Tamerlano

Georg Friedrich Händel, Tamerlano

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Milano, Teatro alla Scala, 22 settembre 2017

Tamerlano, il ritorno di Domingo. In bianco e nero.

Non è l’inaugurazione della stagione, che avrà luogo come di consueto il 7 dicembre, ma è comunque un grande avvenimento quello a cui si è assistito fra gli ori e i velluti del Teatro alla Scala: è in scena il Tamerlano di Georg Friedrich Händel, un titolo per la prima volta presente a Milano.

L’opera è del 1724, precede quindi le intonazioni di Porpora e di Vivaldi, e rappresenta una delle opere più cupe di Händel. Nel libretto dello Haym il sostantivo morte e il verbo uccidere si ripetono ben trenta volte, il tono della musica è spesso fosco e l’orchestrazione un infinito trascolorare di tinte grigie, tanto che si potrebbe definire un’opera in bianco e nero. Il regista Davide Livermore pospone la vicenda alla Rivoluzione Russa dell’Ottobre del 1917, lontana eco di quell’altra svolta storica del 1403 quando il sultano ottomano Bajazet (Bāyazīd I) venne sconftto dal tartaro Tamerlano (Tīmūr Lang).

La lettura del regista si basa sul fatto che nell’opera del Settecento gli unici sentimenti credibili potevano essere rappresentati in scena solo tramite eroi del passato in un gioco drammaturgico che poco aveva a che fare con la verità storica, essendo le loro vicende solo un’occasione per fare teatro. A Händel e al pubblico del King’s Theatre poco importavano le sorti del confitto tartaro-ottomano della fine del XIV secolo, importava la rappresentazione delle passioni umane. Spostamenti temporali e artifici teatrali erano d’altronde consustanziali all’estetica barocca.

La trasposizione di Livermore non solo è suggerita dalla geografa – siamo nelle stesse regioni bagnate dal mar Caspio – ma anche dalla personalità dei tre personaggi principali: Bajazet, il vecchio monarca che perde il trono, richiama la figura romanticizzata dello zar Alessandro II; Andronico, l’idealista sempre in confitto con le ragioni dei sentimenti, ricorda sia Lenin sia Trotskij; Tamerlano, dittatore spietato e violento, Stalin. Ma è opportuno dimenticarsi di queste identificazioni e godere di quanto si vede in scena ammirando ancora una volta il linguaggio cinematografico già sperimentato da Livermore con esito felicissimo nel suo rossiniano Ciro in Babilonia.

Qui è il maestro del cinema muto russo Sergej Ejzenštejn a suggerirgli un “montaggio” dove il fermo immagine, il ralenti e la moviola al contrario sono trasformate in azioni teatrali. Squisitamente cinematografica è la ripresa del treno che avanza tra gli alberi innevati o del vortice che contrappunta il turbine di emozioni che sconvolgono i personaggi – il tutto frutto dei sapienti videomakers della D-WOK.

Particolarmente toccanti sono alcune trovate del regista come lo straziante duetto di Asteria e Andronico del terzo atto, quando i cantanti alla ribalta si scambiano dichiarazioni d’amore mentre le loro controfigure vengono fatte oggetto di violenza dagli aguzzini di Tamerlano, come se le loro anime si fossero per un momento staccate dai corpi straziati. O il coro finale, un happy ending in tono minore (sia musicalmente sia drammaturgicamente), dove tutti celebrano mestamente l’odio placato, con la sola eccezione di Asteria che resta accasciata su una sedia, senza vita dopo le dure prove che ha dovuto sostenere.

A capo del complesso barocco dell’orchestra del teatro c’è un indiscusso esperto del repertorio barocco, Diego Fasolis, che l’anno scorso aveva già concertato qui Il trionfo del Tempo e del Disinganno dello stesso Händel. I lunghissimi recitativi, spesso accompagnati, che contraddistinguono quest’opera, così come le arie solistiche e i concertati ricevono dal Fasolis un colore particolare e una grande intensità di espressione.

Eccellente è anche il cast di interpreti radunati per l’occasione. Bajazet è, nonostante il titolo dell’opera, il personaggio principale di Tamerlano ed è anche il primo grande ruolo per tenore dell’opera barocca. Plácido Domingo, che ne aveva già cantato la parte, torna alla Scala con quasi dieci anni in più e anche se si dimentica alcune battute, cambia le parole del testo e le agilità non sono molto fluide, il timbro, il fraseggio e la potenza sonora sono rimasti intatti. Per espressività e presenza scenica, la scena della sua morte merita da sola il prezzo del biglietto.

Al suo fianco ha dei colleghi più giovani ma specializzati in questo repertorio e per uno volta si tratta di controtenori in un paese che ancora non accetta pienamente questo tipo di vocalità, preferendo utilizzare soprani e contralti en travesti per i ruoli dei castrati previsti dall’autore. Bejun Mehta è un perfdo Tamerlano che vocalmente non arretra di fronte alle agilità di una parte che originariamente fu destinata all’evirato cantore Andrea Pacini. Si permette addirittura di inserire una sua aria di baule all’inizio del secondo atto, «Sento la gioia» dall’Amadigi di Händel, per farci godere della purezza della sua emissione vocale. Un altro eminente castrato del tempo, il Senesino, aveva creato la parte di Andronico, qui sostenuta da un Franco Fagioli stupefacente come il solito nella sua enorme estensione con cui instancabilmente dipana le sue sei arie. Anche il ruolo minore di Leone è qui ben rappresentato dal baritono Christian Senn. Parimenti eccellenti sono le parti femminili ricoperte da una Maria Grazia Schiavo che non conosce difficoltà vocali nel ruolo di Asteria, delineata con il suo timbro luminoso. Colore più scuro per la splendida Irene di Marianne Crebassa.

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