presenza ma vocalmente non autorevole il Sarastro di Günther Groissböck.

Nella regia video Patrizia Carmine non rinuncia ai suoi soliti effetti di immagini sovrapposte e dissolvenze, qui per lo meno meno fastidiosi del solito.

(1) In realtà sono il negativo di disegni al carboncino su carta bianca.

Die Zauberflöte

La locandina dello spettacolo

Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauberflöte (Il flauto magico)

★★★☆☆

Glyndebourne, Opera House, 4 agosto 2019

(video streaming)

Grand Hôtel Mozart

Trascurati gli elementi massonici, esoterici, filosofici e iniziatici della vicenda originale, negli ultimi allestimenti de Die Zauberflöte l’intrattenimento visuale prevale su tutto, come in questa produzione di Glyndebourne affidata a Renaud Doucet e André Barbe che si suddividono regia e disegno scenografico rispettivamente.

Se Suzanne Andrade e Barrie Kosky avevano puntato sul cinema muto espressionista e Simon McBurney su disegni fatti dal vivo, qui a dominare sono le scenografie bidimensionali, illustrazioni a penna e inchiostro di un Gustave Doré fin-de-siècle. L’ambientazione in un hotel Belle Époque dà modo di ricreare i personaggi come figure ironicamente tratteggiate: Sarastro è lo chef, lo Sprecher il sommelier, i Templari gli aiuto cuochi, la Regina della Notte un’esigente cliente, le tre dame le governanti e i Genietti tre bellboy. Gli armigeri e il serpente iniziale sono costruiti con utensili di cucina e le prove sostenute da Pamina sono quelle ai fornelli dei televisivi “Bake-off”. Naturalmente i grembiuli solennemente conquistati alla fine non sono quelli di Maestro Massone, ma di Master Chef…

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Tutto molto carino e divertente, ma l’umanità dei personaggi si perde dietro questo sovraccarico visivo con le continue gag in cui ogni oggetto si anima e dove abili marionettisti trasformano i cuscini e i piumini di Papageno in volatili o ricompongono i tagli di maiale della cucina nell’animale danzante sulle note del flauto. Senza parlare del complesso gioco di luci che muta ad ogni scena, dei cappelli da cuoco e dei menu luminosi, dei bicchieri che suonano, del mucchio di verdura che diventa un uomo arcimboldiano, dei montacarichi che parlano, dei forni che inghiottono le persone o che sfornano i piccoli Papageni. Anche troppa roba.

C’è poi il problema del sessismo dell’opera, con le frasi misogene del libretto. Questo ha tenuto Doucet e Barbe lontani da quest’opera per quindici anni, come hanno affermato, ma ora hanno ceduto non tagliando i versi incriminati, ma facendoli recitare in modo ridicolo e facendo della Regina della Notte una leader di suffragette che rivendicano i diritti di voto delle donne. Per il problema del razzismo («Weil ein Schwarzer häßlich ist!») è bastato far diventare Monostatos un fuochista e sporcargli la faccia di nerofumo. C’è però da chiedersi se valeva la pena “bonificare” secondo i criteri del contemporaneo politically correct un classico come questo travisandolo.

Sul lato musicale le cose sono molto più tradizionali, a cominciare dall’Orchestra of the Age of Enlightenment con strumenti antichi e diretta con tempi rilassati («funereal tempi» sono stati definiti dalla stampa inglese), ritardandi e pause anche eccessive da Ryan Wigglesworth. Sofia Fomina e David Portillo sono i due corretti personaggi principali e Brindley Sherratt un autorevole Sarastro. Caroline Wettergreen conclude la sua prima aria come Regina della Notte con un salto all’ottava superiore in cui conferma la sua agilità vocale, la performance è però un po’ meccanica e il personaggio non convince. Il migliore di tutti è senz’altro Björn Bürger, già ammirato Papageno nella produzone di Robert Carsen a Parigi, dalla bellissima voce da liederista e la grande presenza scenica.

Die Zauberflöte

Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauberflöte (Il flauto magico)

Bruxelles, Teatro de La Monnaie, 28 settembre 2018

(video streaming)

Parlare dell’uomo all’uomo: Il flauto magico di Romeo Castellucci.

Chi l’avrebbe detto? Oggi le proposte artistiche più sperimentali non provengono dalle arti figurative, bensì da quelle performative, addirittura dai teatri d’opera, quella forma d’arte che molti davano per spacciata o vicina all’estinzione. E che invece è quanto mai viva e arzilla, perlomeno oltralpe. E grazie a teatri come quello della Monnaie di Bruxelles che ha il coraggio di proporre spettacoli che in Italia, la “patria del melodramma”, non arriverebbero neppure alla fine del primo tempo. Qui prevale la funzione museale e conservativa del genere e voci che minimamente si distaccano da una proposta che non sia usuale e stantia vengono presto coperte dai dissensi di certo pubblico.

Affidare un capolavoro al limite dell’usurato per le troppe proposte come Il flauto magico di Mozart a un regista come Romeo Castellucci significa non aspettarsi nulla di tradizionale e costringere il pubblico a fare uno sforzo per intendere le intenzioni del regista. E infatti il cesenate propone il suo Flauto in una maniera che dire inedita è poco. Che poi la sua lettura sia condivisibile è un altro paio di maniche.

Ecco quello che si vede in scena. Un uomo in tuta lancia una sbarra di metallo contro un tubo fluorescente acceso (“l’orizzonte dei lumi”?). Dopo alcuni tentativi andati a vuoto lo centra, la scena quindi piomba nel buio e attaccano finalmente le note dell’ouverture. Quattro uomini in nero e con maschere a gas “seppelliscono” il tubo ripiegando un telo colorato che alla fine ha la forma di una bara. Con l’inizio dell’opera un bianco lattiginoso riempie fino alla fine dell’atto la scena con costumi settecenteschi, piume candide e figurazioni del tutto simmetriche, come specchiate. Ovviamente le figure devono essere in numero pari per sostenere l’effetto, quindi i Tamino sono due, due i Papageno, le tre dame quattro. La Regina della notte no, è una sola. Ovviamente i doppi aprono la bocca in un sincrono più o meno riuscito. Nota: i cantanti veri sono a sinistra. I dialoghi non ci sono e i numeri musicali si succedono senza soluzione di continuità. Nemmeno i personaggi sono tali, sono statuine rotanti di un carillon che non racconta nessuna storia dietro un velatino che rende le immagini sfumate. Un prodigio di bravura che incanta ma viene presto a noia, in verità. Sullo sfondo stucchi rococo – architettura algoritmica di Michael Hansmeyer – sembrano inquietanti macchie di Rorshach tridimensionali sempre più invasive che soffocano la scena con il loro candore di meringa.

E questo era il primo atto. Come nella Jenůfa di Hermanis, il secondo è completamente differente.

Tre giovani donne offono il petto a dei tiralatte il cui rumore è l’unico suono fino alle note solenni del coro «O Isis und Osiris». Il latte viene versato in un tubo di vetro orizzontale come il tubo fluorescente di prima. Tutti sono in tute giallo kaki e parrucchino biondo, l’ambiente ha la squallida banalità di una sala riunioni di periferia. I dialoghi originali sono sostituiti da testi scritti dalla sorella del regista, Claudia Castellucci, e i protagonisti sono cinque donne non vedenti e cinque uomini che hanno avuto gravi ustioni col fuoco, che a turno raccontano l’esperienza della loro menomazione: le prove di iniziazione invece che dai due giovani sono già state sostenute dalle donne che hanno perso la vista (“accecate” dalla luce) e dagli uomini (“toccati” dal fuoco). Tanto la prima parte era impalpabile e incipriata quanto la seconda è dura e spietata, emotivamente quasi insopportabile e si affida a corpi segnati dal dolore. Il velo che filtrava le immagini della prima parte è sparito e ora ci sono storie di persone vere che portano in scena il loro coraggio e la loro sofferenza. Un’esperienza scioccante, ma i due mondi antitetici sono sovrapposti alla stessa musica, quella meravigliosa creazione umana che è la musica di Mozart. Ed è dell’uomo di cui parla la sua musica. «Non c’è amore senza un corpo» dice Papageno nel suo lungo monologo prima di incontrare la sua Papagena.

Cast vocale eccelso: dalla meravigliosa Sabine Devieilhe, attualmente insuperabile Regina della notte, all’eroico Tamino di Ed Lyon, dall’intensa Pamina di Sophie Karthäuser al vivace Papageno di Georg Nigl, dal Sarastro del profondo basso Gábor Bretz all’efficace e fascinoso Monostatos di Elmar Gilbertsson, dallo Sprecher impeccabile di Dietrich Henschel alla Papagena di Elena Galitskaya. In buca un sensibile Antonello Manacorda si adatta con grande professionalità alle esigenze del regista e riesce a dare una lettura impeccabile della partitura.

Alla Monnaie chi si aspettava l’evasione ha trovato la dura realtà: qualcuno si è arrabbiato, qualcuno si è commosso. Non sono mancate le emozioni, nella seconda parte.

Nessun dubbio della sincerità dell’operazione di Romeo Castellucci che continua nei suoi spettacoli la sua esplorazione del significato della malattia, ma certo è che questa produzione segna un altro passo verso un punto di non ritorno per la rappresentazione dell’opera lirica, vista come mero pretesto per veicolare il messaggio autre del regista. Impossibile dare un voto. Questo di Castellucci non è confrontabile con nessun altro Flauto.

Un’entusiastica analisi dello spettacolo si trova in questo articolo in rete: “Romeo Castellucci: toccare la luce” di Pietro Bianchi. Lasciamo a chi legge decidere quanto sia convincente e condivisibile.

Die Zauberflöte

Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauberflöte (Il flauto magico)

★★★★☆

Denver, Central City Opera, 17 luglio 2018

(registrazione video)

Tra sogno e poetica magia

Sorpresa: una produzione fatta in economia in un teatrino della provincia americana si rivela uno spettacolo di una magia poetica rara. Questo succede quando l’economia non si fa con le idee intelligenti e l’amore per il teatro.

Sul minuscolo palcoscenico della Central City Opera di Denver è in scena la quarta produzione di Alessandro Talevi – nella capitale del Colorado il giovane regista italo-anglo-sudafricano ha già allestito Händel (Amadigi di Gaula), Britten (The Turn of the Screw) e il Mozart de Le nozze di Figaro.

Come quello di Ingmar Bergman, il suo nuovo Flauto magico è visto attraverso gli occhi della fanciullezza: i tre genietti che accompagnano Tamino nel suo viaggio alla ricerca della verità qui sono i personaggi principali, quasi onnipresenti in scena. Li vediamo subito quando, durante i tre solenni accordi iniziali dell’ouverture, entrano in scena in pigiama nella loro cameretta. La tentazione di prolungare la veglia con un teatrino di burattini è troppo forte, ed ecco che prima ancora che con gli esseri umani la vicenda nasce con le figurine di cartone mosse dai bambini. Alla ripresa dei tre accordi orchestrali (quando un regista è anche musicista si capisce subito!) entrano tre severe istitutrici che li puniscono obbligandoli a leggere un libro di preghiere. Infine arriva la madre/matrigna per uno sbrigativo bacio della mano come buonanotte. Con l’ultima nota dell’ouverture si spegne anche la luce: il serpente che minaccia il principe Tamino/esploratore è solo un gioco d’ombre sul muro, le tre istitutrici da ora in poi usciranno dal camino e saranno il corteggio della Regina della Notte, Papageno entra a cavallo di uno struzzo (uno dei più arguti costumi da Vogelfänger visti in scena) mentre la Regina della Notte esce dal suo ritratto con un efficace effetto teatrale. Nel sogno tutto diventa reale e plausibile.

Nell’economia di mezzi che sta alla base dell’allestimento, basta cambiare la tappezzeria della parete di fondo per passare da un ambiente all’altro. Ancora più minimale la scenografia del secondo atto, dove la corte “egizia” di Sarastro è una colorita troupe di circo con gli uomini forzuti, gli orsi ammaestrati, gli acrobati e le ballerine. Non ci sono però i sei leoni del carro trionfale di Sarastro prescritti dal libretto di Schikaneder… L’epoca tardo-vittoriana dell’ambientazione  rivive nelle semplici ma efficaci scenografie di Madeleine Boyd e nei costumi di Susan Kulkarni. Un appropriato gioco di luci è quello di David Martin Jacques.

Il problema dei dialoghi parlati del Flauto magico è spesso risolto o traducendoli nella lingua locale o eliminandoli del tutto, come ha fatto di recente Barrie Kosky. Qui non solo sono mantenuti in tedesco (ottimamente reso, tra l’altro) e non sono accorciati, ma ci sono addirittura delle gustose aggiunte. Essendo però in USA, la political correctness non risparmia il libretto da cui vengono escluse o modificate alcune affermazioni ritenute misogine o razziste. I numerosi momenti di umorismo – irresistibile il duetto dei Papageni con la gag delle uova – sono resi da Talevi con vivacità e un’attentissima regia attoriale e si alternano a pagine piene di impatto emotivo, come nella scena e aria di Pamina «Ach, ich fühl’s, es ist verschwunden», quando ci si trova a commuoversi come se fosse la prima volta che si sente. O ancora nel finale, quando i tre fanciulli, nel frattempo cresciuti, ritornano nella casa con i mobili e i quadri coperti da teli bianchi ed è il vecchio teatrino dei burattini che risveglia la nostalgia dei tre ora diventati adulti, mentre fuori scena si ascolta il coro che conclude l’opera.

Con la precisa e partecipe direzione di André de Ridder si è esibito un ottimo cast. Sembra incredibile trovare in un piccolo teatro degli USA un insieme di interpreti nel complesso migliori di quelli ascoltati in un prestigioso teatro parigino, eppure è così. I loro nomi non sono molto conosciuti qui da noi, ma meritano la menzione almeno quelli di Joseph Dennis (Tamino), Katherine Manley (Pamina), Jeni Houser (Regina della Notte), Kevin Langan (Sarastro), Ashraf Sewailam (oratore) e Will Liverman (l’irresistibile Papageno). Efficacemente caratterizzate e vocalmente pregevoli le tre dame così come i tre bambini appartenenti al Colorado Children’s Choir.

Vediamo ora quale teatro italiano avrà l’intelligenza di importare questo allestimento e chi invece se lo farà scappare.

Die Zauberflöte

Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauberflöte (Il flauto magico)

Parigi, Opéra Comique, 8 novembre 2017

Komische Oper e Opéra Comique per un Flauto solo da vedere

Se nella mise-en-espace della Leonore di Beethoven ieri alla Philharmonie René Jacobs aveva accorciato e ritradotto i dialoghi parlati, qui in questa particolare versione del Flauto magico all’Opéra Comique i dialoghi sono del tutto mancanti e sostituiti da didascalie, come nei film muti.

E al cinema muto (quello di Méliès ma soprattutto quello espressionista tedesco) e all’illustrazione (evidenti i rimandi a Edward Gorey, ma anche a Rube Goldberg e a certi fumetti) si ispira il progetto del gruppo d’animazione “1927” con la regia di Suzanne Andrade e di Barrie Kosky, quest’ultimo direttore della Komische Oper, per questo Zauberflöte che ha nelle animazioni di Paul Barritt il suo interesse principale. Nato a Berlino nel 2012 e dopo essere passato per varie città europee (sarà al Costanzi di Roma tra un anno) lo spettacolo ora è approdata alla Salle Favart di Parigi. Con il connubio di spettacolo dal vivo e di video questo è anche il primo lavoro operistico del collettivo londinese che ha preso il nome dall’anno dell’introduzione del sonoro nel cinema.

Nel ricreare per il nuovo pubblico dei giovanissimi la più popolare opera tedesca, i dialoghi sono dunque rimossi e le arie sono inframmezzate da arpeggi e accordi al fortepiano basati su due fantasie per pianoforte di Mozart. In scena non esistono profondità e tridimensionalità: su uno schermo bianco vengono proiettate immagini in movimento con le quali si integrano perfettamente gli interpreti, che in ciò dimostrano una superlativa abilità.

Purtroppo non si può dire parimenti dell’aspetto musicale, non tanto per la conduzione di Kevin John Edusei, corretta ma senza sfumature, dell’orchestra della Komische Oper qui messa in risalto dalla bellissima acustica del teatro parigino – che ha dimensioni perfette per questo tipo d’opera: il Flauto alla Bastille di due anni fa era risuonato in maniera del tutto diversa – quanto per la mediocre qualità degli interpreti vocali. Che la performance più apprezzata sia stata quella dei tre ragazzi del Tölzer Knabechor è tutto dire! La Pamina in stile Louise Brooks di Nadja Mchantaf è stata sostituita da una Vera-Lotte Böcker acidula e senza mezze voci. Al suo fianco Tansel Akzeybek, un Tamino Buster Keaton tra i peggiori mai ascoltati. Meglio il Papageno triste di Dominik Köninger, discutibile invece la Regina della Notte gigantesca aracnoide di Christina Poulitsi di cui si sono ascoltate le fredde acrobazie vocali. Simpaticamente funzionali le tre dame mentre il Sarastro barbuto di Wenwei Zhang avrebbe avuto bisogno dell’amplificazione. Il Monostatos Nosferatu di Johannes Dunz ha anche lui evidenziato notevoli debolezze vocali. Si è dimostrato invece anche questa volta bravissimo come sempre l’Arnold Schönberg Chor che nel finale avanza verso il pubblico davanti a un sipario nero e intona il canto in lode della ragione. È stato questo l’unico momento di vera emozione della serata.

La mancanza dei dialoghi e la caratterizzazione da cartone animato non hanno certo permesso una men che minima definizione dei personaggi che qui sono figurine senza alcuno spessore psicologico. E anche la storia ha perso ogni connotazione massonica, psicanalitica, fantastica per ridursi a un racconto gotico di cui si è ammirata la maestria dell’invenzione grafica e della sincronia dei movimenti.

Si è trattato di una festa per gli occhi apprezzata dai giovanissimi presenti in sala. Nella sua eccezionalità è difficile paragonarlo agli altri spettacoli e la valutazione in stelline è quindi sospesa.

Die Zauberflöte

Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauberflöte (Il flauto magico)

★★★★☆

Londra, Royal Opera House, 20 settembre 2017

(live streaming)

Con McVicar il Flauto incanta la vista e il cuore

La Royal Opera House ripropone per la sesta volta la gloriosa produzione del 2003 di David McVicar già presente in DVD dove è diretta da Sir Colin Davis con un trio di interpreti superlativi: Simon Keenlyside, Dorothea Röschmann e Diana Damrau (forse la miglior edizione video disponibile su disco).

McVicar fa il miracolo di creare un Flauto magico quasi inedito nella sua forza espressiva senza stravolgerne la drammaturgia e dimostra ancora una volta che un’opera può essere messa in scena in mille modi diversi: la sua regia, qui ripresa da Thomas Guthrie, è quanto di più distante ci sia dalle letture che hanno fatto di quest’opera Carsen o Michieletto, tanto per citare due esempi. Eppure, altrettanto emozionante.

Nel teatro di McVicar c’è la perfezione di una visione che non stravolge: qui c’è il serpente che minaccia Tamino («die listige Schlange»), ci sono i leoni del carro di Sarastro, i simboli massonici (la luna e il sole), tutti perfettamente realizzati e inseriti nelle scenografie ora solenni ora incantate di John MacFarlane (suoi anche i bellissimi costumi settecenteschi) immerse nelle luci magiche di Paule Constable. McVicar è talmente fedele al libretto che si può prendere alcune libertà, come Papagena che la prima volta non appare come una vecchia (da cui la battuta degli «achtzehn/achtzig Jahr und zwei Minuten») bensì come una peripatetica disinibita; o il fuoco e l’acqua delle prove dei due giovani, rappresentati da degli umani che si agitano come fiamme o boccheggiano come sommersi in un liquido.

Nella pur apparente “tradizione”, McVicar insinua però il tarlo di un’idea nuova, di una sfaccettatura cui non si era pensato. Qui si tratta della condizione femminile, definita molto precisamente dal libretto: «Die süßen Triebe mitzufühlen | Ist dann der Weiber erste Pflicht (Condividere i dolci desideri è poi il primo dovere di una donna) […] Ein Weib tut wenig, plaudert viel (una donna fa poco e chiacchiera molto) […] Ein Mann muß eure Herzen leiten, | Denn ohne ihn pflegt jedes Weib | Aus ihrem Wirkungskreis zu schreiten (Un uomo deve guidare i vostri cuori, poiché senza di lui suole ogni donna deviare dalla via che le è propria) […] Geschwätz, von Weibern nachgesagt (Chiacchiere, riportate da donne) […] [die Königin] ist ein Weib, hat Weibersinn! ([la Regina] è una donna, ha cervello da donna!)»…

Da questa misoginia McVicar si stacca con ironia: nello studio di Sarastro il maschietto studia un planetario, mentre la femminuccia agucchia sul ricamo, ma la sua Pamina ha uno spessore che manca a un Tamino di cartapesta in quanto in fondo è lei la vera eroina, colei che guida il principe attraverso le prove. È lei il motore dell’azione. Qui è interpretata dalla sensibile e tenera Siobhan Stagg. Mauro Peters non ha un timbro incantatore e i fiati sono un po’ corti, ma ha comunque disegnato un Tamino convincente. Sarastro ha in Mika Kares una statura imponente e una voce chiara, anche troppo per quando si inabissa nel registro cavernoso di «In diesen heil’gen Hallen».

Del Papageno di questa produzione si può dire che il bravissimo Roderick Williams non fa nulla per renderlo “piacione” (la simpatia se l’è giocata tutta quando ha strozzato il pennuto con cui aveva avuto una gag spassosa): il suo Papageno è un uomo pavido e prosaico e che non cerca di rubare la scena a tutti i costi, nondimeno Williams si dimostra uno stupendo attore ed esibisce una piacevole vocalità. Vivace la Papagena di Christina Gansch, che assieme al suo Papageno trasforma il loro letto in una nave traboccante di marmocchi di ambo i generi. Allo stremo delle sue possibilità vocali, Peter Bronder (contestato da parte del pubblico alla fine) ha perlomeno accentuato l’aspetto decrepito di questo Monostatos che, con la sua accolita, sembra uscito da un incubo di E.T.A. Hoffmann.

Su tutti si stacca la Regina della Notte più spettacolare degli ultimi anni: il soprano coloratura Sabine Devieilhe si dimostra una più che degna erede dell’indimenticabile Natalie Dessai di cui uguaglia la precisione delle agilità, la perfezione dei trilli, la luminosità degli acuti. Una lezione di canto ben compresa dal pubblico che ha tributato a lei gli applausi più fragorosi della serata. Efficaci si sono dimostrate anche le tre dame, come pure i tre genietti, qui ovviamente eccellenti voci bianche maschili.

Il tutto è stato concertato da Julia Jones con sensibilità ma anche fermezza, procedendo a tempi appropriati e con impasti timbrici ben calibrati.

Le fotografie della ROH si riferiscono a edizioni diverse della produzione