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Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauberflöte (Il flauto magico)
★★★★☆
Milano, Teatro alla Scala, 20 marzo 2011
(registrazione video)
Il Flauto visionario di Kentridge
La favola di Schikaneder ha sempre affascinato gli artisti: da Karl Friedrich Schinkel, che disegnava le scene del Flauto magico ad appena vent’anni dalla prima, a Oskar Kokoschka e Marc Chagall nel secolo passato, da Maurice Sendak a David Hockney più recentemente. In tutti questi pittori la vivacità del colore è un elemento determinante. William Kentridge, invece, come immagine della dicotomia luce/tenebre della vicenda sceglie un rigoroso bianco e nero che declina in mezzi espressivi diversi: il gesto tracciato dal gesso sulla lavagna (1), il teatro d’ombre e il cinema dei primordi. Le tre dame non si muovono mai senza un apparecchio che assomiglia al cinématographe dei fratelli Lumière e i tre gèni una lavagna su cui sono tracciati grafici geometrici. La scenografia, ideata assieme a Sabine Theunissen, richiama una camera oscura dove è la luce a creare le immagini fotografiche con il positivo/negativo della pellicola e il tutto è qui reso con proiezioni di quella grafica digitale che rende fluidi i movimenti delle immagini. Al contempo, però, con questa moderna tecnica l’artista sudafricano sembra voler ricuperare la bidimensionalità delle vecchie scene dipinte su tela del teatro barocco e dei fondali piatti in prospettiva. Nelle sue proiezioni rincorrono elementi egizi e massonici e per la Regina della Notte l’artista riprende il cielo stellato disegnato da Schinkel, ma in nero. L’unica concessione al colore è quella dei bei costumi fine ‘800 di Greta Goiris con gli sgargianti panciotti degli uomini, l’abito rosso di Pamina e la gonna verde di Papagena.
Nel 2007 è stato pubblicato un magnifico libro sull’allestimento dell’opera (Flute, David Krut Publishing) contenente i disegni dell’artista, interviste e commenti sul processo di creazione, libro che si trova solo più nel mercato dell’usato a prezzi da amatore. In rete è però disponibile il saggio di Serena Guarracino dell’Università degli Studi di Milano, The Dance of the Dead Rhino: William Kentridge’s “Magic Flute”, che analizza vari aspetti della produzione tra cui l’ambientazione allusiva al colonialismo evidente nella metafora del rinoceronte bianco africano che vediamo prima danzare nei suoi disegni e poi venire ucciso da un bracconiere in un filmato d’epoca. Lo stesso soggetto è presente in altre opere dell’artista mentre qui è la silenziosa voce della passata violenza coloniale che si mescola al messaggio ottimistico della musica di Mozart. Per Kentridge infatti il colonialismo è una realizzazione pratica dell’Illuminismo nel voler portare la “luce” (la democrazia) nel continente “nero” – gli adepti di Sarastro sembrano membri della National Geographic Society e Tamino compare vestito da esploratore.
Questo Flauto magico era nato a La Monnaie di Bruxelles nel 2005 ed era stato in seguito ripreso a Napoli, Lille, Caen, Parigi, New York e Cape Town. L’ingranaggio perfettamente rodato dell’allestimento, arrivato alla Scala di Milano nel 2011 verrà registrato per un DVD della Opus Arte.
Invece dei secchi accordi del clavicembalo i recitativi sono qui accompagnati da più complessi interventi musicali ideati da René Jacobs, ma la direzione di Roland Böer non è sempre convincente, con tempi staccati in maniera rigida. Le eccellenze della serata vanno assegnate, in ordine decrescente, alle voci principali. Prima di tutto all’impareggiabile Alex Esposito, il cui Papageno sanguigno e stralunato offre una lezione di recitazione teatrale in ogni sillaba del canto e del parlato, ogni movimento del corpo o smorfia della mutevole espressione facciale. Vero animale da palcoscenico, oltre che cantante di eccellente livello, Esposito saprà abilmente adattare il suo personaggio ad altre letture del Flauto Magico, come sarà pochi anni dopo per il Papageno bidello nella regia di Michieletto alla Fenice di Venezia. Subito dopo si colloca la strepitosa Astrifiammante di Al’bina Šagimuratova, per potenza vocale, precisione e acrobazie stratosferiche nelle sue due temibili arie. Intensa l’ottima prestazione di Genia Kühmeier, Pamina, qui il ruolo centrale della lettura di Kentridge: il personaggio meno compromesso con la filosofia della ragione. Di bel timbro ma esangue il Tamino di Saimir Pirgu, un principe scenicamente poco espressivo. Bella presenza ma vocalmente non autorevole il Sarastro di Günther Groissböck.
Nella regia video Patrizia Carmine non rinuncia ai suoi soliti effetti di immagini sovrapposte e dissolvenze, qui per lo meno meno fastidiosi del solito.
(1) In realtà sono il negativo di disegni al carboncino su carta bianca.




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