Orphée aux Enfers

Jacques Offenbach, Orphée aux Enfers

★★★★★

Salisburgo, Haus für Mozart, 17 agosto 2019

(video streaming)

Offenbach à la Kosky: a fabulous nonsense

Nel bicentenario della sua nascita – nessun teatro italiano se ne è ricordato! (1) – il “Mozart des Champs-Élysées” arriva alla Haus für Mozart con una produzione del suo Orphée aux Enfers che più oltraggiosamente divertente non potrebbe essere. Basti dire che la messa in scena è affidata a Barrie Kosky, da chi cioè ha fatto rivivere l’operetta alla Komische Oper di Berlino. Dalle sue esilaranti regie ci si aspetta di tutto e in effetti le attese non sono andate deluse deluse, tanto che c’è anche chi ha gridato all’oltraggio. Oltraggio di Offenbach e del suo lavoro più impertinente! Mah…

Tradizionale non poteva certo esserlo (ma tradizionale Orphée aux Enfers come può esserlo?) e Kosky costruisce il suo spettacolo in maniera imprevedibile, o meglio prevedibile se pensiamo al personaggio che è il regista australiano. D’altronde, come ricreare lo scandalo di quella prima ai Bouffes Parisiens il 21 ottobre 1858, con la borghesia parigina che si vedeva spiattellata in faccia la propria ipocrisia e la critica che si sgolava a stroncare il lavoro per aver infangato la più aulica delle opere liriche (il mito di Orfeo riletto da Gluck) con tanto di citazione testuale e musicale («On m’a ravi mon Euridyce» si lamenta Orphée, e le dee aggiungono «Rien égale son tourment»). Il tutto fece sì da richiamare un pubblico talmente numeroso da portare a ben 228 le repliche –  interrotte solo dall’esaurimento fisico degli interpreti.

Come si sa, il problema di Offenbach, e dell’operetta in genere, sono le parti recitate: non sempre i grandi cantanti sono anche bravi attori. Kosky trova la soluzione gordianamente, togliendo cioè le parti recitate dalla bocca degli interpreti e incaricando un attore (un Max Hopp di stupefacente bravura) di dire in tedesco le battute dei vari personaggi, che quindi recitano in una surreale e straniante sincronizzazione labiale che ricorda i numeri delle drag queen che cantano Cher o Liza. L’attore tedesco, che inserisce anche tutta una serie di esilaranti rumori di scena, diventa così una specie di ventriloquo di tutti i personaggi. Hopp è anche l’interprete di Styx, il mesto ex re di Beozia che ha perso tutto e che è costretto a fare il servo.

Dopo aver detto che i numeri musicali sono cantati in francese e che, per buona misura, la tirata iniziale dell’Opinion Publique è recitata da Sophie von Otter in svedese, la sua lingua madre, non resta che arrendersi alle continue invenzioni del regista e a prepararsi a una serata esilarante che comprende anche un momento da salon musical quando la stessa Sophie von Otter non rinuncia ad esibirsi davanti al sipario in una lirica di Offenbach prima della scena infernale. Lo spettacolo era partito con il balletto irresistibile (coreografie di Otto Pichler) delle api di Aristée, il pastore sotto le cui spoglie si cela il dio degli inferi in persona che intende sedurre la bella Eurydice, sposa annoiata dal violino del marito Orphée, il quale a sua volta sarebbe ben contento di sbarazzarsi della dolce metà se non ci fosse il problema dell’Opinion Publique che deve salvare a tutti i costi le apparenze secondo la morale borghese.

Impeccabile la scenografia di Rufus Didwiszus che ricrea il cabaret, anzi il Kabarett dell’epoca di Weimar, con gli sfrontati costumi di Victoria Behr e maquillage quasi espressionistici. Non mancano momenti di sorprendente visualità quali l’Olimpo con quei lampadari che scendono dall’alto sui numi addormentati (e qui il loro moto rotatorio ricorda la mirabile scena del Saul di Glyndebourne dello stesso Kosky) o l’Inferno con l’enorme diavolo in monociclo. Il finale con il “galop infernal”, da allora il cancan per antonomasia, conclude lo spettacolo, ma qui un ballerino continua nei suoi salti e nelle rabbiose spaccate come un burattino impazzito. Un momento quasi inquietante che ci ricorda l’Offenbach quale demolitore dell’ipocrisia della società parigina del Secondo Impero, ruolo messo in evidenza da Theodor Adorno e Siegfried Kracauer, al quale sembra riferirsi Kosky nella sua “oltraggiosa” messa in scena.

In una produzione come questa la priorità è data ad interpreti che siano soprattutto agili attori e qui lo sono tutti. Poi, chi più chi meno, c’è chi dimostra una vocalità magari non sopraffina ma efficace in questa lettura che guarda alla prima storica ai Bouffes Parisiens dove i cantanti non erano certo il meglio disponibile allora e alcuni venivano menzionati solo col nome (Léonce, Désiré, Floquet, Jean-Paul…). Qui comunque abbiamo una Eurydice di tutto rispetto, il soprano coloratura americano Kathryn Lewek, che esibisce con eguale confidenza acuti sicuri e forme generose, queste ultime orgogliosamente mostrate in barba all’odioso body shaming che è puntualmente seguito. Orphée è lo spiritoso Joel Prieto, un violinista in frac e capello lungo ossessionato dal suo strumento. Spesso sopra le righe lo “Jupin” di Martin Winkler, mentre più efficace è l’Aristée/Pluton di Marcel Beekman. Nel folto elenco dei comprimari ricordiamo almeno Lea Desandre (Vénus), Nadine Weissmann (Cupidon) e Vasilisa Beržanskaia (Diane). A capo di quel gioiello che sono i Wiener Philharmoniker, Enrique Mazzola dipana con mano esperta e grande verve le note della partitura e concerta con abilità il pandemonio vocale in scena. La versione è ovviamente quella del 1874. Divertito e divertente l’apporto del coro Vocalconsort Berlin.

Dopo aver conquistato la collina di Bayreuth con i suoi Meistersinger, Kosky può vantarsi di aver espugnato anche la rocca salisburghese.

(1) Solo il Festival di Martina Franca ha fatto eccezione mettendo in scena il suo Coscoletto.

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