
Richard Wagner, Tristan und Isolde
★★★☆☆
Torino, Teatro Regio, 15 ottobre 2017
La solita faccenda di corna. E non è neanche una novità.
Sul manifesto del Tristano e Isotta ora in scena al Regio di Torino, due profili si fronteggiano creando nel vuoto tra i volti una figura percepibile come un calice: è il “vaso di Rubin”, un’illustrazione dello psicologo danese Edgar Rubin per dimostrare un’ambigua illusione ottica in cui il cervello percepisce o due profili contrapposti o una coppa in un alternarsi di figura/sfondo. È la presenza di entrambi gli elementi a creare qualcosa di indissolubile. «Unsre Liebe? | Tristans Liebe? | Dein’ und mein’, | Isoldes Liebe? […] Doch unsre Liebe, | heisst sie nicht Tristan | und – Isolde?» (Il nostro amore? L’amore di Tristano? Il tuo e il mio, l’amore di Isotta? […] Ma il nostro amore non si chiama Tristano e – Isotta?) cantano nel duetto del secondo atto i due amanti. E poco dopo Tristano: «Tristan du, | ich Isolde, | nicht mehr Tristan!» (Tu Tristano, io Isotta, non più Tristano!) e lo stesso fa Isotta: «Du Isolde | Tristan ich, | nichr mehr Isolde!). I due esseri sono totalmente intercambiabili, in quanto una cosa sola, «Mein und dein! | Ewig, ewig ein!» (Mio e tuo! In eterno, in eterno insieme!).
Cosa c’è di questa voluttà di annientamento nell’uno in questo allestimento zurighese del 2008 di Claus Guth che inaugura la nuova stagione lirica di Torino?
All’alzarsi del sipario viene mostrata una scena che ci sembra famigliare: in una austera camera da letto vediamo una signora coricata (Violetta?), in piedi un signore in redingote (il dottore? papà Germont?), accasciata in un angolo una domestica (Annina?). Se non fosse per le note del preludio che si è appena spento potremmo pensare di trovarci nell’ultimo atto di Traviata.
Ambientata a fine Ottocento in una villa che si ispira sia a Villa Wahnfried dei Wagner a Bayreuth sia a quella dei Wesendonk a Zurigo, la scenografia di Christian Schmidt è costituita da una struttura girevole che di volta in volta ne mostra gli interni. Una soluzione ormai ampiamente collaudata, che nove anni fa aveva qualcosa di più originale di quanto non abbia ora.
Siamo dunque in una dimora con i suoi saloni, le anticamere, i corridoi, le camere da letto. Nonostante che non ci sia un verso che non richiami l’elemento marino – «a oriente scivola il naviglio […] sono i tuoi sospiri che gonfiano le vele? […] veloce veleggia il veliero […] dal sonno scotete questo mare che sogna […] prima che tramonti il sole saremo a terra […] all’albero maestro raccogliete le vele! […] vicina è la terra! […] apprestarsi allo sbarco […] via l’àncora…» – non c’è alcun riferimento al mare in questo primo atto. Unico indizio sarà il vascello graffito da Kurwenal sulla facciata scrostata del rifugio di Tristano nel terzo atto.
Come manca il mare, così manca l’esterno notturno del secondo atto, sostituito da una camera da pranzo sul cui tavolo maldestramente sgomberato da Tristano si sdraia Isotta mentre l’atmosfera notturna è quella suggerita solo dalle ombre delle foglie sulla parete della camera. Lo stesso tavolo ritornerà nel finale, dopo un’ennesima rotazione della struttura questa volta al rallentatore, su cui viene deposto Tristano morente.
Non c’è proprio la natura in questo Tristano di Guth, quel poco che c’è è quello delle piante ornamentali in vaso del giardino d’inverno della villa. Tutta la vicenda è borghesemente vissuta tra pareti damascate, mobili Luigi XVI e doppieri e la fiaccola è un’applique che si spegne molto prosaicamente con un interruttore. Così però la storia si riduce a una vicenda di corna – quelle che spuntarono nella relazione tra Wagner e Matilde Wesendonk con la conseguente furiosa gelosia della moglie Minna che costrinse il marito ad abbandonare la villa dei Wesendonk a Zurigo per riparare a Venezia (la terra di Sassonia era ancora off limits per il compositore ricercato per le sue idee politiche) e qui nella città lagunare completare il Tristano.
E non è neppure così inedita come idea se già nel 1983 al Comunale di Bologna Jurij Ljubimov allestiva con lo stesso konzept il suo Tristano e Isotta, seguendo già allora un modello di regia in completa autonomia rispetto alle indicazioni del libretto e in netta antitesi alle letture tradizionali fedeli invece al testo scritto.
Se lo spettacolo comunque regge lo si deve alla intensa direzione di Gianandrea Noseda. Con lui sì che in orchestra si sente il mare, i corni prendono un suono particolarmente evocativo e anche il tono pastorale del terzo atto viene messo in bella evidenza. Le quattro ore di musica sono un crescendo di emozioni che, se non in scena, si realizzano comunque nella buca orchestrale. La sua attenta concertazione ha condotto in porto una serata affidata per i ruoli titolari a Peter Seiffert – in un ruolo massacrante e in un momento che risente degli anni della sua lunga carriera e in cui il timbro sempre affascinante ha dovuto bilanciare segni di fatica e acuti strozzati – e a Ricarda Merberth, autorevole soprano wagneriano dal timbro però un po’ metallico e dal vibrato eccessivo.
In questa produzione Brangania è un doppio di Isotta, la sua parte razionale: ha gli stessi abiti, la stessa acconciatura, ne imita i gesti. Ma si distingue la voce, che è quella del mezzosoprano Michelle Breedt, interprete sensibile e convincente. Nobile e compassato il re Marke di Steven Humes e molto ben definito il Kurwenal di Martin Gantner.
Alla replica pomeridiana non si è ripetuto il fuggi fuggi della prima al secondo intervallo. Solo qualcuno non ha resistito: la preparazione della cena ha avuto la meglio sul liebestod.
⸪