Mese: luglio 2016

Kalîla wa Dimna

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Moneim Adwan, Kalîla wa Dimna

★★★★☆

Aix-en-Provence, Théatre du Jeu de paume, 10 luglio 2016

(live streaming)

«Se ammazzate un poeta, rinascerà in mille canzoni»

Dimna e Kalîla sono fratello e sorella, gemelli, molto diversi tra loro, ma il protagonista motore dell’azione di questo lavoro del palestinese Moneim Adwan, classe 1970, è il poeta Chatraba. Con il re e la madre formano i cinque personaggi di quest’opera la cui musica è realizzata da cinque strumenti: violino, violoncello, clarinetto, qanun (una cetra trapezoidale) e percussioni. Commissionata dal Festival di Aix-en-Provence, questa è la prima opera araba a vedere la scena in occidente, e qui viene presentata nella bomboniera settecentesca del Théâtre du Jeu de paume.

Il lavoro è tratto da una raccolta di apologhi di animali scritta da Ibn al-Muqaffa’ nell’ottavo secolo, uno dei testi più popolari della letteratura araba come da noi Le favole di La Fontaine. Kalîla wa Dimna elabora quella dell’amicizia tra il leone e il bue messa in disgrazia dall’ambizioso sciacallo. Il libretto è stato scritto dalla francese Catherine Verlaguet e dal siriano Fady Jomar. In poco meno di un’ora e mezza di musica si narra infatti di Dimna la cui ambizione sfrenata lo porta a manipolare il re, un re chiuso nella sua gabbia dorata, protetto dalla madre e lontano dal popolo. Dimna porta a corte il poeta Chatraba perché attraverso le sue parole il re possa conoscere il mondo esterno, ma il re si dimostra non solo incantato dal poeta ma lo elegge a suo migliore amico suscitando la gelosia di Dimna, che corromperà il rapporto tra il re e il poeta e questi alla fine verrà giustiziato perché ha dato voce al dolore e all’ingiustizia di quel popolo che il re in fondo non ci teneva poi tanto a conoscere.

Come gli interpreti (che provengono da diversi paesi del mondo arabo) anche la musica prende qualcosa da tante culture diverse, dal Maghreb alla Turchia fino all’India, ma è elaborata come la musica araba classica. E l’identità è data dalla lingua del canto: l’opera è infatti in arabo con gli interventi in francese di Kalîla che commenta l’azione e che solo alla fine canta in francese quasi a sottolineare la distanza dal fratello che ha causato la morte di Chatraba.

Il significato dell’opera di Moneim Adwan è che la parola del poeta non muore con lui e il suo messaggio di speranza e di libertà continua nei cuori di chi lo hanno ascoltato ed è più forte di tutte le oppressioni: «Se ammazzate un poeta, rinascerà in mille canzoni». L’attualità della vicenda è evidente e se l’amara considerazione «Cos’è successo a questo mondo che pensavamo di conoscere?» è espressa da interpreti che vengono da paesi come la Turchia, la Siria, la Palestina, la Tunisia, il Libano, il Marocco c’è da credere nella forza e sincerità della domanda.

Diretti dal violinista Zied Zouari i cinque interpreti sono famosi nei loro paesi: il fascinoso Jean Chahid (Chatraba) è stato ad esempio finalista della Star Academy libanese. Il compositore Moneim Adwan dà la voce al personaggio di Dimna e Ranine Chaar a Kalîla. Un ottimo lavoro è stato fatto dal regista Olivier Letellier per insegnare ai cantanti a muoversi lontano dalla tradizione araba molto statica, con eccellenti risultati.

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Šárka

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Leoš Janáček, Šárka

Venezia, Teatro la Fenice, 11 dicembre 2008

(registrazione video)

Janáček mitico

Il mito di Šárka, tramandato per iscritto da Dalimil, autore della prima cronaca in lingua ceca all’inizio del ‘300, interessò in particolar modo i compositori boemi: Smetana nel 1875 gli aveva dedicato un poema sinfonico, terzo dei sei che formano Má vlast (La mia patria) e Zdeněk Fibich la sua opera, omonima, nel 1897. Anche a Dvořák nel 1881 era stato proposto di musicare il libretto di Julius Zeyer, ma ci aveva rinunciato.

Nel 1888 Janáček aveva terminato la prima stesura. Pieno di entusiasmo vedeva la sua Šárka nella scia del nazionalismo mitico avviato dalla Libuše di Smetana, ma deluso dal giudizio tiepido del venerato maestro Dvořák e scoraggiato dalle scarse possibilità di rappresentazione mise da parte il progetto. Solo trent’anni dopo riprende il lavoro dimenticato, ora è un musicista affermato e molti dei problemi sembrano superati, strumenta il terzo atto e nel 1925 l’opera debutta a Brno.

Prologo: durante il regno di Libuše le donne avevano sperimentato un periodo d’oro e la popolazione femminile era divenuta la parte privilegiata della società, ma dopo la sua morte le cose cambiarono a tal punto da provocare una rivolta che portò alla costituzione di un esercito femminile, di cui Šárka era la guerriera più feroce. All’inizio dell’opera il morale delle truppe maschili è molto basso, ma viene innalzato dal giovane Ctirad, che custodisce la tomba di Libuše. Le donne entrano nel sepolcro, ma sono spaventate dalla comparsa di Ctirad, e giurano vendetta. Šárka progetta di intrappolare il giovane guerriero e le sue fanciulle la legano a un albero. Ctirad la trova e, preso da pietà, la slega, innamorandosi di lei ricambiato. Dopo aver giaciuto l’uno nelle braccia dell’altra, Šárka ricorda la sua precedente decisione e usa il corno per chiamare le compagne a uccidere Ctirad e i suoi guerrieri. Durante il funerale di Ctirad, Šárka, addolorata, si getta sulla sua pira e muore tra le fiamme. Il coro canta un lamento per gli amanti.

La prima opera di Janáček ha nel soggetto mitico molti temi wagneriani (armi soprannaturali, donne bellicose, magia e amore, tradimento e olocausto), ma il compositore moravo non abbina temi musicali ai simboli (motivi conduttori) e la sua musica si accende solo in presenza di forti passioni in scena. La stringatezza del lavoro sembra poi quasi beffarsi della prolissità dei drammi wagneriani.

«Janáček misura e contiene la linea del canto, per favorire la continuità musicale e drammatica. La stringatezza strutturale e l’incisività della linea vocale, che solo raramente si apre al lirismo, sono già un abbozzo del geniale stile di Jenůfa, anche se in Šárka non compaiono ancora dichiaratamente le ‘melodie parlate’. Janáček aveva già trovato in questa prima partitura operistica quel suo stile melodico un po’ irascibile, fatto di scatti violenti, quasi brutali, accompagnati da quelle particolari figurazioni che battezzerà sčasosvka: un rapido motivo dinamico e ondeggiante, adagiato su lunghi aloni armonici sostenuti da ‘pedali’. L’orchestrazione di Šárka si discosta dall’orchestrazione classica di Dvořák: abbandona la compattezza dei raddoppi per una strumentazione analitica, in cui ogni strumento si presenta con il suo timbro puro. Le forme chiuse, inoltre, sono usate con molta parsimonia. Queste sono presumibilmente le innovazioni che portano il compositore a considerare Šárka un’opera stilisticamente già propria, o quanto meno un’opera in cui il suo linguaggio è a grandi linee conquistato». (Franco Pulcini)

In prima rappresentazione in Italia, la breve opera viene abbinata a Cavalleria rusticana qui al Teatro la Fenice. La direzione è di Bruno Bartoletti, la regia di Ermanno Olmi e le scene di Arnaldo Pomodoro. Gli interpreti sono Mark Steven Doss (Přemysl) e Christina Dietzsch (Šárka).

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Dalibor

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Bedřich Smetana, Dalibor

direzione di František Vajnar

regia di Václav Kašlík

scene di Josef Svodoba

1985, Národní Divadlo, Praga

Ancora una volta è stato il benemerito Teatro Lirico di Cagliari a mettere in scena un titolo poco conosciuto nel nostro paese: nel 1999 viene infatti presentata in prima nazionale la terza opera di Smetana, Dalibor. Con l’ingenuo libretto in tedesco di Josef Wenzig il lavoro aveva debuttato a Praga il 16 maggio 1868 diretto dallo stesso autore ottenendo però un successo modesto. Neanche nel 1870, con la traduzione in ceco di Ervín Špindler e in una nuova revisione, non ebbe grande successo, che arrivò invece due anni dopo la morte dell’autore e soprattutto nel 1892 sotto la direzione di Gustav Mahler.

L’opera è ispirata alla vicenda di Dalibor di Kozojed, un eroe leggendario boemo che guidò una rivolta a Ploskovice a sostegno del popolo oppresso e fu condannato a morte nel 1498 durante il regno di Ladislao II di Boemia. L’uccisione dell’amato compagno Zdenek, dal cui violino era incantato, porta Dalibor a vendicarsi dell’assassino, che è il fratello di Milada la quale inizialmente giura vendetta ed è la prima accusatrice, ma appena lo vede si innamora di lui. Travestita da uomo, come la Leonora del Fidelio, si fa assumere come aiuto del carceriere, ma poi mentre cerca di salvare Dalibor dalla prigione alla testa di un gruppo di rivoltosi, viene ferita mortalmente. Dalibor sceglie allora di farsi uccidere anche lui per ricongiungersi con Zdenek e con Milada.

Dal punto di vista musicale in Dalibor sono presenti elementi stilistici nazionalisti cechi, come i ritmi delle danze o l’impiego in funzione solistica del violino, considerato in Boemia lo strumento nazionale, ma all’epoca Smetana non sfuggì alle solite critiche di wagnerismo. Nelle pagine di massa e corali non è lontano il modello tedesco, ma dal punto vista vocale si può invece avvertire una certa influenza del belcanto italiano, come nell’impervio ruolo di Jitka o nell’aria di Dalibor «Slyšels to příteli, tam v nebes kůru?» (Lo senti, amico, lassù in cielo?) uno dei pezzi più estatici dell’opera slava. Non è da meno la sua seconda aria in prigione. «Ó Zdenku, jedno jen obejmutí, a žalář bude rájem mi» (Oh, Zdenek, solo un abbraccio e la prigione diventerà il Paradiso).

Con Dalibor Smetana riesce a trasformare una storia d’amore ambientata in epoca medievale in un inno all’orgoglio nazionale e alla libertà e grazie a una musica di altissimo livello ricca di raffinatezze liriche riesce a mantenere fino alla fine una grande tensione emotiva. Questo lavoro non trova confronti in nessun’altra opera ceca coeva, ponendosi all’avanguardia e contribuendo così a formare uno stile fortemente innovativo.

Unico documento video dell’opera è questa registrazione della televisione ceca dell’allestimento del 1985 del Teatro Nazionale di Praga con le scene ferrigne di Josef Svoboda, il Dalibor di Leo Marian Vodička, la Milada di Eva Děpoltová, il Vladislav di Václav Zítek, il carceriere di Karel Průša e la Jitka di Dana Šounová-Brouková.

Čerevički (Gli stivaletti)

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★★★★☆

Il capolavoro quasi sconosciuto di Čajkovskij

Si direbbe che Čajkovskij sia il compositore natalizio per eccellenza: non solo il suo balletto Lo schiaccianoci è immancabile nelle feste di fine anno, ma lo sarebbe anche Черевички (Čerevički, letteralmente “le pantofole”, variamente rese come The Tsarina’s Slippers in inglese, Les souliers de la Tsarine in francese, Die Pantöffelchen in tedesco, Las sandalias de la Zarina in spagnolo, ma Gli stivaletti in italiano), tratto dal racconto di Gogoľ La notte prima di Natale (1832). Però quest’opera è quasi sconosciuta e molto raramente viene eseguita, anche nella stessa Russia.

Eppure è l’opera preferita da Čajkovskij – più di Eugenio Onegin, di La dama di picche, di Iolanta… Si sa che gli autori non sono sempre i critici più oggettivi delle loro opere, ma non si fa fatica a essere d’accordo con lui una volta ascoltata quest’opera che è un capolavoro assoluto degno di stare al fianco degli altri del compositore russo per la musica che è delle sue migliori e non se ne spiega l’assenza dalle scene se non col fatto che noi privilegiamo sempre il genere drammatico su quello comico, soprattutto con un autore tormentato come Čajkovskij. Non che manchino i momenti patetici, ma è il comico a prevalere e il diavolo di Čajkovskij è parente prossimo di quello di Dvořák (Il diavolo e Caterina, 1899).

L’opera è una revisione del suo precedente lavoro Il fabbro Vakula il cui testo, di Yakov Polonskij, era stato originariamente scritto per il compositore Aleksandr Nikolaevič Serov, che però era morto senza poterlo utilizzare. Čajkovskij l’aveva musicato nel 1874, ma il lavoro non aveva destato che un tiepido interesse al suo debutto al Mariinskij. Tredici anni più tardi, dopo aver semplificato alcuni elementi musicali, inserito una nuova aria per Vakula, una canzone per il maestro di scuola e cambiato qualche verso del principe, Čajkovskij presenta questa nuova versione il 31 gennaio 1887 al teatro Bol’šoj. In buca c’è lo stesso compositore che debutta in quell’occasione come direttore d’orchestra. L’accoglienza è migliore, ma nel tempo avrà più fortuna l’opera di Nikolaj Rimskij-Korsakov La notte prima di Natale (1895) basata sullo stesso racconto di Gogoľ.

L’azione ha luogo alla fine del XVIII secolo. Atto I. A Dikan’ka, Ucraina, d’inverno in una notte di luna la strega Solocha accoglie il Diavolo, suo spasimante, che desidera vendicarsi di Vakula, figlio di Solocha, perché lo ha raffigurato in maniera ridicola. Perciò decide di rubare la luna e provocare una tempesta di neve per trattenere a casa Čub, padre della bella Oksana, amata da Vakula, in modo che i due non possano incontrarsi liberamente a casa di lei. Tuttavia Čub non desiste dal suo proposito e con il compare Panas si reca all’osteria. Frattanto a casa di Čub Oksana fa la civetta allo specchio. Quando arriva Vakula, la capricciosa ragazza inizia a prenderlo in giro. Per un equivoco Vakula scaccia di casa Čub, di ritorno dopo essersi smarrito, al che Oksana lo manda via, anche se con dispiacere. Atto II. A casa di Solocha. La strega amoreggia col Diavolo: i due ballano un hopak suonato dai demoni. La danza è interrotta da qualcuno che bussa alla porta: è il capo del villaggio e il Diavolo si nasconde in un sacco vuoto. La stessa scena si ripete poi con il maestro di scuola e con Čub. Per ultimo arriva Vakula che, senza accorgersi di nulla, si carica i quattro sacchi in spalla e si dirige verso la sua fucina. Nel villaggio intanto la gioventù celebra la vigilia di Natale. Oksana si innamora degli stivaletti nuovi di un’altra ragazza e Vakula le promette di portarle delle scarpine belle come quelle della zarina. Oksana lo prende in parola ma rincara la dose e in presenza di tutti annuncia che lo sposerà solo se riceverà in dono le scarpine che porta la zarina in persona. Il povero fabbro, stanco delle cattiverie di Oksana, decide di farla finita e se ne va portando con sé il sacco dov’è nascosto il Diavolo. I giovani aprono gli altri sacchi, e con sorpresa e risate scoprono i tre compari che c’erano dentro. Atto III. Al fiume le rusalke sotto il ghiaccio si lamentano del freddo. Vakula vuole annegarsi, quando improvvisamente dal sacco salta fuori il Diavolo, che gli chiede la sua anima in cambio di Oksana. Ma il ragazzo con una mossa rapida gli salta in groppa e gli ordina di portarlo a San Pietroburgo alla corte della zarina. Nel palazzo imperiale Vakula si unisce ad alcuni cosacchi che sono in attesa di essere ricevuti dallo zar. In una sala del palazzo viene suonata una solenne polonaise e il principe riferisce la vittoria delle truppe russe. Vakula coglie l’occasione e chiede le scarpine della zarina. Dopo il ballo gli ospiti vanno a vedere una commedia e Vakula risale in groppa al Diavolo per tornare a casa con le scarpine. Atto IV. La mattina di Natale Solocha e Oksana piangono Vakula scomparso. All’improvviso il fabbro compare e, con il sostegno dei ragazzi del villaggio, chiede a Čub la mano di Oksana, ottenendo una risposta positiva. Oksana è già pronta ad accettarlo anche senza le scarpine in regalo e così tutti festeggiano la coppia di fidanzati.

L’opera ha avuto la sua prima importante esecuzione moderna a Wexford nel 1993 nel centenario della morte del compositore, mentre in Italia è stato ancora una volta il Teatro Lirico di Cagliari a distinguersi nella proposizione di titoli meno consueti, mettendolo in scena nel 2000 con la regia di Yuri Alexandrov e la direzione orchestrale di Gennadij Roždestvenskij, allestimento che è stato ripreso nel dicembre 2014.

Qui abbiamo invece l’edizione londinese della Royal Opera House del novembre 2009 con la messa in scena di Francesca Zambello. Il balletto ha molto peso, più che nelle altre opere. Le coreografie sono di Alastair Marriott che non fa alcuno sforzo per distaccarsi da un modello tradizionalissimo, per fortuna a portare un po’ di brio ci sono le danze di quattro autentici cosacchi arruolati per l’occasione dal Royal Ballet.

La direzione di Aleksandr Polianičko, un esperto del repertorio russo, è piena di dettagli preziosi e di slanci drammatici. Il coro, pur in una lingua non sua, è del tutto apprezzabile. Tutti gli interpreti sono di madre lingua russa è ciò rende fluidi i dialoghi e espressivamente risolte le arie solistiche e i numeri d’insiemi. La voce calda e le doti sceniche di Larisa Diadkova sono perfetti per la parte della vivace strega Solokha che a un certo punto deve tener a bada ben quattro spasimanti. Il ruolo della capricciosa Oxana è vocalmente impegnativo e la pur brava Ol’ga Guriakova dal bellissimo timbro è talora un po’ in affanno. Sicuro il Vakula di Vsevolod Grivnov, un goffo Nemorino alla russa che ha il suo bel momento patetico sulla riva del fiume. Veterani dell’opera russa sono Maksim Mikhajlov (il diavolo Bes), Vladimir Matorin (Čub), Sergej Leiferkus (il Principe), Aleksandr Vasiliev (il capo villaggio) e Viačeslav Vojnarovskij (il Maestro) per i quali vivacità espressiva e presenza scenica compensano certe comprensibili stanchezze nella voce.

La messa in scena della Zambello è scenograficamente spettacolare: i disegni di Mikhail Mokrov si rifanno alle illustrazioni fiabesche con un di più di magia e i favolosi costumi di Tatiana Noginova riprendono filologicamente quelli ucraini nei loro colori primari per i contadini del villaggio mentre per le scene a corte i nobili sfoggiano abiti che non sarebbero dispiaciuti a Fornasetti.

Pelléas et Mélisande

PELLEAS ET MELISANDE, Claude Debussy, Drame lyrique en cinq actes, d’apres la piece de Maurice Maeterlinck, Direction musicale Esa-Pekka Salonen, Mise en scene Katie Mitchell, Dramaturge Martin Crimp, Decors Lizzie Clachan, Costumes Chloe Lamford, Lumiere James Farncombe, Responsable des mouvements Joseph W. Alford, Chœur Cape Town Opera Chorus, Orchestre Philharmonia Orchestra, Pregenerale au GTP le 28 juin 2016. Avec : Stephane Degout (Pelleas), Barbara Hannigan (Melisande), Laurent Naouri (Golaud), Franz Josef Selig (Arkel), Sylvie Brunet-Grupposo (Genevieve), Chloe Briot (Yniold), Thomas Dear (Le Medecin) (photo by Patrick Berger/ArtComArt)

Claude Debussy, Pelléas et Mélisande

★★★★★

Aix-en-Provence, Grand Théâtre de Provence,  7 luglio 2016

(live streaming)

Gli universi paralleli di Mélisande

Il secondo appuntamento con l’opera al Festival di Aix-en-Provence quest’anno è quello con Pelléas et Mélisande di Claude Debussy, eseguito nell’acusticamente ideale Grand Théâtre de Provence, così da poterne godere al meglio le sottigliezze timbriche portate magnificamente in luce dal maestro Esa-Pekka Salonen ritornato qui dopo la indimenticabile Elektra di Chéreau e per la terza volta sullo spartito in forma scenica. Qui è la Philharmonia Orchestra lo strumento prescelto dal direttore finlandese per dipanare una colonna sonora da film del brivido.

Altri motivi di interesse sono la messa in scena di Katie Mitchell e il nome degli interpreti principali: Stéphane Degout (Pelléas), Barbara Hannigan (Mélisande) e Laurent Naouri (Golaud). Degout e Naouri sono gli stessi interpreti dell’edizione viennese del 2009 ora su DVD e c’è poco da aggiungere per sottolineare la perfetta aderenza ai personaggi e l’eleganza e proprietà vocale dei due sommi cantanti. Golaud è un marito appassionato prima di diventare un geloso fratricida e Naouri riesce a esprimere tutte le possibili sfaccettature del suo carattere con la vocalità e la presenza scenica che riconosciamo al marito di Natalie Dessay (la indimenticata Mélisande dell’edizione citata). Non è da meno il Pelléas psicologicamente turbato di Degout, alla sua cinquantesima volta nel ruolo, inizialmente impacciato e abbottonato come un Forrest Gump, poi più audace con la cognata, ma sempre con lo sguardo fuggente e i movimenti goffi.

Chloé Briot era stata l’Yniold dell’esecuzione in forma di concerto a Torino: allora ci era sembrata eccellente e ora si conferma nel giudizio anche se qui Yniold è una ragazza anche lei un po’ turbata. Franz Josef Selig e Sylvie Brunet-Grupposo formano la coppia dei vecchi Arkel e Geneviève. Quest’ultima dà una lettura della lettera che è una lezione di stile ed espressività. Anche il ruolo del dottore ha qui in Thomas Dear una presenza inusuale.

E poi lei, Mélisande. Oltre che della voce, è l’uso del suo corpo che fa della Hannigan un’interprete unica nel panorama lirico mondiale. Movimenti danzati, contorsionismi, una presenza scenica magnetica fatta di sguardi e gesti sospesi, una vocalità prodigiosa piegata alle minime sfumature, una dizione eccellente – non si riesce a fare l’elenco di tutti gli stupefacenti talenti esibiti dal soprano canadese. (Al prossimo MiTo Settembre Musica la vedremo dirigere un’orchestra!)

La regista Katie Mitchell fa piazza pulita dei simbolismi e dei misteri non detti del testo di Maeterlinck (1) e legge la storia come una vicenda borghese passata alla lente di quel Freud che in quegli stessi anni trasformava dal suo studio viennese la Weltanschauung del nostro occidente. Non molto distante è anche lo spirito di Lewis Carroll: non sappiamo mai cosa si trovi al di là di una porta e a un certo punto per uscire da una stanza i personaggi entrano in un mobile, proprio come Alice!

La scena si apre su una camera da letto: Mélisande è vestita da sposa, smarrita, in mano un fazzoletto insanguinato e si assopisce sul letto. Poi la seguiamo nel bagno attiguo e quando torniamo con lei nella camera questa è invasa da un albero frondoso mentre erbe crescono dal pavimento sconnesso. La donna rivive in sogno gli ultimi accadimenti, l’incontro di Golaud nella foresta, il matrimonio per riconoscenza, il rapporto con Pelléas.

Come nella Alcina dello scorso anno qui a Aix o nella Lucia di Lammermoor di Londra e prima ancora in Written on Skin, sempre ad Aix, la Mitchell divide la scena in vari ambienti in più livelli. Qui non sono quelli di uno «château très vieux et très sombre”, bensì quelli di una villa borghese anni ’50 che viene in parte invasa dalla natura esterna. In questo allestimento la fluidità dei cambiamenti di scena ha un che di onirico, come quando in sogno ci sembra naturale che un luogo si trasformi in un altro. Anche i ralenti servono a sostenere questa atmosfera non reale la cui “logica” è alla base dello strepitoso lavoro fatto dalla scenografa Lizzie Clachan. Ma chapeau anche alle maestranze del teatro che l’hanno realizzato con trasformazioni rapidissime, con il montaggio di un vero e proprio puzzle. Si tratta di un considerevole gruppo di tecnici dietro le quinte che alla fine vengono alla ribalta per ricevere dal pubblico i meritati applausi.

Mélisande, il personaggio al centro della vicenda, è sempre presente (è il suo sogno!) anche quando il libretto non la prevede e ha un alter ego muto che rappresenta la moglie desiderata da Golaud, molto distante dalla turbata e sempre smarrita Mélisande. Si può dire che noi pubblico vediamo concretizzati i desideri e le paure dei personaggi. Sulla scena convivono tre livelli diversi, tre universi paralleli – il vissuto, il sogno, il ricordo – e la logica temporale è infranta: la figlia che nasce alla fine è già presente da subito, la donna è a momenti incinta in altri no e così via per altre incoerenze tipiche dei sogni.

Innumerevoli quindi sono i momenti spiazzanti dell’allestimento, come nella scena dei capelli dove non abbiamo torri e chiari di luna, ma Mélisande sola che allatta la sua bambina mentre le canta come una ninna nanna: «Mes longs cheveux descendent jusqu’au seuil de la tour; | Mes cheveux vous attendent tout le long de la tour». Qui la donna mette a nudo il suo subconscio e l’arrivo successivo di Pelléas è allo stesso tempo desiderato e temuto. I suoi capelli erano stati motivo di sensuale trasalimento per i due uomini, ma anche i capelli di Geneviève a un certo punto avevano turbato Mélisande stessa.

Seppure lontana da una lettura “letterale” del libretto (ma nel caso di Maeterlinck quale sarebbe?), quella proposta dalla Mitchell non è lontana dallo spirito del testo. Lo stanno a testimoniare i muri umidi e il verde che dall’esterno invade gli interni. Non manca certo l’acqua nell’allestimento di quest’opera così “liquida” (2): la troviamo ad esempio in fondo alla piscina abbandonata che serve come grotta marina e come «fontaine des aveugles», ma soprattutto nella musica, nei suoni trascoloranti di questa partitura unica nel suo genere. I fremiti della natura qui sono piuttosto fremiti dell’anima e il dramma simbolista assume a tratti le apparenze di un thriller con i suoi silenzi pieni di tensione. Con questa Mélisande non siamo molto lontani dalle protagoniste dei film di Hitchcock, la seconda moglie (Rebecca), Marnie, Madeleine (Vertigo, La donna che visse due volte) – e anche qui ci sono scale… Spingono verso questa lettura anche certe inquadrature “filmiche” dello spettacolo.

(1) L’autore ha affermato una volta, probabilmente per depistare i suoi lettori, che Mélisande è una delle donne fuggite da Barbablù.

(2) La parola eau (acqua) ricorre venti volte nel libretto, mer (mare) otto volte.

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Il trionfo del Tempo e del Disinganno

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Georg Friedrich Händel, Il trionfo del Tempo  e del Disinganno

★★★★☆

Aix-en-Provence, Théâtre de l’Archevêché, 4 luglio 2016

(live streaming)

«Dunque si prendan l’armi e si vedrà quali più forza avranno: il Piacer, la Bellezza, il Tempo o il Disinganno…»

Sulla sonata introduttiva immagini di giovani che si dimenano ballando, si scambiano pastiglie di ecstasy, finiscono in ospedale o addirittura muoiono, danno subito il tono di quello che Krzysztof Warlikowski vuole dirci mettendo in scena questo oratorio di Händel. Assieme alla drammaturgia di Christian Longchamp ci racconta che Bellezza è una ragazza che «just wants to have fun» e in discoteca incontra e si innamora di un ragazzo, quello che morirà al pronto soccorso. Appoggiata al tronco di un albero, il trucco sfatto, i capelli alla Amy Winehouse, giubbotto di pelle sulla sottoveste, Bellezza canta «Fido specchio in te vagheggio | lo splendor degl’anni miei […] sempre bella io non sarò». Lo specchio è quello di un portacipria e siamo nel giardinetto di una clinica per il recupero dei drogati. Piacere è il fratello un po’ trucido e anche pusher, mentre Tempo e Disinganno sono i genitori che sfiniscono i figli ripetendo che la stagione della giovinezza non durerà per sempre e che l’anima vale più del corpo eccetera eccetera. Il contrasto generazionale è quello che vivono tutte le famiglie ed è ben espresso dal convulso quartetto della seconda parte, intonato come una discussione nervosa a tavola:

Bellezza Voglio Tempo per risolvere…
Tempo Teco è il Tempo…
Disinganno ed il Consiglio…
Piacere ma il Consiglio è il tuo dolor.
Tempo Pria ch’io ti converta in polvere, segui il ben…
Disinganno fuggi il periglio…
Piacere Tempo avrà per cangiar cor.

Alla fine la conversione della Bellezza non porta proprio all’esaltazione mistica prevista nel libretto («Tu del Ciel ministro eletto | non vedrai più nel mio petto | voglia infida, o vano ardor»), giacché la ragazza si taglia invece le vene con un frammento di quello specchio che aveva rotto.

Al termine della prima parte il regista proietta uno spezzone del film Ghost Dance (1983) di McMullen in cui il filosofo Jacques Derrida afferma che il cinema è l’arte che fa ritornare i fantasmi, forse quelli delle pallide donne che siedono sulle poltrone delle due gradinate da cinematografo che formano la scenografia dello spettacolo e che sembrano attendere l’arrivo di un coro, che in questa versione non c’è. In mezzo uno stretto ambiente di vetro in cui il ragazzo morto continua le sue contorsioni pelviche al ritmo della musica. Sulla parete di vetro si riflette (che sia un effetto voluto non si sa) l’immagine di Emmanuelle Haïm che dirige il Concert d’Astrée. L’inusuale formato del palco dell’Archevêché (largo più del doppio dell’altezza) sembra aver suggerito al regista una dimensione cinematografica che ritroviamo anche nei video proiettati in fondo alla scenografia della fidata Malgorzata Szczeniak.

Il testo de Il trionfo del Tempio e del Disinganno (il titolo originale era La Bellezza ravveduta nel trionfo del Tempo e del Disinganno) è del cardinale Benedetto Pamphilj. Vi è contrapposta la falsità dei piaceri terreni alla verità della vita eterna, una disputa morale che è quanto di meno sia rappresentabile essendo i personaggi figure allegoriche e non esistendo una vicenda. Eppure, già solo in Italia questo oratorio è stato messo in scena da Pizzi nel 2009 a Macerata e da Flimm alla Scala quest’anno, per non parlare di quello sconcertante di Bieito a Stoccarda nel 2011. Vero è che la musica di Händel ha in sé una tale teatralità che è diventata prassi comune allestire i suoi oratorii con scene e costumi.

Scritto nel 1707 col numero d’opus HWV 46a da un ventiduenne Händel, il lavoro viene presentato a Roma l’anno seguente. Trent’anni dopo il compositore rimette mano alla partitura con alcune aggiunte e cambia il titolo in Il trionfo del Tempo e della Verità, HWV 46b. Una terza versione è quella del 1757 ancora ampliata e con il testo tradotto in inglese così come il titolo, The Triumph of Time and Truth, HWV 71.

Un quartetto di interpreti eccezionali è tra gli atout dello spettacolo del Festival di Aix-en-Provence. Sara Mingardo riprende qui dopo Milano il ruolo di Disinganno e oltre alla sontuosità della voce si ammira qui per una volta la sua presenza scenica non sempre valorizzata dai registi. Michael Spyres porta nell’opera barocca la sua perizia belcantistica e non c’è difficoltà nel ruolo del Tempo che non venga risolta con facilità ed eleganza dal tenore americano. Peccato che gli sia stata tagliata una delle sue quattro arie. Nessuna sorpresa dal Piacere di Franco Fagioli (a Milano, ovviamente, il ruolo era un soprano en travesti) che non eccede in acrobazie vocali nelle sue arie, anzi, «Lascia la spina | cogli la rosa» (che sarà riutilizzata come l’aria di Almirena «Lascia ch’io pianga | mia crude sorte» nel Rinaldo del 1711) ha una sua severa compostezza qui. È in «Come nembo che fugge dal vento» che il controtenore argentino inanella i suoi prodigiosi virtuosismi.

Dei nomi dei quattro interpreti quello di Bellezza era il meno altisonante, ma Sabine Devieilhe si è rivelata un soprano sorprendente, dal timbro sottile, ma dagli acuti – e sopracuti – precisi e poderosi (sarà l’erede della Dessay?) e con una dolcezza d’emissione nel registro medio che ricorda Danielle de Niese. Perfetta la presenza scenica e sappiamo quanto richieda il regista polacco. Non una sorpresa, comunque, dopo la sua eccellente prova nel Mitridate parigino.

Intensa ma misurata la direzione di Emmanuelle Haïm che conosce bene la partitura avendola già registrata con Natalie Dessay, Sonia Prina, Ann Hallenberg e Pavol Breslik e in seguito con Sandrine Piau, Marie-Nicole Lemieux, Philippe Jaroussky, Topi Lehtipuu.

Dopo il Festival di Aix lo spettacolo sarà ripreso l’inverno prossimo a Lille e a Caen.

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La gatta Cenerentola

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★★★★☆

Esattamente 40 anni fa

Il 7 luglio 1976 al Festival dei due Mondi di Spoleto, alla sua XIX edizione, la Nuova Compagnia di Canto Popolare metteva in scena il lavoro di Roberto de Simone tratto dalla fiaba La gatta cennerentola, “tratteniemento siesto” della prima giornata de Lo cunto de li cunti (1634), “Pentamerone” scritto in napoletano da Giambattista Basile. La prima raccolta a stampa di fiabe del mondo occidentale, 50 anni prima di Perrault e 180 anni prima dei fratelli Grimm.

Come la Zezolla del Basile, anche nell’opera di de Simone Cenerentola è un personaggio completamente diverso da quello edulcorato cui siamo abituati, visto che «’nmezzata de la maiestra ad accidere la matreia e credenno co farele avere lo patre pe marito d’essere tenuta cara, è posta a la cucina”, istigata cioè dalla sua maestra di ricamo uccide la matrigna così che il padre possa sposare quella, che però, irriconoscente, la relega in cucina come una gatta, anche se poi «pe vertute de le fate, dapò varie fortune se guadagna no re pe marito». In de Simone la maestra non c’è e Cenerentola cerca, senza riuscirci, di far fuori la matrigna vedova di sette mariti e madre di sei sorellastre invidiose. Il compositore/librettista aggiunge diversi personaggi non presenti nella fiaba, come le lavandaie, il munaciello o i femmenielli.

Cenerentola vive con la matrigna e le sue sei sorellastre. La matrigna si è sposata ed è rimasta vedova sette volte e ha avuto una figlia da ogni marito tranne che dall’ultimo, che già era padre di Cenerentola. Dato che Cenerentola è l’unica a essere sua figliastra, la matrigna la tratta da serva pur vantandosi di averle sempre dato tutto il necessario. Cenerentola stanca di essere maltrattata cerca di uccidere la matrigna schiacciandole la testa nel baule, ma non ci riesce e nega di averci provato. La matrigna e le sue figlie si preparano per la festa che quella sera ci sarà al palazzo del re e il loro cattivo carattere rende le cose impossibili a Cenerentola, alla parrucchiera e alla sarta. La matrigna è sicura che la sua figlia maggiore sarà tanto bella quella sera da far innamorare il re e diventare regina, anche se in realtà nessuna delle sue figlie può dirsi minimamente graziosa (sono interpretate tutte da uomini) pur essendo tutte superbe e vanitose. Cenerentola vuole andare al ballo, ma viene derisa dalla matrigna e dalla maggiore delle sorelle. Dopo che se ne sono andate tutte Cenerentola si mette a pregare e viene in suo aiuto il monaciello, spirito invisibile che la spinge a non abbandonare il proposito di andare al ballo e che le suggerisce di prendere la pianta di datteri che il padre le aveva portato dalla Sardegna: la pianta gli era stata data da una fata e una colomba ogni notte controlla come Cenerentola se ne prende cura. Recitando la formula magica alla pianta Cenerentola potrà andare al ballo. La festa al palazzo comincia, e arriva anche Cenerentola. Balla con il re che si innamora di lei, ma lei se ne va senza rivelare la sua identità. Questo si ripete per altre due sere, e ogni volta Cenerentola appare con abiti sempre più sontuosi. La terza sera Cenerentola riesce a lasciare il ballo nonostante i servitori del re cerchino di impedirglielo, ma nello scappare perde uno dei suoi stivaletti d’oro. Il re vuole ritrovare la presunta principessa, e proclama che sposerà la ragazza che riuscirà a calzare lo stivaletto. La faccenda scatena le chiacchiere e la curiosità di tutti, ma Cenerentola finge di non sapere niente quando altri ne parlano. La gente di Napoli, che si ritrova governata da una corte straniera, sarebbe felice che la futura regina fosse una di loro. Quando lo stivaletto da provare arriva a casa di Cenerentola si scatena una lite tra la matrigna (che dichiara che è stata sua figlia a perdere lo stivaletto) e le lavandaie che la disprezzano. Cenerentola invece non vuole neanche scendere a provarla, ma le lavandaie insistono: alla fine lo stivaletto le calza alla perfezione, e Cenerentola viene proclamata regina della città.

Da un punto di vista musicale La gatta Cenerentola è un sapiente impasto di musica popolare (villanelle, moresche, tammurriate) e musica colta, ma è anche un compendio di culture di tempi e luoghi diversissimi – che cosa è infatti l’iniziale «jesce sole» se non un rāga indiano con le sue ipnotiche ripetizioni infinitesimamente variate?

Il testo è in lingua napoletana, un napoletano quasi senza tempo, una lingua che in certi strati della popolazione è rimasta immutata nei secoli. La grande protagonista è la città di Napoli, città figliastra, vittima del potere di una matrigna perversa e di occupanti stranieri. Una città «addo’ ‘o sabbato ponno asci’ tre nummere | e chi tene ‘mmano ‘a rota ‘e stu juoco | te fa credere ‘nfino ca si stato furtunato…».

De Simone con la sua Nuova Compagnia di Canto Popolare non solo aveva rinnovato gli stilemi della canzone napoletana, ma da profondo conoscitore del melodramma napoletano del ‘700  e dell’opera buffa aveva fatto di questo suo lavoro un unicum che non aveva e non avrebbe avuto uguali. «Quando cominciai a pensare a La gatta Cenerentola pensai spontaneamente ad un melodramma: un melodramma nuovo e antico nello stesso tempo come nuove e antiche sono le favole nel momento in cui si raccontano. Un melodramma come favola dove si canta per parlare e si parla per cantare o come favola di un melodramma dove tutti capiscono anche ciò che non si capisce solo a parole. E allora quali parole da rivestire di suoni o suoni da rivestire di parole magari senza parole? Quelle di un modo di parlare diverso da quello usato per vendere carne in scatola e perciò quelle di un mondo diverso dove tutte le lingue sono una e le parole e le frasi sono le esperienze di una storia di paure, di amore e di odio, di violenze fatte e subite allo stesso modo da tutti. Quelle di un altro modo di parlare, non con la grammatica e il vocabolario, ma con gli oggetti del lavoro di tutti i giorni, con i gesti ripetuti dalle stesse persone per mille anni così come nascere, fare l’amore, morire, nel senso di una gioia, di una paura, di una maledizione, di una fatica o di un gioco come il sole e la luna fanno, hanno fatto e faranno». (Roberto de Simone)

La prima versione si avvaleva della presenza di attori/cantanti come Peppe Barra, Isa Danieli, Concetta Barra e tanti altri riuniti insieme a creare un’unica e stupefacente coralità con l’orchestra diretta da Antonio Sinagra. Le scene di Mauro Carosi riproducevano il bellissimo Palazzo dello Spagnuolo sito ai Vergini, zona emblematica della città, mentre i sontuosi costumi di Odette Nicoletti ricostruivano con fantasia l’epoca. L’edizione fu pubblicata in LP e successivamente in CD. Video di questa edizione non sono mai stati pubblicati.

Negli anni seguenti l’opera è stata riproposta più volte, con un cast rinnovato e qualche variante al testo. Nessuna però ha ricreato l’impatto e il fragoroso successo dell’originale. L’edizione curata dalla compagnia Media Aetas con il soprano Maria Grazia Schiavo e l’attore Rino Marcelli nel ruolo della matrigna e diretta dal maestro Domenico Virgili, è stata proposta nel 1997 ed è stata pubblicata in questo video con l’invasiva regia  televisiva di Rita Ortese de Stefano. Non ha la fresca immediatezza della rappresentazione dal vivo, ma è l’unica testimonianza video disponibile di questo importante lavoro.

TEATRO CIVICO

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Teatro Civico

Tortona (1838)

450 posti

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A Tortona stagioni teatrali regolari si svolgevano almeno dal 1802, quando, sull’onda della confisca napoleonica dei beni religiosi, era stata adattata a teatro la chiesa di San Simone. L’inadeguatezza di tale sede aveva spinto gli amministratori a cercarne una più adeguata e a sostenere senza esitazioni le spese necessarie: tra l’altro, si era resa disponibile un’ampia area di edifici ormai fatiscenti in pieno centro storico, in cui si progettava di insediare, accanto al teatro, l’archivio notarile e l’ufficio del pubblico registro in un centro civico di ampio respiro. Di queste opere però solo il teatro fu effettivamente portato a termine e gli annessi furono usati anni più tardi come sede del Municipio.

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Il Teatro Civico fu realizzato in elegante e sobrio stile neoclassico su progetto sviluppato dall’ingegnere tortonese Pietro Pernigotti. L’ambizioso progetto prevedeva tre ordini di palchi e una capienza di 450 persone e si ispirava al Teatro Argentina di Roma. I lavori, iniziati nel 1836, furono appena rallentati per l’epidemia di colera dello stesso anno. Il 2 maggio del 1838 il sipario si aprì sul Teatro Comunale con una recita di Norma seguita dal balletto La scimmia riconoscente. Fu un successo soprattutto per l’edificio e infatti Pernigotti venne sommerso dagli applausi quando finalmente uscì sul palco. L’interno  è decorato con stucchi ed affreschi. Opera del pittore-scenografo Luigi Vacca (1778-1854) di Torino sono il sipario rappresentante il mito di Orfeo e il medaglione centrale del soffitto raffigurante le muse ispiratrici delle arti la Musica, la Poesia e la Pittura.

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Da allora la storia del Civico rimase legata alla lirica fino alla chiusura, con un’interruzione per i turbolenti avvenimenti storici del 1848 e 1849.
I lavori di ammodernamento si susseguivano, in buona parte sostenuti da donatori privati: nel 1840 Giacomo Martinetti fornì il teatro di una grande stufa mentre l’illuminazione fu rinnovata da Giovanni Bonassola di Milano, che nel 1845 comprò un nuovo lampadario. Nel 1847 invece il Comune affrontò il primo restauro, consolidando le strutture di copertura che davano segni di cedimento.

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Anche la prosa trovava spazio al Civico, per lo meno a partire dal 1841, quando la compagnia Goldoni organizzò una stagione di 24 spettacoli. Ma mai si raggiunsero i fasti toccati dalla lirica con il Mefistofele di Boito del 1915 o con la Traviata del 1921. Lodato dai cantanti per la sua perfetta acustica, il Civico scampò alla sorte toccata a molti altri teatri negli anni ’30 del secolo scorso e non divenne sala cinematografica. Le sue attività furono però interrotte dalla guerra: dopo l’ultima stagione regolare, svoltasi nel 1939, il sipario si alzò solo saltuariamente negli anni ’40; nel 1952 il teatro fu dichiarato inagibile e chiuso. Solo nel 1983, dopo una nuova perizia, si diede il via ai lavori di restauro e venne riaperto il 2 maggio del 1990.

In Parenthesis

In Parenthesis_ WNO, COMPOSER; Iain Bell, Private John Ball; Andrew Bidlack, Bard of Brittannia_HQ Officer; Peter Coleman_Wright, Bard of Germania_Alice the Barmaid_The Queen of the Woods; Alexandra Deshorties, Lieutenant Jenkins; George Humphreys, Lance Corporal Lewis; Marcus Farnsworth, Sergeant Snell; Mark Le Brocq, Dai Greatcoat; Donald Maxwell, The Marne Sergeant ;Graham Clark, Cast & Creative Conductor; Carlo Rizzi, Director; David Pountney, Designer; Robert Innes Hopkins, Lighting Designer; Malcolm Rippeth,

Iain Bell, In Parenthesis

★★★☆☆

Cardiff, Donald Gordon Theatre, 13 maggio 2016

(video streaming)

L’opera esce dalle trincee

Per la seconda volta nella stessa stagione la Welsh National Opera presenta una prima mondiale di qualità musicale e di richiamo per un pubblico non guastato dalla perenne riproposta dei soliti prevedibili titoli come è quello italiano. Nella sala del Donald Gordon Theatre del Wales Millennium Center della città gallese la produzione di In Parenthesis di Iain Bell commuove gli spettatori nel centenario della Prima Guerra Mondiale.

Commissionato dalla WNO per i suoi 70 anni di attività, In Parenthesis è basato sull’omonimo libro di David Jones, sua opera prima del 1937. Il titolo si riferisce alle parentesi che racchiudono il periodo bellico 1914-1918. I librettisti David Antrobus ed Emma Jenkins scrivono un testo che rispetta l’originale commistione tra la reale esperienza di guerra dell’autore sul fronte occidentale e l’antico e poetico regno delle fate dell’isola britannica. I 263 dispersi del battaglione di Jones nella battaglia del bosco di Mametz del luglio 1916 sono ricordati in un’installazione artistica appena fuori del teatro dove viene rappresentata questa prima.

Introduzione. Britannia e Germania contemplano gli uomini, «the many men so beautiful» che partono per la guerra. Inghilterra, dicembre 1915. John Ball, un giovane soldato dei Royal Welch Fusiliers, si unisce al suo plotone dopo essere stato rimproverato dal sergente Snell per essere in ritardo. Sotto la pioggia Ball e i suoi commilitoni arrivano alla caserma di Southampton per imbarcarsi. Francia, dicembre 1915. Dopo un periodo di calma, la pace della campagna francese è squassata dall’esplosione di una bomba, prima esperienza della violenza bellica per gli uomini che fanno poi la conoscenza del vecchio sergente lì dal tempo della Marne coperto di fango. La mattina del Natale 1915. All’alba la tensione si allenta quando si sente un soldato tedesco intonare un canto cui il plotone risponde in inglese. Mentre consumano le loro razioni, i soldati più anziani, Dai Greatcoat e il vecchio sergente scherzano su chi dei due ha combattuto più battaglie. Li interrompe una pioggia di proiettili. La cantina dei quartieri militati, giugno 1916. I militari cantano una canzone popolare nella loro lingua e si godono le consumazioni portate dalla cameriera Alice, ma Ball ha presentimenti di morte. Gli uomini ricevono l’ordine di spostarsi a sud quella sera stessa. Mentre cantano marciando il coro ricorda le parole dell’antica battaglia dell’epica gallese Y Gododdin. Sulla Somme, luglio 1916. Dopo un breve periodo di calma Ball e i suoi compagni ricevono l’ordine di attaccare il bosco. Durante un bombardamento un proiettile uccide Lewis. All’alba si sente il coro delle ninfe dalla foresta. Nell’avanzata Jenkins viene colpito a morte e gli uomini entrano in ordine sparso nel fitto della vegetazione. La regina della foresta e le sue ninfe seminano morte e distruzione tra i militari. Nel bosco di Mametz, un luogo di bellezza inaspettata, uno ad uno tutti i suoi compagni cadono lasciandolo solo sopravvissuto. Colpito alla gamba deve abbandonare il fucile. La regina della foresta e le ninfe ornano i morti di fiori e foglie in un atto di rigenerazione e redenzione cantando il Salve Regina. L’opera termina unendo in maniera piuttosto incongrua l’inno mariano e il panteismo naturalistico.

Il giovane Bell, compositore classe 1980, non nasconde di avere avuto Britten come ispiratore, restando comunque al di sotto del maestro soprattutto nella vocalità più che nella qualità dell’orchestrazione ora lirica, ora folclorica, ora militaristica. Grande spazio è dato ai cori: maschile quello dei soldati, femminile quello delle ninfe e del coro della memoria.

Se la musica non ha l’impatto emotivo che richiederebbe il tema, l’impegno degli artisti è comunque encomiabile. Carlo Rizzi in orchestra e David Pountney regista e direttore artistico della WNO, sono fautori di una produzione che non lascia indifferenti.

Il talentuoso e giovane tenore americano Andrew Bidlack è il soldato Ball, mentre le vecchie glorie Graham Clark e Donald Maxwell danno corpo ai due anziani militari.

Particolarmente ricca di interessanti materiali la presentazione su Opera Platform.

Chérubin

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★★★★☆

Cherubino diventa grande

Il Teatro Lirico di Cagliari ha spesso fatto opera meritoria nell’allestire titoli quasi sconosciuti, come questo Chérubin, opera poco frequentata di un Massenet maturo che la presenta il 23 maggio 1905 a Monte Carlo. Sono tre atti su testo di Francis de Croisset e Henri Caïn dalla pièce teatrale omonima del Croisset, liberamente sviluppati partendo dalla vicenda de Le nozze di Figaro. Ma attenzione, qui non siamo nella parte finale della trilogia di Beaumarchais, quella Mère coupable con l’amore disperato di Cherubino per la contessa che gli si è concessa una volta e dalla quale aspetta un figlio. No, qui si narrano i giorni vissuti dal paggio al suo compimento di 17 anni quando si affranca dalla innocente fanciullezza per acquistare la libertà di un adulto, un piccolo Don Giovanni, dice alla fine il tutore che lo conosce bene. Quella di Chérubin è una vicenda esile, quasi da operetta, che il pubblico e la critica del tempo non apprezzarono particolarmente. Entusiasta fu invece Fauré che ne ammirò la lirica scrittura e la ricercata armonia.

Atto I. Dopo un vivace preludio che avrebbe potuto scrivere Chabrier, veniamo a sapere che Cherubino, il giovane paggio del conte di Almaviva, sta per ricevere la sua prima promozione nell’esercito. Il Filosofo, precettore di Cherubino, annuncia che a seguito di ciò vi saranno dei festeggiamenti e che sarà invitata la prima ballerina dell’Opera, la spagnola Ensoleillad, cortigiana d’alto bordo e amante del re. Nina confessa che è innamorata del giovane il quale arriva tutto eccitato per la libertà di cui ora può godere: «Je suis gris! Je suis ivre! C’est le soleil qui m’a grisé, je suis si content de vivre Que je pourrais… vous embrasser. J’ai dix-sept ans, cela me grise, J’ai dix-sept ans! Plus de tuteur! la liberté!». Cherubino riesce a passare segretamente una lettera d’amore alla Contessa confessando al tutore che è contemporaneamente innamorato della Contessa e della Ensoleillad. All’improvviso arriva il Conte che ha scoperto la lettera di Cherubino e lo minaccia di morte. Nina salva il paggio recitando a memoria la lettera e dichiarando che era stata indirizzata a lei. Appagato il Conte torna al banchetto.
Atto II. Un vivace preludio orchestrale dal colore inconfondibilmente spagnoleggiante con largo uso di castagnette ci introduce a una locanda non lontana in cui dei viaggiatori, tra cui la Contessa e la Baronessa, si lamentano con il locandiere sulla assegnazione delle camere. L’arrivo di Cherubino con degli ufficiali scatena presto un duello a causa delle avances che il giovane festeggiato fa alla moglie del capitano Ricardo. Neanche l’arrivo della Ensoleillad fa desistere i duellanti e solo il Filosofo riesce a ricondurli a miti propositi. Partiti i militari, Cherubino corteggia la ballerina sotto il suo balcone che affianca sia quello della Contessa sia della Baronessa. Ciascuna delle tre donne pensa che la serenata le sia rivolta e tutte e tre lasciano un pegno al giovane. I mariti e l’amante della ballerina scoprono la tresca e sfidano a duello Cherubino.
Atto III. Il giovane si prepara al triplice duello e scrive le sue ultime volontà mentre il tutore gli impartisce una lezione sulle tecniche di combattimento. Arrivano la Contessa e la Baronessa che vogliono scoprire a chi fosse indirizzata la serenata della notte precedente. Cherubino non può far altro che confessare che fosse rivolta alla ballerina spagnola e così i due mariti ritirano i duelli programmati, ma a Cherubino si spezza il cuore quando vede l’Ensoleillad lasciare la locanda facendo finta di non conoscerlo. Nina giunge annunciando che si ritirerà in convento visto che il suo amore non viene corrisposto. Cherubino capisce il suo errore e si rende conto che Nina è la donna giusta per lui. A questo punto anche il Duca annulla il duello.

Nelle sue 25 opere pubblicate Massenet ha esplorato tutti i generi possibili: opéra, opéra-comique, opérette, drame lyrique, opéra romanesque, comédie lyrique, épisode lyrique, conte de fées, conte lyrique, drame musical, comédie héroïque, opéra tragique, farce musicale, opéra légendaire e con questa la comédie chantée.

Per quanto riguardo il soggetto e il suo trattamento musicale non si può dire che Chérubin sia incongruo con i tempi: il 1905 è lo stesso anno in cui va in scena la Salome di Richard Strauss, ma anche La vedova allegra. E l’anno prima c’erano state Madama Butterfly e Jenůfa. E poco prima Pelléas et Mélisande. I primi anni del XX secolo sono un periodo eclettico in cui ancora convivono le propaggini del tardo romanticismo ottocentesco con i fermenti inquieti del nuovo secolo. Per ritrovare poi la stessa ambientazione settecentesca si dovrà aspettare il 1911 del Rosenkavalier e anche se qui in Massenet non c’è quella struggente nostalgia che ritroviamo nel capolavoro straussiano, il personaggio di Chérubin è comunque connotato da una leggera malinconia per il rimpianto di una fanciullezza perduta. La brillantezza della partitura cela in alcuni punti una tristezza che il brioso libretto non riesce a cancellare del tutto, come nella scena del testamento. Il lavoro rappresenta per Massenet quel ritorno al passato e al culto del classico che non poteva non fare riferimento a quel Mozart di cui all’epoca si venivano a riscoprire i capolavori.

A Cagliari nel gennaio 2006 Emmanuel Villaume dirige con esperienza questo lavoro francese non facile in cui il palcoscenico è spesso sovraffollato di ciarlieri personaggi. L’allestimento è curato da Paul Curran per regia e coreografie (indimenticabile la sua Cenerentola genovese) e Paul Edwards per le scenografie e i costumi. Quello che si vede in scena è un episodio fiabesco, se non onirico, con facciate e scale sghembe, quasi fotogrammi da film surrealista a colori, con costumi mirabolanti che partono da Erté per arrivare a un ironico e sfrenato kitsch. Le piume chilometriche in testa bilanciano le imponenti crinoline femminili, mentre gli uomini sfoggiano abiti variopinti e parrucche sproporzionate.

Ben definita è la distribuzione delle voci. Chérubin, “soprano lyrique (petite Falcon)”, qui è Michelle Breedt, vocalmente a posto ma scenicamente non molto convincente come paggio diciassettenne. L’Ensoleillad, la cui parte fu scritta originariamente per la Cavalieri, è il soprano Parizia Ciofi: ineccepibile nelle sue impervie agilità, è la brava prima della classa che fa molto bene quello che fa, come sempre quasi perfetta e come sempre senza particolare fascino pur arrivando su un cigno come Lohengrin e partendo su una decappottabile d’epoca. Nina è “soprano de sentiment”, una Carmela Remigio per una volta più convincente del solito. Philosophe, “basse cantante ou baryton un peu grave”, è un Giorgio Surjian disinvolto seppur con qualche stanchezza nella voce. Il Duca, “ténor trial (comique)”, è uno spigliato Bruno Lazzaretti (un Capitan Uncino in abito a motivi animalier) che neanche viene citato sulla copertina della confezione.