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Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauberflöte (Il flauto magico)
Bruxelles, Teatro de La Monnaie, 28 settembre 2018
(video streaming)
Parlare dell’uomo all’uomo: Il flauto magico di Romeo Castellucci.
Chi l’avrebbe detto? Oggi le proposte artistiche più sperimentali non provengono dalle arti figurative, bensì da quelle performative, addirittura dai teatri d’opera, quella forma d’arte che molti davano per spacciata o vicina all’estinzione. E che invece è quanto mai viva e arzilla, perlomeno oltralpe. E grazie a teatri come quello della Monnaie di Bruxelles che ha il coraggio di proporre spettacoli che in Italia, la “patria del melodramma”, non arriverebbero neppure alla fine del primo tempo. Qui prevale la funzione museale e conservativa del genere e voci che minimamente si distaccano da una proposta che non sia usuale e stantia vengono presto coperte dai dissensi di certo pubblico.
Affidare un capolavoro al limite dell’usurato per le troppe proposte come Il flauto magico di Mozart a un regista come Romeo Castellucci significa non aspettarsi nulla di tradizionale e costringere il pubblico a fare uno sforzo per intendere le intenzioni del regista. E infatti il cesenate propone il suo Flauto in una maniera che dire inedita è poco. Che poi la sua lettura sia condivisibile è un altro paio di maniche.
Ecco quello che si vede in scena. Un uomo in tuta lancia una sbarra di metallo contro un tubo fluorescente acceso (“l’orizzonte dei lumi”?). Dopo alcuni tentativi andati a vuoto lo centra, la scena quindi piomba nel buio e attaccano finalmente le note dell’ouverture. Quattro uomini in nero e con maschere a gas “seppelliscono” il tubo ripiegando un telo colorato che alla fine ha la forma di una bara. Con l’inizio dell’opera un bianco lattiginoso riempie fino alla fine dell’atto la scena con costumi settecenteschi, piume candide e figurazioni del tutto simmetriche, come specchiate. Ovviamente le figure devono essere in numero pari per sostenere l’effetto, quindi i Tamino sono due, due i Papageno, le tre dame quattro. La Regina della notte no, è una sola. Ovviamente i doppi aprono la bocca in un sincrono più o meno riuscito. Nota: i cantanti veri sono a sinistra. I dialoghi non ci sono e i numeri musicali si succedono senza soluzione di continuità. Nemmeno i personaggi sono tali, sono statuine rotanti di un carillon che non racconta nessuna storia dietro un velatino che rende le immagini sfumate. Un prodigio di bravura che incanta ma viene presto a noia, in verità. Sullo sfondo stucchi rococo – architettura algoritmica di Michael Hansmeyer – sembrano inquietanti macchie di Rorshach tridimensionali sempre più invasive che soffocano la scena con il loro candore di meringa.
E questo era il primo atto. Come nella Jenůfa di Hermanis, il secondo è completamente differente.
Tre giovani donne offono il petto a dei tiralatte il cui rumore è l’unico suono fino alle note solenni del coro «O Isis und Osiris». Il latte viene versato in un tubo di vetro orizzontale come il tubo fluorescente di prima. Tutti sono in tute giallo kaki e parrucchino biondo, l’ambiente ha la squallida banalità di una sala riunioni di periferia. I dialoghi originali sono sostituiti da testi scritti dalla sorella del regista, Claudia Castellucci, e i protagonisti sono cinque donne non vedenti e cinque uomini che hanno avuto gravi ustioni col fuoco, che a turno raccontano l’esperienza della loro menomazione: le prove di iniziazione invece che dai due giovani sono già state sostenute dalle donne che hanno perso la vista (“accecate” dalla luce) e dagli uomini (“toccati” dal fuoco). Tanto la prima parte era impalpabile e incipriata quanto la seconda è dura e spietata, emotivamente quasi insopportabile e si affida a corpi segnati dal dolore. Il velo che filtrava le immagini della prima parte è sparito e ora ci sono storie di persone vere che portano in scena il loro coraggio e la loro sofferenza. Un’esperienza scioccante, ma i due mondi antitetici sono sovrapposti alla stessa musica, quella meravigliosa creazione umana che è la musica di Mozart. Ed è dell’uomo di cui parla la sua musica. «Non c’è amore senza un corpo» dice Papageno nel suo lungo monologo prima di incontrare la sua Papagena.
Cast vocale eccelso: dalla meravigliosa Sabine Devieilhe, attualmente insuperabile Regina della notte, all’eroico Tamino di Ed Lyon, dall’intensa Pamina di Sophie Karthäuser al vivace Papageno di Georg Nigl, dal Sarastro del profondo basso Gábor Bretz all’efficace e fascinoso Monostatos di Elmar Gilbertsson, dallo Sprecher impeccabile di Dietrich Henschel alla Papagena di Elena Galitskaya. In buca un sensibile Antonello Manacorda si adatta con grande professionalità alle esigenze del regista e riesce a dare una lettura impeccabile della partitura.
Alla Monnaie chi si aspettava l’evasione ha trovato la dura realtà: qualcuno si è arrabbiato, qualcuno si è commosso. Non sono mancate le emozioni, nella seconda parte.
Nessun dubbio della sincerità dell’operazione di Romeo Castellucci che continua nei suoi spettacoli la sua esplorazione del significato della malattia, ma certo è che questa produzione segna un altro passo verso un punto di non ritorno per la rappresentazione dell’opera lirica, vista come mero pretesto per veicolare il messaggio autre del regista. Impossibile dare un voto. Questo di Castellucci non è confrontabile con nessun altro Flauto.
Un’entusiastica analisi dello spettacolo si trova in questo articolo in rete: “Romeo Castellucci: toccare la luce” di Pietro Bianchi. Lasciamo a chi legge decidere quanto sia convincente e condivisibile.
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