Trentacinque anni dopo
Di questo spettacolo, che aveva inaugurato la stagione della Scala nel 1982, abbiamo non solo la accurata analisi di Elvio Giudici del DVD che lo contiene, ma anche una pungente cronaca di Massimo Mila.
Tratto dalla pièce di Victor Hugo Hernani ou l’Honneur castillan (1830), il lavoro di Verdi è sempre stato il preferito delle sue prime opere, anche dall’autore. «Il cocco bello di mamma, il figlioletto sano, vivace e un po’ stupido. Perciò ha avuto fortuna, e c’è chi non lo può soffrire». La critica di Mila non risparmia il libretto, definito «sgangherato» – e aggiungiamo lambiccato: «rugiada al cespite, bronzo ignivomo, cimbe natanti» sono alcune delle chicche letterarie messe in campo dal Piave in questo lavoro presentato alla Fenice il 9 marzo 1844.
L’epoca è l’anno 1519. L’azione si svolge in Spagna e ad Aquisgrana. Parte I, Il bandito. Ernani (in realtà dietro questo nome si nasconde Don Giovanni d’Aragona) è a capo di un gruppo di banditi con i quali vuole sollevare una rivolta contro il re Carlo per spodestarlo e vendicare l’uccisione del padre. Si reca di nascosto al castello di Silva per incontrarne la nipote Elvira della quale è innamorato e ricambiato, nonostante essa sia già promessa allo zio. Qui si trova già in incognito Carlo, anch’egli innamorato di Elvira. Essa lo riconosce, ma lo respinge e di fronte alla sua insistenza non esita a prendergli il pugnale per difendere il proprio onore. Ernani irrompe in scena per proteggere Elvira, ma il re lo riconosce e lo esorta alla fuga. Anche Silva entra all’improvviso sdegnato per l’attentato al suo onore da parte di Carlo, ma lo riconosce e gli rende omaggio. Carlo infine concede ad Ernani di scappare.
Parte II, L’ospite. La rivolta capeggiata da Ernani è fallita ed egli chiede ospitalità travestito da pellegrino al castello di Silva, il quale gli comunica che sta per sposare Elvira. Ernani sconvolto si rivela ed offre come dono nuziale la sua testa. All’inseguimento di Ernani giunge al castello anche Carlo, ma Silva legato al vincolo dell’ospitalità lo nasconde affinché non sia trovato. Non riuscendo a scoprire Ernani, Carlo lascia il castello intimando ad Elvira di seguirlo. Ernani quindi decide di rivelare a Silva che anche Carlo è innamorato di Elvira, esortandolo a vendicare l’offesa recata al suo onore. I due stringono un patto, Ernani consegna un corno a Silva, il quale quando vorrà la sua morte non dovrà far altro che suonarlo.
Parte III, La clemenza. I due congiurati si recano ad Aquisgrana sulla tomba di Carlo Magno, ma sono stati preceduti da Carlo, il quale rivendica il trono imperiale. Ernani e Silva decidono di ucciderlo e tirano a sorte su chi debba eseguire la sentenza, ed esce Ernani. Dopo che Ernani e Silva hanno nuovamente giurato, appare Carlo – ora imperatore – con il suo seguito e decreta la morte di Ernani e Silva. L’intervento di Elvira fa cedere Carlo, che la concede in sposa ad Ernani oltre a salvargli la vita. Silva intanto medita vendetta.
Parte IV, La maschera. Nel castello di Don Giovanni d’Aragona fervono i preparativi per le nozze. Mentre tutti si abbandonano alla gioia si sente risuonare il corno. È Silva, che fa valere il giuramento stipulato con Ernani. Egli cerca di commuoverlo e di farlo ritornare sui suoi passi, ma alla fine si toglie la vita e sul suo corpo esanime si accascia anche Elvira.
Nel grandioso allestimento di Luca Ronconi il palcoscenico è tutto un saliscendi di scale, praticabili e trincee scavate nel suolo da cui emergono a mezzo busto i coristi, mentre i cantanti per spostarsi da A a B devono zigzagare lungo un percorso irto di ostacoli. Nessuno è libero, sembra dire il regista, in questo mondo dominato dal destino e dall’onore inteso fino alle sue più crude conseguenze.
Gli interpreti sono gli stessi dell’incisione su disco dello stesso anno, ma qui in scena sembrano impacciati e la vocalità ne risente, ma col senno di poi il macchinoso impianto scenico di Ezio Frigerio non sembra così impervio: è che i cantanti di allora non erano avvezzi alle acrobazie cui ormai sono abituati nelle regie di oggi.
Mirella Freni, che ha sostituito la prevista Caballé, si fa apprezzare se non con la presenza scenica («sarebbe stato meglio insegnarle a recitare, come Ronconi sa fare così bene quando vuole» suggerisce Mila), con la sontuosa vocalità e gli acuti squillanti. Plácido Domingo, qui alla sua prima inaugurazione scaligera, porge il meraviglioso colore della sua voce e la sua presenza fascinosa riuscendo a dare significato a un ruolo assurdo nel libretto.
Ghiaurov sforza negli acuti, ma è Silva, l’«odiato veglio», fin dalla prima frase. Il prudenziale taglio della sua cabaletta «Infin che un brando vindice» è però severamente criticato dal Mila: «Ghiaurov è stato ‘scippato’ della robusta e truculenta cabaletta. È vero che non c’è nel manoscritto originale e non c’era nella prima esecuzione a Venezia, ma né Muti né il musicologo Degrada sono in grado di portare una sola prova concreta della sua inautenticità. Essi trascurano, invece, o ignorano le ferree consuetudini del melodramma ottocentesco alle quali il primo Verdi è ancora supinamente soggetto. Silva non aveva cabaletta a Venezia perché l’artista che sosteneva quella parte era un ‘basso comprimario’ trovato nella piazza quasi casualmente. Impossibile dare anche a lui un’aria doppia, cioè il complesso di cavatina e cabaletta, come hanno nel primo atto il ‘primo tenore’ e il ‘primo soprano’, allo stesso modo che è impossibile per un caporale portare i galloni di sergente […] A quei tempi contava soltanto la rigorosa graduazione gerarchica dei cantanti e il giovane Verdi dovrà ancora mangiare molte pagnotte per liberarsi da questa e altre servitù teatrali […] La soppressione di quella cabaletta […] spezza un po’ le reni al personaggio, fiero tutore dell’onore castigliano: tanto l’esecuzione musicale quanto la regia ce lo mostrano nei primi due atti come un vecchio frale e piagnucoloso, sì che poi non sappiamo spiegarci come mai lo troviamo così aitante e arzillo nell’atto della congiura. Sembra quasi che nel lungo intervallo abbia fatto una cura Voronov (come del resto Bruson che recupera lo smalto della voce)». Nel secondo atto infatti il baritono aveva avuto un lieve abbassamento di voce alla prima, ma come interprete si dimostra il migliore di tutti.
Muti sale baldanzoso sul podio che ancora parte del pubblico del teatro deve accomodarsi e da quel momento l’orchestra è tutt’uno con la sua lettura trascinante, ispirata, «appassionata e vibrante», giustamente enfatica. Precisa nella concertazione dei grandi pezzi di insieme e dei magnifici finali, non ci sono momenti di stanchezza in un’opera che di certo non brilla per coerenza e omogeneità.
All’epoca l’allestimento fu piuttosto criticato. Non furono risparmiati né la regia di Ronconi né la conduzione di Muti, ma neppure il quartetto di cantanti scampò alla recensione grondante fiele di Rodolfo Celletti all’uscita del CD. Visto trentacinque anni dopo questo Ernani si rivela, invece, come un grande spettacolo radicato nella “tradizione verdiana” del teatro milanese, ma proiettato verso il futuro delle moderne proposte.
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- Ernani, Armiliato/De Ana, Roma, 3 giugno 2022
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