Libri

Pazzo per l’opera

Alberto Mattioli, Pazzo per l’opera

2020 Garzanti, 216 pagine

Il primo volume sull’argomento Mattioli lo scrisse a quota 1000, con questo è quasi a quota 1800. Parliamo del numero di rappresentazioni viste dal vivo – precisazione importante in tempi di restrizioni da Covid-19 e conseguenti streaming di spettacoli a porte chiuse. Si tratta infatti del secondo volume, qui sottotitolato “Istruzioni per l’abuso del melodramma”, dedicato a «una passione esagerata […] smodata e iperbolica, eccessiva e ossessiva, maniacale e totalizzante», la passione per l’opera lirica.

Il volume ha la struttura di un’opera in cinque atti, con l’ouverture, gli intervalli e quattro diversi finali. Il testo raccoglie le riflessioni dell’autore uscite sui giornali o sui social ed è un bene che abbiano assunto questo formato più duraturo perché le considerazioni di Mattioli su questa forma d’arte sono sempre preziose oltre che di piacevole lettura.

L’ouverture introduce all’argomento e contiene statistiche sui teatri visitati (tra cui quelli di Pechino, Mumbai, Shanghai ma anche Casale Monferrato, Lugo e Busseto, of course) e i più frequentati: la Scala di Milano, il Comunale di Modena (città natale del Nostro) e il Comunale di Bologna, ognuno ben sopra le cento recite, seguono l’Opéra Bastille di Parigi, la Fenice di Venezia e il Regio di Torino. Tra i titoli più visti ci sono naturalmente quelli più rappresentati al mondo (Traviata, Flauto magico, Don Giovanni, Bohème, Rigoletto…),  ma anche Simon Boccanegra (Verdi) e Giulio Cesare (Händel).

Con l’atto primo viene subito affrontata la questione della regia d’opera, capitolo che dovrebbe essere obbligatoriamente imposto ai “melomani medi” vestali della “tradizione” e del “come lo voleva l’autore”. E qui il testo diventa quasi un un manifesto politico: «l’opera diventa un prodotto del passato e museale se la facciamo così, cioè se continuiamo a leggerla come un meraviglioso ma poco comprensibile cimelio di una civiltà estinta. L’opera, invece, se viene letta come una manifestazione della contemporaneità, ha tutt’ora una grandissima forza. Se si riesce a mettere in rapporto un repertorio lirico del passato con il nostro presente, se l’interprete fa uno sforzo di capire cosa c’è di presente in quel passato, l’opera mantiene una forza emozionale formidabile perché aggiunge al teatro – luogo per eccellenza del dibattito e della discussione – la forza emozionale e devastante della musica». Nel primo intervallo veniamo informati sul lessico in uso in questo pazzo mondo, un dizionarietto di termini che vanno da “baroccari” (esecutori specializzati nel periodo barocco, anzi “barock”) a “topone” (affettuoso soprannome affibbiato a Plácido Domingo). La figura di Rodolfo Celletti domina, nel bene e nel male, il secondo atto, dedicato alla tecnica vocale. Nel secondo intervallo possiamo virtualmente visitare la mostra Nei palchi della Scala allestita l’anno scorso nel teatro che da sempre si identifica col “tempio della lirica”.

L’atto terzo si suddivide in quattro scene con le figure dei cantanti che hanno dominato questo mondo negli ultimi decenni: la prima è ovviamente Maria Callas, seguono i modenesi Mirella Freni e Luciano Pavarotti, mentre la terza e la quarta scena sono per la “santa Cecilia” Bartoli e la “santa di Bratislava” Edita Gruberová.  Il terzo intervallo elenca i cento spettacoli più amati e qui è curioso fare il confronto con quanti di questi il lettore abbia visto o ne condivida l’entusiasmo. Col quarto atto si discute di «corsi e ricorsi», ossia dei cartelloni dei teatri e della fortuna o meno di certi titoli e di certi autori, com’è il caso di Rossini e quello della musica barocca, oggetto di una renaissance contemporanea il secondo, più vecchio, ma neanche tanto, il primo. Il quarto intervallo ci introduce alla conoscenza degli operoinomadi, sottospecie degli operoinomani che concepiscono le vacanze e le belle stagioni solo come occasioni per gli spettacoli offerti dai tanti festival che da primavera ad autunno inoltrato rimpinguano un’offerta altrimenti languente. Mattioli ricorda quelli dell’Arena di Verona, di Martina Franca, dello Sferisterio di Macerata e del Rossini Opera di Pesaro in Italia, di Salisburgo, di Glyndebourne e quello wagneriano di Bayreuth. Ma sarebbero da aggiungere quelli altrettanto autorevoli di Aix-en-Provence, Wexford, lo Händel di Halle, il Barock di Bayreuth, il Verdi di Parma e il Donizetti di Bergamo, ognuno con la propria specificità.

L’atto quinto affronta un tema dibattuto: l’opera è in crisi? La risposta di Mattioli è sì in Italia, no all’estero. Una delle tante contraddizioni del nostro paese è proprio questa: dove è nato il melodramma che ha fatto conoscere la nostra lingua e che ancora ci fa apprezzare nel mondo, qui è negletto. Da noi i teatri si chiudono, nel resto del mondo si inaugurano meravigliosi edifici disegnati dagli architetti più rinomati perché in estremo oriente o nei paesi islamici l’opera è vista come un segno di distinzione e un prodotto culturale apprezzatissimo da tutti. Qui la politica, che ha invaso e pretende di gestire i nostri teatri, o si disinteressa o non li vede come un’opportunità di crescita civile e culturale, ma è invece ossessionata dal ritorno economico che spinge le fondazioni a rivolgersi sempre allo stesso pubblico conservatore per non rischiare sul titolo nuovo. Così i cartelloni fanno a gara a programmare sempre le stesse cose per un  pubblico sempre più anziano e destinato inevitabilmente a ridursi di numero. All’estero si è innescato invece un circolo virtuoso tra teatri che propongono novità (titoli nuovi, ma anche nuovi allestimenti dei classici) a spettatori sempre più curiosi.

Il libro non ha uno, bensì quattro diversi finali, ognuno centrato su uno spettacolo che è stato particolarmente apprezzato dall’autore.

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La Parigi musicale del primo Novecento

Flavio Testi, La Parigi musicale del primo Novecento

2003 EDT, 433 pagine

Non mancano certo testi su questo argomento, ma La Parigi musicale del primo Novecento si discosta per il sottotitolo “Cronache e documenti”, infatti l’autore, il compositore Flavio Testi, raccoglie recensioni giornalistiche, articoli delle riviste specializzate, programmi di sala dei teatri d’opera o dei luoghi dei concerti per illustrare una delle stagioni artistiche più ricche di una città al culmine del suo sviluppo economico e sociale.

Ecco quindi la creazione e il “fallimento” del Pelléas et Mélisande di Debussy nelle corrispondenze del compositore con Maeterlink, Louÿs, Chausson; nelle pagine della “Revue d’histoire e critique musicales”; nelle critiche dei giornali del tempo. Oltre a Debussy nel libro troveremo i nomi di Maurice Ravel, Richard Strauss con la sua Salome, il Boris Godunov appena arrivato da San Pietroburgo, la Seconda Sinfonia di Gustav Mahler, Erik Satie, il Wagner del Parsifal, La vida breve di De Falla e le tante stagioni dei balletti russi.

Parigi è a quel tempo una città «in cui il piacere diventa un’industria nella quale un’immensa folla brulica ansiosa, in cui l’eleganza è un’inesausta rincorsa e il fascino una fiamma di breve durata. Ma la Parigi del primo Novecento non è solo la città dei 100 teatri, delle 1000 feste mondane, dei primi cinematografi e dei famosi café-chantant; è anche l’immenso atelier a cielo aperto in cui una moltitudine di artisti e intellettuali lavora alla costruzione di ciò che oggi definiamo modernità». Tutto avrebbe avuto termine il 1° agosto 1914 quando i giornali annunciano l’imminente guerra. Sarà il tramonto definitivo di un’epoca.

TEATRO STATALE ACCADEMICO D’OPERA E BALLETTO

Teatro Statale Accademico d’Opera e Balletto

Novosibirsk (1945)

1790 posti

Terzo teatro d’opera russo per importanza (dopo Mosca e San Pietroburgo), quello di Novosibirsk è però il più grande nelle dimensioni: quasi 300 mila metri cubi di volume su una superficie di 12 mila metri quadrati tanto da farlo definire “il Colosseo della Siberia”. La cupola alta 35 metri e con un diametro di 60 è il degno coronamento di un edificio imponente. Un ambizioso progetto del 1925 lo faceva parte di un complesso molto più ampio di otto edifici chiamato “La casa della scienza e della cultura” e prevedeva un anfiteatro multifunzionale di tre mila posti. Di questo piano fu realizzato solo il teatro su disegno modernista di V. Birkenberg i cui lavori furono portati avanti durante la guerra e terminati il 12 maggio 1945. La cupola che copre la sala principale è un miracolo di ingegneria essendo sottile solo 8 centimetri ed è l’unico elemento rimasto del progetto iniziale.

Negli anni ’80 del Novecento divenne improrogabile una ristrutturazione che ebbe termine nel 2004. Ora l’edificio vanta una decorazione rinnovata pur nello stile originale e impianti tecnologici all’avanguardia. È stato possibile anche ricavare una seconda sala di  333 posti, l’auditorium Isidor Zak, inaugurata nel 2017.

Melodrammi e canzonette

Pietro Metastasio, Melodrammi e canzonette

2017 (2005) Rizzoli, 778 pagine

Pietro Metastasio (1698-1782) ha scritto 26 melodrammi. Ognuno di questi è stato intonato decine se non centinaia di volte. Non c’è compositore del XVIII secolo che non abbia in catalogo almeno un’opera su un suo libretto, ma i suoi testi vennero utilizzati ancora nell’Ottocento (Donizetti, Paër, Mercadante, Rossini…). Non si è lontani dal vero contando in un un migliaio le opere basate sui melodrammi di questo che è stato il più affermato librettista di tutti i tempi.

L’edizione completa dei suoi melodrammi occupa tre volumi editi da Marsilio, ma una soluzione più agile ed economica può essere questo volumetto della BUR che contiene i testi completi della Didone abbandonata, de L’olimpiade, del Demofoonte e le arie degli altri melodrammi, oltre che una selezione di Cantate e Rime.

Il libro si apre con la seconda Lettera su Metastasio di Stendhal (1814) e una lunga introduzione di Gianfranco Lavezzi che analizza i caratteri della sua poesia. Oltre alla cronologia della vita e delle opere e alle indicazioni bibliografiche, particolarmente utile è l’indice alfabetico del primo verso delle arie.

 

Mozart

Sandro Cappelletto, Mozart. Scene dai viaggi in Italia

2020 Il Saggiatore, 352 pagine

Settecentoventi giorni: tanti sono quelli passati da Mozart in Italia. Quasi due anni sui 35 da lui vissuti. 3300 chilometri suddivisi in tre viaggi: il primo, il più lungo (dal 13 dicembre 1769 al 28 marzo 1971), 461 giorni su e giù per la penisola, da Bolzano a Napoli, da Torino a Venezia; il secondo, il più breve (13 agosto – 15 dicembre 1971), 121 giorni solo fino a Milano; il terzo (24 ottobre 1772 – 13 marzo 1773) 138 giorni ancora solo fino a Milano.

Sandro Cappelletto ci accompagna con dovizia di particolari lungo i trasferimenti decisi dal padre Leopold: i 200 cambi di cavalli, le stamberghe puzzolenti, le camere senza riscaldamento oppure gli alloggi dignitosi, i problemi degli abiti del ragazzo che cresce, le lettere di presentazione, le lunghe e talora inutili anticamere dei potenti spesso gretti, raramente generosi.

Parallelamente alle peripezie di un padre e di un figlio e alla corrispondenza con le donne rimaste in patria, c’è la descrizione dell’Italia del tempo, la parte più cospicua del libro, e qui Cappelletto scrive una vera e propria storia del Settecento musicale italiano. Ecco ad esempio cosa scrive a proposito del Mitridate di Milano: «il Regio Ducal Teatro brucia la notte del 25 febbraio 1776; il 3 agosto 1778 si inaugura nelle vicinanze della chiesa di Santa Maria della Scala come Nuovo Regio Ducal Teatro alla Scala la sala progettata dal folignate Giuseppe Piermarini. Due anni e mezzo di lavoro: una brevità che racconta quanto l’esistenza di un teatro degno fosse ritenuta condizione imprescindibile nell’architettura civile e relazionale del ceto dominante di una città, che in un teatro amava rappresentare sé stesso. La musica era una componente del rito mondano e sociale dell’andar all’opera. Importante, non determinante». A Milano una compagnia di canto affermata era chiamata a rispettare le indicazioni di un quattordicenne e i rapporti non saranno facili. Come non saranno mai facili i rapporti dei teatri con i compositori.

Visconti

 

Vittoria Crespi Morbio, Visconti. Cinema Teatro Opera

352 pagine, Grafiche Step Editrice, 2019

 

Sembra incredibile, ma è scarsa la biografia su Luchino Visconti, uno dei più rilevanti personaggi della cultura novecentesca italiana. Colma in parte questa lacuna il bellissimo libro fotografico, ma ricco di testi illuminanti, edito nella collana “7 Dicembre” (il giorno dell’apertura della stagione lirica milanese…) dalla associazione degli Amici della Scala.

Il sottotitolo esplicita gli ambienti espressivi di questo grande regista che lo scritto di Vittoria Crespi Morbio racconta suddividendoli in questi capitoli: Lo sguardo di Euridice; Dal documento allo spettacolo, Il lavoro dell’attore; Il melodramma; La scuola di Jean Renoir; Ossessione; La terra trema; Bellissima; Ritorno al neorealismo?; Visconti in teatro; Senso; Il gattopardo; Teatro musicale; Le notti bianche; Il lavoro; Due titoli; Alla ricerca di Marcel Proust; La trilogia tedesca; L’ultimo Visconti. In appendice la bibliografia, una nota biografica, una cronologia e un indice degli spettacoli.

«Sembrano tre attività molto diverse fra loro, e capita spesso che qualcuno mi chieda quale delle tre, io preferisca», scrive Visconti in un articolo su “L’Europeo” del 1966, «Non lo so, a dire la verità. Cinema, teatro, lirica: io direi che è sempre lo stesso lavoro. Malgrado l’enorme diversità dei mezzi usati. Il problema di far vivere lo spettacolo è sempre uguale. C’è più indipendenza e libertà nel cinema ovviamente, e nel cinema il discorso diventa sempre molto personale. […] Ma bisogna anche dire che il cinema non è mai arte. È un lavoro di artigianato, qualche volta di prim’ordine, più spesso di secondo o di terzo ordine. […] Così continuo a correre di qua e di là, impegnandomi in questi tre generi. Quando faccio il cinema sogno spesso di riprendere la prosa, e facendo la prosa mi capita spesso di pensare a una nuova messinscena lirica. Si tratta di tre attività che a volte mi sembrano, senza esserlo affatto, dei “violons d’Ingres».

Per la prima volta viene offerto al pubblico un corredo iconografico enorme che va da quel primo ritratto fotografico di un fascinoso Luchino trentenne a Parigi (1936) ai fotogrammi de L’innocente, il suo ultimo film, del ’76. Purtroppo ce n’è una sola della Manon Lescaut del 1973 a Spoleto: l’unica sua regia lirica che abbia visto dal vivo.

Mahler

Quirino Principe, Mahler

2002 Bompiani, 1034 pagine

 

Il sottotitolo “La musica tra Eros e Thantos” dice molto sul taglio scelto da Quirino Principe: non tanto una biografia del compositore, quanto una guida a «come ascoltare Mahler, o come non ascoltarlo là dove la sua musica non lo merita», come scrive l’autore nel corposo preambolo di 40 pagine. Il suo intento è quello di illuminare un territorio, quello mahleriano, fino ai margini, dove confina con il paesaggio freudiano, la desolazione kafkiana e l’orrore puro di Poe, il dominio dell’espressionismo e delle avanguardie artistiche del Novecento.

Nonostante l’attuale popolarità, è relativamente scarsa la bibliografia dedicata al compositore e quasi tutta in lingua tedesca: si va dalle coeve biografie di Richard Specht (1905-10), Guido Adler (1911-16) e Arthus Neisser (1918) agli studi di Mosco Carner (1944), Adorno (1960), Schönberg (1960), Henri Louis de La Grange (1969), Deryck Cooke (1980). In italiano ci sono i testi di Ugo Duse (1962), Giuseppe Pugliese (1976) e Gianfranco Zaccaro (1978). Fondamentale è poi il saggio di Paul Bekker Die Sinfonie von Beethoven bis Mahler (1992) mai tradotto in italiano!

Il libro di Principe colma dunque una lacuna nella storiografia musicale. Si sviluppa in sette capitoli (I. Ebrei di Boemia; II. Martirio e vocazione; III. Vecchi maestri e nuove musiche; IV. Sentieri di Rovi; V. Ahasvero; VI. Il mondo, la sfera e le visioni; VII. I confini del crepuscolo) e un epilogo. Il titolo del quinto capitolo si riferisce al nome del leggendario “ebreo errante”, la cui figura di uomo vagabondo e condannato al nomadismo dalle stesse divinità permea in parte il carattere di Mahler, irrequieto spirito oscillante tra ebraismo e cristianesimo, misticismo e panico ateismo.

Ricca l’appendice: A. Tavola genealogica; B. Notizie sulle opere mahleriane (comprese quelle perdute, distrutte o incompiute); C. Recenti edizioni delle opere mahleriane; D. Testi dei Lieder; E. Tonalità dei Lieder per le diverse voci; F. Scelta di poesie di Gustav Mahler; G. Bibliografia.

 

 

Il Novecento

Elvio Giudici, Il Novecento e la musica americana

2019 Il Saggiatore, 1562 pagine

Con questo quinto volume si completa il monumentale catalogo dell’opera lirica in DVD di Elvio Giudici. Britten, Janáček, Puccini e Strauss la fanno da padroni, ma c’è anche spazio per Kaija Saariaho o Tan Dun, e per tutti i contemporanei che Giudici inserisce nel capitolo “Il teatro musicale angloamericano” (Adams, Adès, Benjamin, Bernstein, Birtwistle, Corigliano, Dove, Glass, Heggie, Menotti, Turnage…).

Come sempre illuminanti le note, come quella che precede appunto quest’ultimo capitolo collettivo: «È un discorso che sarebbe vecchio se solo lo si fosse fatto quand’era il caso, ovvero anni e anni fa. Invece, ignorando quel che accade al di là dell’Atlantico (da qualche tempo, anche al di là della Manica), molti ancora si gingillano col quesito se il melodramma non sia ormai “morta cosa”, se ogni entrata in teatro non equivalga a visitare un museo e via salmodiando. Non è affatto morto, il melodramma. Non lo è, per lo meno, ove se ne ricordi e conseguentemente se ne accetti – come costuma farsi nei paesi anglosassoni – quella sua intrinseca accezione di teatro una volta pacificamente accettata con le ovvie conseguenze. […] Lo è, invece, se esso viene praticato avendo come referente solo la sparuta intellighenzia di musicologi che su di esso discettano. E che in genere liquidano tutto quanto esuli dai ristrettissimi ambiti apoditticamente indicati come “giusti” appiccicando etichette di comodo e comodamente spregiative quali “musica di consumo”, “musica da film”, “musical travestito” e via spocchiosando. Fino al classico “americanata” che tutto pare riassumerle fungendo da sinonimo di pattumiera, nella quale finisce non solo il nutritissimo teatro musicale americano, ma anche la poca o punta attenzione prestata al meno consistente ma forse ancor più agguerrito teatro musicale inglese».

Opera

Kate Bailey Ed., Opera: Passion, Power and Politics

2017 V&A Publishing, 304

Catalogo della mostra al Victoria and Albert Museum (30 settembre 2017- 25 febbraio 2018) diretta da Tristram Hunt.

Un’introduzione del regista Kasper Holten, direttore della Royal Opera House londinese dal 2001 al 2017, precede gli otto capitoli in cui la mostra era articolata:

  1. Venezia, Claudio Monteverdi, L’incoronazione di Poppea, il teatro La Fenice e un contributo di Danielle De Niese;
  2. Londra, Georg Friedrich Händel, Rinaldo, il teatro della Royal Opera House e un contributo di Robert Carsen;
  3. Vienna, Wolfgang Amadeus Mozart, Le nozze di Figaro, il teatro della Staatsoper e un contributo di Antony Pappano;
  4. Milano, Giuseppe Verdi, Nabucco; il teatro alla Scala e un contributo di Plácido Domingo;
  5. Parigi, Richard Wagner, Tannhäuser, il teatro dell’Opéra Garnier e un contributo di Michael Levine;
  6. Dresda, Richard Strauss, Salome, il teatro Semperoper e un contributo di Simone Young;
  7. Leningrado, Dmitrij Šostakovič, Lady Macbeth del distretto di Mcensk, il teatro Michailovskij e un contributo di Graham Vick
  8. L’opera oggi e domani.

Il ricchissimo apparato iconografico fa rimpiangere meno il non aver visto l’esposizione.

Richard Wagner’s Music Dramas

 

Carl Dahlhaus, Richard Wagner’s Music Dramas

1979 Cambridge University Press, 162 pagine