Mese: ottobre 2017

Tristan und Isolde

Richard Wagner, Tristan und Isolde

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 15 ottobre 2017

La solita faccenda di corna. E non è neanche una novità.

Sul manifesto del Tristano e Isotta ora in scena al Regio di Torino, due profili si fronteggiano creando nel vuoto tra i volti una figura percepibile come un calice: è il “vaso di Rubin”, un’illustrazione dello psicologo danese Edgar Rubin per dimostrare un’ambigua illusione ottica in cui il cervello percepisce o due profili contrapposti o una coppa in un alternarsi di figura/sfondo. È la presenza di entrambi gli elementi a creare qualcosa di indissolubile. «Unsre Liebe? | Tristans Liebe? | Dein’ und mein’, | Isoldes Liebe? […] Doch unsre Liebe, | heisst sie nicht Tristan | und – Isolde?» (Il nostro amore? L’amore di Tristano? Il tuo e il mio, l’amore di Isotta? […] Ma il nostro amore non si chiama Tristano e – Isotta?) cantano nel duetto del secondo atto i due amanti. E poco dopo Tristano: «Tristan du, | ich Isolde, | nicht mehr Tristan!» (Tu Tristano, io Isotta, non più Tristano!) e lo stesso fa Isotta: «Du Isolde | Tristan ich, | nichr mehr Isolde!). I due esseri sono totalmente intercambiabili, in quanto una cosa sola, «Mein und dein! | Ewig, ewig ein!» (Mio e tuo! In eterno, in eterno insieme!).

Cosa c’è di questa voluttà di annientamento nell’uno in questo allestimento zurighese del 2008 di Claus Guth che inaugura la nuova stagione lirica di Torino?

All’alzarsi del sipario viene mostrata una scena che ci sembra famigliare: in una austera camera da letto vediamo una signora coricata (Violetta?), in piedi un signore in redingote (il dottore? papà Germont?), accasciata in un angolo una domestica (Annina?). Se non fosse per le note del preludio che si è appena spento potremmo pensare di trovarci nell’ultimo atto di Traviata.

Ambientata a fine Ottocento in una villa che si ispira sia a Villa Wahnfried dei Wagner a Bayreuth sia a quella dei Wesendonk a Zurigo, la scenografia di Christian Schmidt è costituita da una struttura girevole che di volta in volta ne mostra gli interni. Una soluzione ormai ampiamente collaudata, che nove anni fa aveva qualcosa di più originale di quanto non abbia ora.

Siamo dunque in una dimora con i suoi saloni, le anticamere, i corridoi, le camere da letto. Nonostante che non ci sia un verso che non richiami l’elemento marino – «a oriente scivola il naviglio […] sono i tuoi sospiri che gonfiano le vele? […] veloce veleggia il veliero […] dal sonno scotete questo mare che sogna […] prima che tramonti il sole saremo a terra […] all’albero maestro raccogliete le vele! […] vicina è la terra! […] apprestarsi allo sbarco […] via l’àncora…» ­– non c’è alcun riferimento al mare in questo primo atto. Unico indizio sarà il vascello graffito da Kurwenal sulla facciata scrostata del rifugio di Tristano nel terzo atto.

Come manca il mare, così manca l’esterno notturno del secondo atto, sostituito da una camera da pranzo sul cui tavolo maldestramente sgomberato da Tristano si sdraia Isotta mentre l’atmosfera notturna è quella suggerita solo dalle ombre delle foglie sulla parete della camera. Lo stesso tavolo ritornerà nel finale, dopo un’ennesima rotazione della struttura questa volta al rallentatore, su cui viene deposto Tristano morente.

Non c’è proprio la natura in questo Tristano di Guth, quel poco che c’è è quello delle piante ornamentali in vaso del giardino d’inverno della villa. Tutta la vicenda è borghesemente vissuta tra pareti damascate, mobili Luigi XVI e doppieri e la fiaccola è un’applique che si spegne molto prosaicamente con un interruttore. Così però la storia si riduce a una vicenda di corna – quelle che spuntarono nella relazione tra Wagner e Matilde Wesendonk con la conseguente furiosa gelosia della moglie Minna che costrinse il marito ad abbandonare la villa dei Wesendonk a Zurigo per riparare a Venezia (la terra di Sassonia era ancora off limits per il compositore ricercato per le sue idee politiche) e qui nella città lagunare completare il Tristano.

E non è neppure così inedita come idea se già nel 1983 al Comunale di Bologna Jurij Ljubimov allestiva con lo stesso konzept il suo Tristano e Isotta, seguendo già allora un modello di regia in completa autonomia rispetto alle indicazioni del libretto e in netta antitesi alle letture tradizionali fedeli invece al testo scritto.

Se lo spettacolo comunque regge lo si deve alla intensa direzione di Gianandrea Noseda. Con lui sì che in orchestra si sente il mare, i corni prendono un suono particolarmente evocativo e anche il tono pastorale del terzo atto viene messo in bella evidenza. Le quattro ore di musica sono un crescendo di emozioni che, se non in scena, si realizzano comunque nella buca orchestrale. La sua attenta concertazione ha condotto in porto una serata affidata per i ruoli titolari a Peter Seiffert – in un ruolo massacrante e in un momento che risente degli anni della sua lunga carriera e in cui il timbro sempre affascinante ha dovuto bilanciare segni di fatica e acuti strozzati – e a Ricarda Merberth, autorevole soprano wagneriano dal timbro però un po’ metallico e dal vibrato eccessivo.

In questa produzione Brangania è un doppio di Isotta, la sua parte razionale: ha gli stessi abiti, la stessa acconciatura, ne imita i gesti. Ma si distingue la voce, che è quella del mezzosoprano Michelle Breedt, interprete sensibile e convincente. Nobile e compassato il re Marke di Steven Humes e molto ben definito il Kurwenal di Martin Gantner.

Alla replica pomeridiana non si è ripetuto il fuggi fuggi della prima al secondo intervallo. Solo qualcuno non ha resistito: la preparazione della cena ha avuto la meglio sul liebestod.

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Fra Diavolo

Daniel Auber, Fra Diavolo

★★★★☆

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Roma, Teatro dell’Opera, 13 ottobre 2017

Commedia e dramma nel Fra Diavolo di Auber

L’opera dell’Ottocento ha spesso subito il fascino dei briganti: dai Masnadieri all’Hernani di Verdi, da Les brigands di Offenbach alla Carmen di Bizet, la figura romantica del bandito è stata oggetto di arie e couplet.

Non fa eccezione Auber con il suo Fra Diavolo ou l’Hôtellerie de Terracine, ispirato alla figura di uno dei più temuti tra i banditi che nel sud Italia lottavano contro la dominazione dei francesi, un eroe della resistenza borbonica durante le guerre napoleoniche. Nel libretto Scribe prende a modello anche i coevi banditi d’oltralpe, altrettanto romanticamente dipinti – Fra Diavolo deruba solo aristocratici, banchieri e commercianti, lascia andare i poveri e dalle giovani fanciulle prende solo “quello che gli vogliono offrire” – ma pure crudelmente spietati.

Atto primo. Zerlina, figlia di un oste di Terracina, è innamorata di Lorenzo, un povero brigadiere dei gendarmi, mentre suo padre la vuole dare in moglie a Francesco, un anziano possidente. Mentre Lorenzo è alla ricerca del famigerato brigante Fra Diavolo, costui arriva alla locanda travestito da marchese e deruba due viaggiatori inglesi, Lord e Lady Rocburg. Lorenzo riesce a recuperare parte della refurtiva e viene ricompensato da Lady Rocburg con 10 000, una somma da destinare alla dote di Zerlina.
Atto secondo. Fra Diavolo è tuttavia determinato a derubare di nuovo i viaggiatori inglesi e Zerlina con l’aiuto di Giacomo e Beppo, due suoi complici. Durante la notte i tre si intrufolano nella stanza di Zerlina per rubarle la dote. Sopraggiunge Lorenzo, ma Fra Diavolo, che finge di essere il Marchese di San Marco, riesce a convincerlo di essere un suo rivale in amore, amante di Zerlina e di Lady Rocburg. Lorenzo sfida a duello il finto Marchese.
Atto terzo. Il giorno dopo Zerlina, ormai priva della dote e abbandonata da Lorenzo, accetta di sposare Francesco. Fra Diavolo ordina ai suoi due complici di avvertirlo quando Lorenzo e la sua truppa lasceranno la città, per poter derubare di nuovo gli inglesi con tranquillità. Giacomo e Beppo sono però riconosciuti da Zerlina che li fa arrestare da Lorenzo. Questi scopre finalmente i maneggi di Fra Diavolo e organizza un piano per arrestarlo. Zerlina può finalmente sposare Lorenzo.

Nella storia è determinante il ruolo dei due impacciati accoliti del brigante, Giacomo e Beppo (impersonati dal duo comico di Stan Laurel e Oliver Hardy nella versione cinematografica), che sono gli incauti agenti del suo arresto.

Opera fra le più popolari ai suoi tempi, Fra Diavolo ora è di più rara esecuzione nei teatri, per quella miscela di dramma e di umorismo così difficile da equilibrare e per il fatto di essere un’opéra-comique, quel misto di canto e di recitazione non facile da realizzare in paesi di lingua diversa dal francese. Nell’allestimento dell’Opera di Roma i dialoghi recitati dell’edizione originale del 1830 sono trasformati in recitativi cantati tradotti in francese dalla versione italiana. Anche la parte musicale è quella della versione presentata a Firenze nel 1866, con numeri aggiunti. Così si risolve un problema, ma si perde l’arguzia del testo di Scribe e si trasforma in un continuo musicale quella che nell’originale era invece una dosata successione di arie orecchiabili e di brillanti dialoghi parlati.

L’ambientazione mediterranea dell’opera è ricreata dal regista Giorgio Barberio Corsetti con il suo affascinante teatro-immagine in cui le proiezioni video e la realtà virtuale hanno grande rilevanza: durante l’ouverture vediamo la rossa decappottabile dei nobili inglesi immersa nei paesaggi che attraversano nel loro gran tour italiano e anche la prima scena del terzo atto con Fra Diavolo che passeggia lungo una strada di città è resa molto abilmente con proiezioni dinamiche.

Siamo infatti nell’Italia dei primi anni sessanta dove le figure dei carabinieri erano una presenza regolare nel cinema del dopo-realismo e i costumi rispecchiano quell’epoca spensierata. Ma oltre all’omaggio al cinema italiano il regista dà un tocco fumettistico alla sua messa in scena con nuvolette che riprendono le esclamazioni degli interpreti o gli spari del brigante. Nel secondo atto il tono quasi da pochade dell’opera è reso con una scenografia di camere tutte a vista della locanda di notte, particolarmente frequentata e con un andirivieni di personaggi quasi fossimo in una pièce di Labiche o di Feydau.

Per la prima volta viene qui utilizzato un impianto scenografico realizzato con una stampante 3D e materiali completamente riciclabili. Le facciate delle case che formano la scena sono infatti composte dalla sovrapposizione di sottili strati di un materiale ecologico e hanno una forma ondulata, surreale, come se la realtà del paesaggio risultasse deformata dalla presenza “diabolica” del finto Marchese di San Marco.

Nel foyer del teatro fa poi bella mostra di sé un ritratto tridimensionale così realizzato di John Osborn, il protagonista. Il tenore americano non si risparmia nella definizione di un ruolo a cui è affidata una vocalità impegnativa che risolve con grande facilità e con un’eleganza e una dizione francese che non sempre si ritrova negli altri interpreti. Con l’aria di un mafiosetto in completo blu, il duplice aspetto del brigante, quello seduttore e quello spietato, è reso con ironia e impeccabile resa vocale dal cantante, che controlla sempre con maestria i registri della voce piegata a caratterizzare le diverse sfaccettature del suo carattere, sebbene venga messo maggiormente in rilievo l’aspetto cinico del personaggio rispetto a quello seduttore.

Seppure ben cantato, al Lord Rocburg di Roberto de Candia manca lo stralunato umorismo dell’inglese all’estero con i suoi goffi tentativi linguistici. Più giocata sulla presenza scenica che sulla vocalità e anche la Lady Pamela di Sonia Ganassi. I due giovani interpreti della coppia Zerlina-Lorenzo, Anna Maria Sarra e Giorgio Misseri, sono bravi ed entrambi vocalmente generosi, ma risolvono spesso in acuti un po’ gridati la loro prestazione. Jean-Luc Ballestra è il solo cantante di lingua francese e infatti è quello che meglio realizza il Giacomo della coppia di inconcludenti pasticcioni. Le ironiche coreografie di Roberto Zappalà punteggiano efficacemente i momenti più affollati in scena.

In buca l’inglese Rory Macdonald dirige con estrema leggerezza, a momenti quasi esilità, tanto che talora le voci prevalgono sull’orchestra. In tal modo però si evidenziano le qualità di una musica che partendo da Rossini porterà a Offenbach.

The Gondoliers

Foto dell’atto I della produzione del 1907

Arthur Sullivan, The Gondoliers

Terz’ultima delle Savoy Operas, The Gondoliers or The King of Barataria fu anche l’ultimo grande successo di Gilbert & Sullivan, 553 repliche successive alla prima del 7 dicembre 1889.

Le relazioni tra librettista e compositore, anche a causa del tiepido successo della loro ultima collaborazione, The Yeomen of the Guard, erano diventate tese. Alle smanie di Sullivan per scrivere un’opera seria in cui la musica «doveva essere predominante» Gilbert aveva risposto: «Se voi avete la sorprendente impressione di essere stato negletto negli ultimi dodici anni, e se siete serio nella vostra intenzione di voler scrivere un’opera in cui “alla musica debba essere assegnato il riguardo primario” (dal che capisco trattarsi di un’opera in cui il libretto, e di conseguenza il librettista, devono occupare un posto subordinato), non c’è certo la possibilità di trovare un modus vivendi soddisfacente per entrambi. Voi siete un esperto nella vostra professione, e io nella mia. Se ci vogliamo rimettere insieme deve essere come maestro e maestro, non come maestro e servo». Essi si riappacificarono, ma rimase sotterranea una vena di rancore fra i due che alla fine sarebbe uscita allo scoperto.

Il tempo trascorso su The Gondoliers fu più lungo che per le altre opere, Sullivan dimostrò tutta la sua maestria in cori e concertati complessi dal punto di vista del contrappunto delle voci. I loro sforzi non furono inutili e i risultati non delusero le aspettative: i critici furono estremanente favorevoli e il pubblico in delirio.

Come era successo con The Mikado l’ambientazione esotica, qui una Venezia di fantasia nel primo atto e il palazzo del regno di Barataria negli altri due, aveva spinto Gilbert a premere sul pedale della satira sociale. La giovane Casilda, figlia dei Grandi di Spagna, i Duchi di Plaza-Toro, deve andare sposa al futuro re di Barataria e arriva quindi nella città lagunare per incontrare il marito, ma non riesce a identificarlo giacché da piccolo questi fu affidato alle cure di un gondoliere ubriaco che scambiò il principe con il proprio figlio. A complicare la vicenda c’è l’assassinio del re di Barataria e i due giovani gondolieri devono quindi spartirsi il trono fino all’arrivo della balia che sola potrà determinare quale dei due è l’erede legittimo. La giovane regina scopre nel frattempo che i due gondolieri si sono sposati da poco con delle ragazze del posto. D’altronde anche lei è innamorato di un altro uomo…

In rete sono disponibili le registrazioni di un concerto dei Proms del 1997 con un cast stellare, e dei seguenti allestimenti scenici: Opera-Lytes (2010), Loyola University Film and Music Industry Studies (2011), University of  St Andrews Gilbert and Sullivan Society (2013), The Edinburgh University Savoy Opera Group (2015), Earlville Opera House (2016).

Sonata d’autunno

Sebastian Fagerlund, Höstsonaten

Helsinki, Suomen Kansallisooppera, 23 settembre 2017

(video streaming)

Direttamente ispirata dal film di Ingmar Bergman del 1978 conosciuto in tutto il mondo come Sonata d’autunno (Autumn Sonata, Sonate d’automne, Sonata de otoño, Herbstsonate, Осенняя соната, Aki no sonata…) meno che in Italia dove diventa invece Sinfonia d’autunno (facendo perdere così il carattere intimo e cameristico della vicenda), la nuova opera del compositore finlandese Sebastian Fagerlund debutta alla Finnish National Opera.

La librettista Gunilla Hemming si è basata fedelmente sullo script del film in cui Charlotte, che ha trascurato per molti anni le figlie a causa della sua carriera di pianista, fa visita a Eva, che ha perso un figlio. Nella casa trova con sua sorpresa anche Helena, l’altra figlia disabile. Eva si è presa cura della ragazza in tutto questo tempo dopo averla fatta uscire dall’istituzione in cui l’aveva sistemata la madre. La tensione tra le due donne lentamente sale fino a che in una conversazione notturna danno libero sfogo a tutte le cose che avrebbero voluto dirsi.

Höstsonaten è la seconda opera di Fagerlund, un compositore conosciuto soprattutto per i suoi lavori strumentali dove la musica orientale e lo heavy metal si mescolano in uno stile post-modernista. Il Concerto per clarinetto del 2006, quello per violino del 2012 e per chitarra del 2013 sono tra i suoi più recenti successi.

Messo in scena da Stéphane Braunschweig, che firma anche la bella scenografia, l’opera è diretta da John Storgårds. La parte di Charlotte Andergast, che nel film fu interpretata da Ingrid Bergman, qui sulle tavole della Suomen Kansallisooppera di Helsinki è cantata da Anne Sofie von Otter. Erika Sunnegårdh e Helena Juntunen sono rispettivamente Eva e Helena (Liv Ulmann e Lena Nyman nel film) mentre Tommi Hakala dà voce al personaggio del marito Viktor.

Peccato che dopo tre settimane e a un giorno dal termine della sua disponibilità su Opera Platform ancora manchino i sottotitoli (l’opera è cantata in svedese) non permettendo di apprezzare ed analizzare il lavoro come meriterebbe.

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Disgraced

Ayad Akhtar, Disgraced

Regia di Martin Kušej

Torino, Teatro Carignano, 11 ottobre 2017

Contrasti insanabili

Il bianco delle pareti di una camera sghemba e il nero del pavimento coperto di carbone. La luce accecante delle lampade fluorescenti e il buio tra una scena e l’altra. Lo scricchiolio dei passi sul carbone e la musica assordante. Il silenzio desolato e i dialoghi furiosi. Uomini e donne. Mussulmani ed ebrei. Il Corano e il Talmud. Civiltà laica e matrice religiosa.

Affronta contrasti insanabili il testo messo coraggiosamente in scena ad inaugurazione della stagione del Teatro Stabile di Torino. Situation comedy che diventa quasi un thriller quella dei cinque personaggi: Amir, avvocato di successo combattuto fra la sua identità mussulmana con cui è nato e la sua formazione americana; Abe, il nipote che scopre invece le sue radici mussulmane; Emily, artista newyorchese infatuata della cultura islamica che trasferisce nei suoi dipinti; Isaac, gallerista ebreo e la moglie Jory, rampante avvocatessa anche lei.

«Tutti in scena sanno bene quali siano i pregiudizi che suscitano in chi si trovano davanti.[…] Alle prese gli uni con gli altri a distanza ravvicinata, si trovano qui i nemici di ieri e i potenziali nemici di domani, che in questo momento vivono una sorta di tregua, un momento di equilibrio instabile.  Equilibrio che poi finiscono anche loro di distruggere». (Martin Kušej)

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Der Freischütz

Carl David Friedrich, Rocky Landscape in the Elbe Sandstone Mountains , 1823

Carl Maria von Weber, Der Freischütz

★★★★☆

 
648126338.png Qui la versione in italiano

Milan, Teatro alla Scala, 10 October 2017

Demons and angels in the first German romantic opera

Carl Maria von Weber’s Der Freischütz is a work of wide contrasts. Derived from a popular legend it was the opera of German national identity, perhaps even more than Die Meistersinger von Nürnberg. This was realized by the Germans who paid a huge success to the work at its first appearance at the Schauspielhaus in Berlin in 1821.

The contrast between good and evil haunts Max’s conscience: he is the unlucky shooter, so, as not to miss the shooting contest the following day whose prize consists in the hand of his beloved Agathe, he doesn’t shrink from involving the devil, here embodied by Samiel, the “black hunter” to whom Kaspar granted his soul, in order to earn infallible bullets…

continues on bachtrack.com

Der Freischütz

Carl Maria von Weber, Der Freischütz

★★★★☆

BandieraInglese  Click here for the English version

Milano, Teatro alla Scala, 10 ottobre 2017

Angeli e demoni nella prima grande opera romantica tedesca

È opera di grandi contrasti Der Freischütz di Carl Maria von Weber. Tratto da una leggenda popolare, rappresenta l’opera dell’identità nazionale tedesca forse anche più de Die Meistersinger von Nürnberg. Lo capirono bene i tedeschi che tributarono un enorme successo al lavoro che nel 1821 aveva debuttato alla Schauspielhaus di Berlino.

Il contrasto tra il bene e il male tormenta la coscienza di Max. Il tiratore sfortunato, per non sbagliare la gara dell’indomani, che prevede come premio la mano dell’amata Agathe, non esita a coinvolgere il diavolo, nella figura di Samiel, il “cacciatore nero” a cui Kaspar ha donato l’anima, per confezionare delle pallottole infallibili. Ma Max non sa che l’ultima pallottola è quella del diavolo, che la può utilizzare a suo piacimento – in questo caso per uccidere Agathe e soddisfare così la sete di vendetta di Kaspar, respinto dalla ragazza a causa di Max.

La scena della Lola del Lupo, una delle pagine più intense del teatro romantico, con le sue atmosfere lugubri contrasta fortemente con l’idillico villaggio in cui i cacciatori fanno festa ballando e scherzando. Ma in questa nuova produzione del Teatro alla Scala affidata a Matthias Hartmann, fin dall’inizio ci viene presentato un inquietante bosco di neri tronchi carbonizzati.

Sottili barre di bianche luci a led definiscono gli ambienti e anche il quadro che si stacca dalla parete della camera di Agathe è una cornice luminosa. L’immaterialità di questi oggetti sta forse ad indicare la loro precarietà di fronte alla forza della natura, ma così viene a mancare la divisione tra interni ed esterni, come quando nell’intimità della sua stanza Agathe spalanca la sua finestra per ammirare la bella notte stellata.

La regia prende una strada bizzarra nel finale, quando le figure infernali con in mano il programma di sala (!) si affiancano al coro che loda la bontà del Padre Eterno mentre Max e Agathe fuggono insieme a dispetto dell’anno di prova accordato dal principe Ottokar. Non si capisce cosa leggere in questo ammutinamento contro l’autorità, visto che fino a quel momento tutta la messa in scena aveva seguito molto fedelmente l’ingenua vicenda senza porsi soverchi problemi interpretativi.

Questo è l’unico momento che desta perplessità in una serata che si era svolta in maniera molto lineare: le apparizioni diaboliche illuminate dalla luce rossa avevano segnato la scena infernale e il cinghiale nero era debitamente comparso al momento della fusione della seconda pallottola. Tutto secondo copione.

I personaggi, soprattutto quelli femminili, sfoggiano costumi ricchissimi e coloratissimi che ricordano quelli della Jenůfa di Hermanis, ma qui sono realizzati con materiali sgradevolmente artificiali e luccicanti che stonano con l’ambientazione nei boschi della Boemia alla fine della guerra dei Trent’anni.

Senza perlessità invece la parte musicale, a iniziare dalla direzione sensibile ma espressiva di Myung-Whun Chung che fin dalle prime note della meravigliosa ouverture fa presagire i tesori di una partitura caratterizzata da particolari effetti timbrici affidati di volta in volta a strumenti diversi: corni, fagotto, violoncello, legni. Il maestro ha raggiunto un perfetto equilibrio tra l’aspetto realistico e quello sovrannaturale: il primo nell’allegra e scomposta musica dei contadini in festa, il secondo nel melologo della scena notturna nella gola del lupo con la nenia sulla stessa nota degli spiriti infernali, i gridi degli uccelli negli ottavini, la tempesta crescente che sfocia in un pandemonio assordante seguito all’improvviso da un mortale silenzio. Effetti resi tutti a meraviglia dall’orchestra del Teatro alla Scala.

Perfetta è stata poi la corrispondenza con il palcoscenico, su cui ottimi interpreti hanno proposto le incantevoli melodie di cui è disseminata l’opera. Prime fra tutte quelle affidate al candore di Agathe, una lirica Julia Kleiter che ha offerto un momento di particolare intensità nella sua preghiera del terzo atto. Al suo fianco la schiettezza di Ännchen ha trovato in Eva Liebau un’interprete vocalmente efficace e dalle vivaci doti sceniche. Numeroso il reparto maschile dominato dalla presenza scenica e dalla eccellenza vocale di Günther Groissböck, il più festeggiato dal pubblico per la magnifica definizione del personaggio di Kaspar, reso magistralmente con voce dal bellissimo timbro, agilità belcantistica e grande potenza sonora. Più elegante che eroico, Michael König ha interpretato con tono introspettivo la figura di Max. La nobile figura del principe Ottokar ha trovato in Michael Kraus l’interprete ideale. Molto ben realizzato anche il Kuno di Frank von Hove che ha anche dato la voce a Samiel. Breve ma magnificamente scolpito l’intervento dell’eremita da parte di Stephen Milling. Tutti quanti, chi più chi meno, si sono dimostrati validi attori nei numerosi dialoghi parlati di questo Singspiel che tanto influenzerà il teatro di Wagner qualche decennio dopo.

Les brigands

Jacques Offenbach, Les brigands

★★★★☆

Parigi, Opéra Comique, 29 giugno 2011

(registrazione video)

Per avere un’idea del successo delle operette di Offenbach ai suoi tempi basti pensare che alla vigilia della guerra Franco-Prussiana ben cinque teatri parigini (Bouffes-Parisiens, Variétés, Palais-Royal, Gaîté e Salle Favart) avevano in produzione contemporaneamente un suo lavoro. Premiato inizialmente dallo stesso successo de La Belle Hélène, de La Grande-Duchesse de Gerolstein o de La Périchole, Les brigands rimasero un po’ in ombra a causa della guerra ma recuperarono poi negli anni successivi, fino allo stop dei Nazisti che nel 1940 impedirono la messa in scena delle opere di un ebreo nei paesi occupati e si dovrà aspettare il 1980, centenario della nascita del compositore, per la gloriosa resurrezione dei suoi lavori in terra di Francia.

Presentato il 10 dicembre 1869, Les brigands non rinuncia alla satira sociale anche se viene ambientato in «un site d’une sauvagerie étrange — paysage à la Salvator Rosa», si premura di dire il libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy.

Secondo Robert Pouvoyeur «Les brigands è forse il capolavoro del compositore e mette ancora una volta in scena molteplici maschere insieme, in una girandola di travestimenti come in un teatro di burattini. I briganti di Falsacappa sono scontenti: non si fanno più affari. Il loro capo si è appena lasciato sfuggire un corriere diplomatico, che viaggiava da Granada a Mantova, senza carpirgli nulla: ha soltanto scambiato il ritratto della principessa di Granada con quello della propria figlia Fiorella. Ben peggio sarebbe se la banda venisse a sapere che, per di più, anche Fiorella si è lasciata scappare un ricco straniero… Ma Falsacappa ha un piano preciso. Il duca di Mantova deve sposare la principessa di Granada, che non conosce, e sborsare alla corte di questa città tre milioni. Travestiti da mendicanti, i banditi irrompono nella locanda “Aux frontières naturelles” fra Granada e Mantova (sic). Travestiti da albergatori, aggrediscono l’ambasciatore mantovano venuto al confine a ricevere la principessa; travestiti da personale di ambasciata, aggrediscono il corteo che giunge da Granada e, infine, travestiti da cortigiani in provenienza da Granada, con Fiorella in abiti di principessa, arrivano a Mantova per incassare i tre milioni. Ma il cassiere ha sperperato tutto in bagordi con donnine e possiede ancora solo mille lire. Inoltre, la gente del vero corteo di Granada è riuscita nel frattempo a liberarsi e tutto sembra perduto, quando il principe riconosce in Fiorella la fanciulla che, tempo prima, lo salvò dai briganti. […] Per mettere le mani sui milioni del duca di Mantova, i briganti hanno dovuto provvedere a tali e tanti travestimenti consecutivi che non ci si raccapezzano più. Sono del resto appena meno malandrini di un ministro delle finanze. Soltanto i rappresentanti del potere, i carabinieri, restano imperturbabili nella loro caccia ai banditi. E giungono sempre e dappertutto troppo tardi. Eppure li si ode da lontano: “Ce sont les bottes… les bottes… les bottes des carabiniers”. Qualche mese più tardi l’Europa intera doveva udire il passo dei soldati veri quando scoppiò la catastrofe, sempre solo annunziata nell’opera».

Nel giugno 2011 all’Opéra Comique viene ripresa la produzione di Amsterdam già passata anche all’Opéra Garnier. La regia è di Jérôme Deschamps e Macha Makeïeff. L’ironica scenografia “d’epoca” è completa di monti di cartapesta, animali vivi o di peluche o spennati che ballano il cancan, infinite gag esilaranti e una recitazione senza tempi morti. Alla testa della sua orchestra Les Siècles con strumenti d’epoca c’è François-Xavier Roth. In scena tanti specialisti del genere, tra cui Éric Huché, Daphné Touchais, Julie Boulianne, Léonard Pezzino, Franck Leguérinel e Martial Defontaine.

Francesca da Rimini

★★★☆☆

Sorpresa: non ci sono solo Bellini, Rossini e Donizetti.

Come nel canto V dell’Inferno dantesco in cui «la bufera infernal, che mai non resta | mena li spirti con la sua rapina», anche sulle tavole del cortile di Palazzo Ducale di Martina Franca nel luglio 2016, per la prima volta dopo quasi due secoli, un vento impetuoso scuote i mantelli e gli abiti dei protagonisti della Francesca da Rimini di Saverio Mercadante, musicista pugliese vissuto tra il 1795 e il 1870 e coevo quindi di Bellini, Rossini e Donizetti.

Sì, proprio così: è al Festival della Valle d’Itria alla sua 42esima edizione che viene eseguito in prima mondiale il lavoro composto da Mercadante durante il suo soggiorno a Madrid. Delle quasi sessanta opere da lui scritte questa, che si colloca esattamente a metà, non riuscì a debuttare per problemi con le primedonne. Prevista infatti per l’inaugurazione della stagione di Carnevale del 1831 al Teatro del Príncipe Alfonso, Adelaide Tosi, il soprano per cui Mercadante aveva scritto il ruolo di Francesca, perse la voce durante le prove e l’opera non venne rappresentata. Un’altra occasione per il debutto l’anno seguente, questa volta per il Teatro alla Scala, sfumò a causa delle gelosie tra Giuditta Pasta e Giulia Grisi, con la prima che si rifiutava di interpretare il ruolo en travesti di Paolo, pretendendo che venisse affidato alla collega. Passando il tempo in discussioni, a causa di altri loro impegni le cantanti abbandonarono il progetto e Mercadante finì per non vedere mai rappresentata la sua Francesca da Rimini.

Il libretto di Felice Romani colloca la tragica vicenda dei due cognati al momento della pace finalmente raggiunta tra le signorie di Ravenna e Rimini. L’esultanza di Lanciotto Malatesta è appena scalfita dal tormento di non comprendere l’infelicità della moglie. Francesca confessa infatti che la sua intenzione era quella di entrare in un convento e che è andata sposa solo per ubbidire al padre («mai non ti diedi il core: | la destra sola avesti | ma la ragion di stato | la dava, e non l’amor» gli dirà poco dopo). Comunque per far piacere al marito assicura che sarà presente ai tornei da lui organizzati per festeggiare la pace. E della pace è felice anche Paolo che ritorna dalla guerra: «il patrio suolo alfin premo per te. […] Per te mi è dato salutare i miei tetti | e bever l’aura che Francesca respira», svelando però il suo nascosto amore per Francesca, il cui turbamento alla vista di Paolo instilla in Lanciotto il sospetto della tresca dei due giovani, che infatti vengono scoperti mentre leggono il libro galeotto degli amori di Ginevra. La coppia è così portata in prigione. Nel secondo atto Lanciotto offre agli amanti la scelta fra veleno e spada allorché giunge il padre di Francesca a salvarli. Il rigore di Lanciotto è motivo di scontro con i suoi seguaci, tra chi vuole riportare Francesca a Ravenna e chi la vuole a Rimini ed è lei stessa a mettere pace tra le due fazioni annunciando che entrerà in convento. E nel convento sarà l’ultimo incontro tra i due amanti e della loro morte per suicidio all’arrivo di Lanciotto.

L’opera si struttura in diciassette numeri musicali ripartiti in due atti. Nel primo, dopo un’introduzione abbiamo un coro e una cavatina di Lanciotto in cui viene esibita la florida vocalità del personaggio, con acuti e impegnativi passaggi di agilità. Non da meno è il successivo intervento di Francesca, anche questo con coro. Viene poi un terzetto con i due coniugi e Guido, il padre di Francesca. Finalmente entra in scena Paolo anche lui con una cavatina. Un coro e un duetto tra i due fratelli conducono al finale primo con un complesso concertato del quartetto di protagonisti e del coro. Il secondo atto esordisce nuovamente con un coro cui seguono una scena e aria di Lanciotto, poi una di Francesca e un quartetto dei protagonisti. Una scena e aria di Paolo precede il duetto finale tra due amanti.

Mercadante utilizza formule musicali consolidate che seguono lo standard compositivo in quattro sezioni (tempo d’attacco, cantabile, tempo di mezzo, stretta con ripresa variata) codificato da Rossini e che verrà eletto a modello stereotipato dai suoi epigoni. Dal punto di vista vocale emerge una scrittura fortemente virtuosistica, vicina allo stile belliniano e con il frequente utilizzo di strumenti obbligati. L’orchestra è inusualmente ricca e varia dal punto di vista timbrico e le agogiche sono molto vaste, spaziando dal lirismo più rarefatto a momenti di grande intensità sonora. Molto prima delle intonazioni di Rachmaninov e di Zandonai, la vicenda di Paolo e Francesca ha qui trovato un’interessante espressione. Chissà, forse è anche la migliore opera di Mercadante, di certo il suo autore può essere accostato senza complessi di inferiorità accanto alla massima triade del belcanto e del teatro musicale della prima metà dell’Ottocento italiano.

Ritrovata cinque anni prima a Madrid e con la revisione critica di Elisabetta Pasquini, l’opera negletta è stata presa in carico da Fabio Luisi per la direzione orchestrale e da Pier Luigi Pizzi per la regia e i costumi – non potendo definire scenografia la facciata del Palazzo Ducale e la pedana che continua in una passerella tra orchestra e pubblico. Essenziale al massimo è infatti l’allestimento di Pizzi, quasi un distillato dei suoi tanti interventi teatrali: due teli neri ai lati e, per i costumi dei personaggi, ricchi ma leggeri veli mossi da ventilatori al di fuori del palcoscenico. Il taglio delle luci e delle ombre sulla facciata in pietra del palazzo è deciso dall’imprevedibile fluttuare dei veli neri e nel vuoto della scena è il vento il protagonista principale, quello che trasforma tutti i personaggi in tante Vittorie di Samotracia se non in Loïe Fuller! Ma se l’artificio visivo è una genialmente semplice idea drammaturgica che all’inizio sorprende, col tempo si satura e al secondo atto ci si aspetterebbe qualcosa di diverso, e invece…

Il lavoro registico sugli interpreti non va poi al di là di movimenti circolari che mettano in risalto lo sventolio dei manti sulla passerella, che si trasforma così in un sfilata di moda. La statica drammaturgia dell’opera – soprattutto nel secondo atto, con un finale che ripete in sostanza il finale primo – viene riempita dai soliti movimenti coreografici “romantici” di Gheorghe Iancu con danzatori in bianco e nero. Sono invece lasciati ai quattro protagonisti i colori squillanti con cui sono evidenziati: Francesca in porpora, Paolo in blu, Lanciotto in nero e giallo oro, Guido in viola.

E arriviamo così ai creatori dei ruoli che hanno atteso ben 185 anni in silenzio. Per ironico contrappasso delle vicende madrilene, come personaggio titolare ora c’è un soprano spagnolo, Leonor Bonilla, mentre come Paolo abbiamo un soprano giapponese, Aya Wakizono. Entrambi hanno un accento particolare che in qualche modo, nell’articolazione delle consonanti e delle vocali, riflette la loro lingua. (Che meraviglioso strumento è la voce che non dipende solo dalla fisiologia dell’apparato vocale, ma anche dalla psicologia del cantante e dall’espressione linguistica che utilizza per comunicare).

Leonor Bonilla ha un timbro personale che impiega in colorature ed agilità sempre molto precise. Omogenea in tutti i registri, la voce si impenna negli acuti con facilità ma rimane espressiva e piena. Si è poi anche apprezzata la sua destrezza coreutica quando esegue non facili movimenti di danza. Anche Aya Wakizono ha un timbro molto particolare e personale, qui più scuro e quindi adatto al ruolo maschile, e dimostra una tecnica belcantistica matura. La tessitura è continua dai gravi agli acuti e l’interpretazione intensa.

Ragguardevole la prova del turco Mert Süngü (Lanciotto) in un ruolo vocalmente ambiguo che oscilla tra il tenore di grazia tardosettecentesco e il tenore lirico-drammatico dell’operismo romantico. Di lui si apprezzano gli sfumati e i piani, così come le messe di voce e i sovracuti affrontati con baldanza. Una performance sempre tesa e senza mai un calo di tensione.

Nobile ed espressiva la linea di canto di Antonio di Matteo (Guido), un baritono elegante e di bella presenza. Il coro della transilvanica Cluj-Napoca, presenza costante del Festival, ha svolto degnamente il suo lavoro. Il tutto è concertato con sapienza e amore da Fabio Luisi che ha ottenuto l’equilibrio perfetto tra pagine melodiche ed esplosioni sonore.

L’allestimento è stato ripreso e poi pubblicato e i duecento minuti di musica sono ora disponibili ripartiti su due DVD o un bluray della Dynamic. Ciononostante l’immagine evidenza difetti di aliasing nei bordi e pixellizzazione nei campi di colore unito, difetto abbastanza comune nella compressione dati.  Due tracce audio e sottotitoli in italiano, ma assenza di extra appena compensati dalle notizie stampate, come al solito in caratteri microscopici, sull’opuscolo allegato. Quattro stelle per la produzione, due per la presentazione in disco.

Sophie’s Choice

★★★☆☆

Il terribile segreto di Sophie Zawistowska

Scomparso nel 2009 a settantatré anni, Nicholas Maw è stato un compositore inglese che dopo la Royal Academy of Music di Londra ha studiato a Parigi con Nadia Boulanger e Max Deutsch, allievo a sua volta di Schönberg. Dopo la carriera di insegnante nelle più prestigiose università inglesi si era trasferito negli USA dove poi è mancato.

Il suo stile neo-romantico e post-modernista (Maw ha sempre rifiutato il linguaggio dell’atonalità) è ben riconoscibile e per questo le critiche sul compositore sono sempre state divise tra chi ha apprezzato l’esuberanza della sua orchestrazione e chi ha trovato la sua musica un pastiche di linguaggi tonali. La musica di Maw si collega con continuità alle esperienze di fine Ottocento saltando a piè pari le avanguardie della prima metà del Novecento, avvicinandosi come stile a quello della musica da film in questa sua Sophie’s Choice (La scelta di Sophie), terza e ultima opera per il teatro dopo One Man Show del 1964 e The Rising of the Moon del 1970. Se l’orchestrazione si prende talora qualche libertà armonica, le voci sono invece sempre impegnate in un recitativo-arioso strettamente tonale, che non sfocia però mai in una melodia, un tema riconoscibile. Unici momenti “lirici” sono quelli della lettura delle poesie di Emily Dickinson o delle note del tango che invadono la casa in uno dei pochi momenti di serenità vissuti dai tormentati personaggi.

Commissionata da Radio 3 e dalla Royal Opera, Sophie’s Choice, dramma in quattro atti, ebbe la prima il 21 dicembre 2002 al Covent Garden. Le critiche si appuntarono soprattutto sul libretto, scritto dal compositore stesso ma mancante della qualità letteraria del romanzo di Styron che dava equilibrio e forma alla vicenda. L’opera ebbe comunque un ottimo riscontro di pubblico e fu allestita subito dopo a Berlino, Vienna e Washington, dove venne eseguita in una versione ridotta che tagliava di un’ora le quasi quattro originali. Il soggetto è ovviamente l’omonimo romanzo di William Styron del 1979 da cui tre anni dopo Alan J. Pakula trasse il film che avrebbe reso celebre l’attrice Meryl Streep.

La vicenda è raccontata, molti anni dopo, da Stingo, narratore sempre presente in scena. Al suo arrivo nel 1947 a Brooklyn dalla Virginia, speranzoso di sfondare come scrittore, il giovane trova sistemazione in una bizzarra casa dipinta di rosa, la cui proprietaria, Yetta, gli affitta una camera. La tranquillità è turbata dai rapporti spesso tempestosi di altri due inquilini della casa, la coppia composta da Sophie Zawistowska, una donna polacca, e Nathan Landau, un intellettuale ebreo, brillante, raffinato, ma ossessionato dall’olocausto e con oscillazioni d’umore sconcertanti. Una gita tutti insieme a Coney Island sarà l’unico momento di spensieratezza per i tre. Stingo si affeziona sempre più a Sophie e dopo aver scoperto che ha un numero tatuato sul braccio riesce a farle raccontare del passato che lei ha sempre celato. Affiora così una tragica realtà. Il padre, professore all’università di Cracovia, esaltato dalla figlia come uomo buono e giusto, era invece un sostenitore dello sterminio degli ebrei e anche lei si sente complice, avendo aiutato il padre a scrivere e pubblicare i suoi libelli antisemiti. Il fatto che il padre fosse un filonazista non basta però a risparmiargli la vita quando avviene l’invasione della Polonia e presto anche Sophie viene arrestata per contrabbando di cibo e mandata ad Auschwitz con i due figli. Qui in un certo senso collabora nuovamente con i nazisti diventando la segretaria del comandante del campo. La sua è una lunga confessione che avviene con drammatici flashback, mentre il rapporto a tre continua, a volte tranquillo a volte tempestoso, secondo il variare degli umori di Nathan che, come viene rivelato a Stingo dal fratello medico, è affetto da schizofrenia paranoide ed è cocainomane. Dopo l’ultima violenta scenata di Nathan, Sophie e Stingo partono per la Virginia. In viaggio il giovane propone alla donna di sposarlo. Sophie allora confessa il suo ultimo terrificante segreto: all’arrivo ad Auschwitz fu costretta a decidere quale dei due figli salvare e in preda alla disperazione le venne di gridare «Prendete la bambina!» dannando così la sua coscienza per sempre al tormento. Quella notte a Washington dapprima si concede a Stingo, ma poi lo lascia, ritorna da Nathan e insieme si suicidano. Nelle mani inerti di Sophie è il libro di poesie della Dickinson.

Diretta da Simon Rattle e con la regia di Sir Trevor Nunn, la registrazione BBC della prima è stata pubblicata nel 2010 su doppio DVD per commemorare il compositore a un anno dalla morte. In un’intervista nel bonus dei dischi il maestro Rattle esprime il suo entusiasmo per l’opera e non c’è da dubitare della sua sincerità vista la passione con cui concerta il lavoro, ma la lunghezza e la mancanza di una vera drammaticità non rendono particolarmente allettante l’opera. Come nel film il momento di maggior pathos è quello del racconto della “scelta” – e ci mancherebbe anche che non lo fosse! – ma per il resto non c’è una vera tensione drammatica anche a causa del prolisso libretto e della musica che avvolge tutta la vicenda con una melassa orchestrale sempre poderosa. Funzionale la scenografia di Rob Howell: proiezioni e una piattaforma rotante con i diversi ambienti naturalisticamente ricostruiti e accurati costumi.

Interpreti eccellenti quelli che hanno creato i ruoli: Angelika Kirschschlager è una vocalmente pregevole e intensa Sophie che traduce in amorevole tenerezza verso i due uomini il tormento del passato; Rod Gilfry è come sempre impeccabile e sa illuminare gli aspetti ora affascinanti ora feroci del personaggio di Nathan; parimenti efficaci anche Gordon Gietz e Dale Duesing, rispettivamente Stingo e il narratore. Come comandante Höss si fa notare il tenore finlandese Jorma Silvasti.

Due tracce audio, ma mancano i sottotitoli in italiano come avviene ormai spesso nella maggior parte dei DVD, anche di quelli italiani.