foto © Roberto Ricci
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Giuseppe Verdi, Luisa Miller
★★☆☆☆
Parma, Chiesa di San Francesco del Prato, 28 settembre 2019
Gruppo in un interno
Solo qualche giorno fa Alberto Mattioli su Amadeus si chiedeva se avesse senso presentare l’opera in forma di concerto e la risposta era sì in certi casi, no per Rigoletto: «fare Verdi in concerto significa farlo nero». La teatralità di certe opere è tale da comprometterne il significato senza la rappresentazione scenica.
Questo mi veniva in mente a San Francesco del Prato di Parma mentre assistevo alla Luisa Miller, terzo titolo in programma del Festival Verdi giunto alla sua XIX edizione. Quello che si vedeva sul palco era infatti poco più che una versione da concerto dell’opera. La location quest’anno sostituisce il Teatro Farnese, non più agibile per grandi spettacoli. È una chiesa in fase di restauro ed essendo momentaneamente sconsacrata può tollerare l’allestimento di questa sordida storia di inganni, amori – Kabale und Liebe è appunto il titolo originale del dramma di Schiller da cui il Cammarano ha tratto il libretto e Dumas il suo Intrigue et amour che il librettista aveva visto a Parigi –, tentati assassinii e suicidi.
Non si sa fino a che punto Lev Dodin abbia fatto di necessità virtù o sia una sua personale scelta registica, o entrambe le cose, ma la sua messa in scena è ridotta al minimo, quasi in forma di concerto in costume. Avendo a disposizione lo spazio limitato dell’abside della vecchia chiesa, vieppiù ristretto da impalcature su cui si è posizionato il coro presente dall’inizio alla fine, il regista impone una staticità e una assenza di interazioni tra i personaggi che trasformano il “melodramma tragico” in un Kammerspiel quasi da teatro ibseniano. A questo punto però bisognava fare un passo in più e vestire i personaggi in abiti moderni.
Per evitare i tragitti zigzaganti tra i tubi innocenti che invadono l’edificio, gli interpreti sono quasi sempre in scena mentre una coorte di figuranti traffica in continuazione per allestire pedane che formeranno una passerella e infine una tavola allestita per un banchetto mortale: nel finale Rodolfo passerà ad avvelenare ogni singola bottiglia di vino da cui farà bere Luisa, berrà egli stesso e berranno tutti gli altri.
La quasi totale mancanza di passioni in scena rende la performance fredda e impersonale. Non aiutano poi la grande distanza tra il pubblico e il piccolo palcoscenico, più stretto ancora di quello del Verdi di Busseto, la cattiva acustica e la direzione coerente ma distaccata di Roberto Abbado a capo dell’orchestra del Teatro Comunale di Bologna. Tanto che gli unici momenti di vera emozione sono quelli del quartetto a cappella del secondo atto (spesso tagliato, mentre è un momento di magica sospensione del tempo in un’opera in cui, se non travolgenti, gli avvenimenti hanno una loro drammatica successione) e quello dell’aria di Rodolfo «Quando le sere al placido» qui intonata da un cantante che si rivela la sorpresa della serata, Amadi Lagha, un tenore tunisino che compiuti gli studi a Parigi si è andato specializzando nei principali ruoli verdiani (Manrico, Radamès) e pucciniani (Rodolfo, Calaf). Dotato di un timbro che ricorda Pavarotti e uno stile elegante che si rifà a un certo Bergonzi, Lagha sfodera una voce ben proiettata (l’unica che uscisse con tutta la sua presenza da quella fitta selva di tubi innocenti) e temperamentale, ma che sa piegarsi a mezze voci, a legati suadenti e una intensa espressività. Si confermano le professionalità di Riccardo Zanellato e Franco Vassallo, i due padri rispettivamente Conte di Walther e vecchio Miller, mentre il Wurm di Gabriele Sagona è quello che più risente della cattiva acustica del luogo e la voce spesso fa fatica a bucare l’orchestra. Martina Belli è una credibile duchessa Federica e la parte del titolo è affidata alla giovane Francesca Dotto, soprano dal timbro non piacevole e dall’eccessivo vibrato, che non sempre esprime al meglio la figura dell’infelice donna vittima dei raggiri dei tanti uomini che la circondano, in questo di certo non aiutata dalla regia.
In definitiva si è trattato di una serata non memorabile in cui si è potuto apprezzare l’impegno degli artisti, ma l’emozione è stata quasi sempre assente. Per Verdi – e per il teatro in musica – questo non è un fatto facilmente perdonabile.
⸪