Il Tamerlano

 

Antonio Vivaldi, Tamerlano, ovvero La morte di Bajazet

Piacenza, Teatro Municipale, 22 gennaio 2023

★★★☆☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Un Tamerlano tra fantascienza e Hip Hop

Per il Carnevale 1735 con il Tamerlano Vivaldi tornava al Teatro Filarmonico di Verona una seconda volta dopo averlo inaugurato tre anni prima con La fida ninfa. L’opera è un pasticcio, un lavoro cioè composto con arie intonate da autori diversi, una pratica molto comune nel Settecento e dettata dalla grande richiesta e dalla conseguente fretta di comporre nuove opere. Talmente comune che non era considerato un genere a sé e non aveva neanche un nome: il termine pasticcio o pastiche fu utilizzato per la prima volta con questo significato in Inghilterra solo nel 1742 – quando Händel, anche lui utilizzatore del genere, col Messiah abbandonava l’opera italiana per dedicarsi unicamente alle opere corali in inglese.

La mancanza del diritto d’autore e di strumenti di registrazione spingevano a una pratica che non era giudicata in modo negativo, anzi: permetteva di ridare vita a composizioni che, se non più rappresentate, sarebbero presto andate perdute. Oltre a Händel e a Vivaldi praticamente tutti i compositori dell’epoca vi fecero ricorso così che le stesse arie si potevano ritrovare, con il medesimo testo o con testo diverso, in lavori di autori differenti. In questo di Vivaldi, ad esempio, l’aria di Irene del secondo atto «Sposa, son disprezzata» la troviamo come «Sposa, non mi conosci» sia nella Merope di Riccardo Broschi del 1732 sia in quella di Geminiano Giacomelli del 1734, entrambe su libretto di Apostolo Zeno, ma l’aria piacque talmente che Vivaldi la utilizzò ancora nel 1738 per  L’oracolo in Messenia. Per i personaggi “buoni” (Bajazet, Asteria e Idaspe) Vivaldi sceglie di preferenza autoimprestiti (dall’Olimpiade, dal Giustino, dalla Semiramide, dal Motezuma, dall’Atenaide e dal Farnace), per i “cattivi” (Tamerlano, Andronico, Irene) pezzi di Giacomelli, Broschi e Hasse. (Uno schema dell’opera e dei relativi prestiti e autoimprestiti si può  trovare qui)

Nel libretto a stampa del 1735 il titolo è Il Tamerlano, tragedia per musica, mentre nella partitura manoscritta è Bajazet. Questa oscillazione dei titoli si riflette nell’ambivalenza emotiva dei caratteri dei due personaggi, entrambi al centro della vicenda dove l’ottomano Bajazet è sconfitto e portato in catene alla presenza del mongolo Tamerlano. Il terzo uomo è il greco Andronico, innamorato di Asteria, figlia di Bajazet, della quale si è invaghito anche Tamerlano nonostante il fatto che abbia promesso la mano alla principessa Irene, che Tamerlano promette invece ad Andronico. Il che rende furiosa Asteria la quale sembra piegarsi ai desideri del mongolo solo per ucciderlo appena sarà sua sposa. Dopo vari tentativi di avvelenamento, solo il suicidio di Bajazet placa Tamerlano che dona Asteria ad Andronico: «Così l’odio placato, e resi amici | cominceremo oggi a regnar felici».

Il libretto di Agostino Piovene è tratto dal Tamerlan ou la mort de Bajazet (1676) di Jacques Pradon, a sua volta basato sulla tragedia Bajazet (1672) di Jean Racine – quella che l’attrice Adriana Lecouvreur sta interpretando nell’opera di Cilea… – ed è stato messo in musica ben 40 volte nei sessant’anni che vanno dal Tamerlano di Francesco Gasparini (1711) a Il gran Tamerlano di Josef Mysliveček (1772). Non sembra quindi un testo privo di valore o di drammaturgia, ma così non la pensa Stefano Monti che mette in scena l’opera per Piacenza.

Il regista emiliano aveva prodotto un ottimo spettacolo durante la pandemia al Filarmonico di Verona – proprio lo stesso teatro in cui il Tamerlano aveva debuttato nel 1735 – col suo Dido and Æneas del marzo 2021 dove aveva sfruttato genialmente gli spazi della sala senza pubblico, ma questa volta delude ricorrendo al solito espediente del personaggio sdoppiato tra cantante e ballerino, impresa che è riuscita solo a Pina Bausch nel suo Orpheus und Euridyke, uno degli ultimi lavori della coreografa tedesca. Ma era 15 anni fa, e lei era Pina Bausch…

L’idea di affiancare ad ogni cantante un danzatore che amplifichi (!) o complementi (?) quanto espresso dall’interprete è di per sé discutibile in teoria e diventa irritante nella realizzazione: il cantante è costretto a sentirsi addosso un altro corpo che esprime quanto ci si aspetta egli faccia con la voce mentre lo spettatore è distratto dalle contorsioni del danzatore. È quasi umiliante per l’interprete vocale, come se non ci fosse fiducia nelle sue capacità espressive o peggio ancora nella drammaturgia della parola cantata. Così la rappresentazione si trasforma in una esecuzione oratoriale in costume in cui il cantante entra, dipana la sua aria impalato al centro della scena e rivolto frontalmente al pubblico mentre il suo alter ego – i peraltro bravi membri della Dacru Dance Company – si dimena nelle movenze hip hop ideate da Marisa Ragazzo e Omid Ighani. Non c’è interazione tra i personaggi, in definitiva non c’è teatro.

L’impianto scenografico e i costumi, dello stesso Monti, ricreano atmosfere futuribili e dark dove maschere e trucchi pesanti occultano parte del volto dei cantanti attenuandone ancor più la capacità espressiva. Unico elemento scenico è un monolito appeso dall’alto che si trasforma in palco, piano inclinato, tavola, parete. Sul fondo la videografia intrigante di Cristina Ducci dà profondità a una scatola nera dai lati ricurvi in cui le luci non sempre precise di Eva Bruno lasciano talora in ombra il cantante di turno.

Non omogeneo il cast dominato dalla figura del Tamerlano di Filippo Mineccia, l’unico che riesca ad utilizzare magistralmente anche il corpo per esprimersi e lo fa con indiscussa padronanza: assieme alle doti vocali unisce una presenza scenica di primo piano e il suo personaggio acquista così spessore pur nella sua costante arrogante prepotenza che sembra però nascondere a tratti una certa insicurezza che rende più plausibile la conversione finale. Proiezione della voce, toni cangianti, temperamento e sicurezza nelle agilità fanno di Mineccia uno dei più grandi controtenori di oggi che solo ultimamente anche l’Italia sta finalmente riconoscendo. Attesissimo il suo prossimo appuntamento alla Scala con Li zite ‘n galera di Leonardo Vinci.

Lo stesso livello di eccellenza si trova in Giuseppina Bridelli che riesce a dare statura al personaggio non molto definito di Idaspe e che trova il suo glorioso momento di virtuosismo nell’aria «Anche il mar par che sommerga» all’inizio del secondo atto, le cui difficoltà sono risolte con grande tecnica. La cantante ha tutta la mia comprensione per aver sopportato una maschera che le ha coperto gran parte del volto.

Annunciata come indisposta, Delphine Galou ha generosamente salvato la serata riuscendo persino a delineare con grande eleganza la soave «La cervetta timidetta» del secondo atto, terza intonazione dell’aria (presente sia nel Giustino sia nella Semiramide del Prete Rosso) per Asteria, la parte che a Verona nel 1735 era stata della sua pupilla Anna Girò. Se la vede invece con le arie del Farinelli Shakèd Bar, giovane israeliana che come Irene ha i due numeri più famosi del pasticcio: «Qual guerriero in campo armato» e «Sposa, son disprezzata», risolte con efficacia. Federico Fiorio è un sopranista di bel timbro, voce dal colore chiaro e ottima intonazione, che non riesce però a dare carattere al personaggio di Andronico. Sopra le righe e vocalmente scomposto invece il Bajazet di Bruno Taddia che ha continuato a pronunciare il suo nome con la j francese.

L’opera è stata mirabilmente concertata da Ottavio Dantone che a capo della sua Accademia Bizantina schierata ad altezza di platea ha dato splendore a questa geniale partitura con cui Vivaldi riaffermava orgogliosamente il suo stile, che qualcuno a quel tempo incominciava a ritenere superato, ma che noi ammiriamo ancora per vitalità ritmica, felicità di invenzione melodica e preziosità strumentale, tutte qualità messe in luce dal Maestro Dantone e dal suono incomparabile della sua orchestra. Dantone ha anche completato l’opera con cinque arie presenti nel libretto ma di cui mancava la musica. È soprattutto merito della sua direzione il successo dell’esecuzione applaudita con calore dal numeroso e giovanile pubblico del teatro  Municipale. Ce ne fossero di teatri di provincia come questo che assieme a quelli di Ravenna, Reggio Emilia, Modena e Lucca non ha timore di affrontare, accanto ai soliti titoli di repertorio, le strade meno battute dell’opera barocca, quella quasi al 100%  italiana.

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