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Carl Maria von Weber, Der Freischütz
★★★★☆
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Milano, Teatro alla Scala, 10 ottobre 2017
Angeli e demoni nella prima grande opera romantica tedesca
È opera di grandi contrasti Der Freischütz di Carl Maria von Weber. Tratto da una leggenda popolare, rappresenta l’opera dell’identità nazionale tedesca forse anche più de Die Meistersinger von Nürnberg. Lo capirono bene i tedeschi che tributarono un enorme successo al lavoro che nel 1821 aveva debuttato alla Schauspielhaus di Berlino.
Il contrasto tra il bene e il male tormenta la coscienza di Max. Il tiratore sfortunato, per non sbagliare la gara dell’indomani, che prevede come premio la mano dell’amata Agathe, non esita a coinvolgere il diavolo, nella figura di Samiel, il “cacciatore nero” a cui Kaspar ha donato l’anima, per confezionare delle pallottole infallibili. Ma Max non sa che l’ultima pallottola è quella del diavolo, che la può utilizzare a suo piacimento – in questo caso per uccidere Agathe e soddisfare così la sete di vendetta di Kaspar, respinto dalla ragazza a causa di Max.
La scena della Lola del Lupo, una delle pagine più intense del teatro romantico, con le sue atmosfere lugubri contrasta fortemente con l’idillico villaggio in cui i cacciatori fanno festa ballando e scherzando. Ma in questa nuova produzione del Teatro alla Scala affidata a Matthias Hartmann, fin dall’inizio ci viene presentato un inquietante bosco di neri tronchi carbonizzati.
Sottili barre di bianche luci a led definiscono gli ambienti e anche il quadro che si stacca dalla parete della camera di Agathe è una cornice luminosa. L’immaterialità di questi oggetti sta forse ad indicare la loro precarietà di fronte alla forza della natura, ma così viene a mancare la divisione tra interni ed esterni, come quando nell’intimità della sua stanza Agathe spalanca la sua finestra per ammirare la bella notte stellata.
La regia prende una strada bizzarra nel finale, quando le figure infernali con in mano il programma di sala (!) si affiancano al coro che loda la bontà del Padre Eterno mentre Max e Agathe fuggono insieme a dispetto dell’anno di prova accordato dal principe Ottokar. Non si capisce cosa leggere in questo ammutinamento contro l’autorità, visto che fino a quel momento tutta la messa in scena aveva seguito molto fedelmente l’ingenua vicenda senza porsi soverchi problemi interpretativi.
Questo è l’unico momento che desta perplessità in una serata che si era svolta in maniera molto lineare: le apparizioni diaboliche illuminate dalla luce rossa avevano segnato la scena infernale e il cinghiale nero era debitamente comparso al momento della fusione della seconda pallottola. Tutto secondo copione.
I personaggi, soprattutto quelli femminili, sfoggiano costumi ricchissimi e coloratissimi che ricordano quelli della Jenůfa di Hermanis, ma qui sono realizzati con materiali sgradevolmente artificiali e luccicanti che stonano con l’ambientazione nei boschi della Boemia alla fine della guerra dei Trent’anni.
Senza perlessità invece la parte musicale, a iniziare dalla direzione sensibile ma espressiva di Myung-Whun Chung che fin dalle prime note della meravigliosa ouverture fa presagire i tesori di una partitura caratterizzata da particolari effetti timbrici affidati di volta in volta a strumenti diversi: corni, fagotto, violoncello, legni. Il maestro ha raggiunto un perfetto equilibrio tra l’aspetto realistico e quello sovrannaturale: il primo nell’allegra e scomposta musica dei contadini in festa, il secondo nel melologo della scena notturna nella gola del lupo con la nenia sulla stessa nota degli spiriti infernali, i gridi degli uccelli negli ottavini, la tempesta crescente che sfocia in un pandemonio assordante seguito all’improvviso da un mortale silenzio. Effetti resi tutti a meraviglia dall’orchestra del Teatro alla Scala.
Perfetta è stata poi la corrispondenza con il palcoscenico, su cui ottimi interpreti hanno proposto le incantevoli melodie di cui è disseminata l’opera. Prime fra tutte quelle affidate al candore di Agathe, una lirica Julia Kleiter che ha offerto un momento di particolare intensità nella sua preghiera del terzo atto. Al suo fianco la schiettezza di Ännchen ha trovato in Eva Liebau un’interprete vocalmente efficace e dalle vivaci doti sceniche. Numeroso il reparto maschile dominato dalla presenza scenica e dalla eccellenza vocale di Günther Groissböck, il più festeggiato dal pubblico per la magnifica definizione del personaggio di Kaspar, reso magistralmente con voce dal bellissimo timbro, agilità belcantistica e grande potenza sonora. Più elegante che eroico, Michael König ha interpretato con tono introspettivo la figura di Max. La nobile figura del principe Ottokar ha trovato in Michael Kraus l’interprete ideale. Molto ben realizzato anche il Kuno di Frank von Hove che ha anche dato la voce a Samiel. Breve ma magnificamente scolpito l’intervento dell’eremita da parte di Stephen Milling. Tutti quanti, chi più chi meno, si sono dimostrati validi attori nei numerosi dialoghi parlati di questo Singspiel che tanto influenzerà il teatro di Wagner qualche decennio dopo.



⸪