Příhody lišky Bystroušky (La piccola volpe astuta)

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Leoš Janáček, Příhody lišky Bystroušky (La piccola volpe astuta)

★★★★★

Torino, Teatro Regio, 20 gennaio 2016

Favola per anziani immalinconiti

Arriva a Torino il ‘ciclo Janáček’ che Carsen aveva iniziato all’Opera delle Fiandre (Jenůfa, La piccola volpe astuta, Káťa Kabanová) e proseguito poi all’Opera del Reno con l’aggiunta de Věc Makropulos e Da una casa di morti. Qui è la volta della poetica La piccola volpe astuta coprodotta con il teatro di Strasburgo dove è andata in scena nel febbraio del 2013.

Il compositore moravo l’aveva scritta nel 1924 con il rimpianto nel cuore dell’amore non corrisposto per Kamila Stösslová, una donna più giovane di lui di 38 anni. La passione era nata nel 1917, quantunque fossero allora entrambi sposati. Della loro lunga e intensa corrispondenza epistolare (quasi ottocento lettere) si ha un’eco nel secondo quartetto per archi  sottotitolato Listy důvěrné (Lettere intime) di quasi dieci anni successivo al loro primo incontro. «Sei dietro ogni nota […] Il profumo del tuo corpo, lo splendore dei tuoi baci… in realtà dei miei. Quelle mie note ti baciano tutta. Ti chiamano con passione». Questi sono i termini con cui si esprimeva il quasi settantenne compositore mentre bruciava al fuoco di una passione che chiameremmo senile, ma che per lui era vera, vitale e sincera.

Nel personaggio vivace e nello stesso tempo sensuale della volpacchiotta si può trovare quella esuberanza esistenziale che il musicista vedeva nella sua amata Kamila, così come la nostalgia del passare del tempo nella semplice storia in cui l’amore è fonte di rinnovamento nel ciclo della vita. La figura della volpe è l’emblema della femminilità (l’altra figura femminile è quella di Terynka, che ha messo in subbuglio i cuori maschili del villaggio e che continuiamo a sentir nominare, ma che non vedremo mai) in un lavoro tutto pervaso di erotismo panico: da subito sappiamo delle fatiche amorose del guardacaccia e ancora più in là nel libretto ci saranno maliziose allusioni a una sessualità disinibita ancorché velata dall’ironia. La vicenda e altre note sulla sua composizione si possono trovare nella recensione dei DVD dell’opera.

Tra i due aspetti, quello realistico e quello favolistico, Carsen predilige il primo: qui non ci sono carinerie alla Walt Disney, gli animali hanno fattezze decisamente umane con solo qualche riferimento animalesco – naturalistico nel colore fulvo delle parrucche e delle felpe delle volpi o umoristico nei bigodini, nelle maschere al cetriolo e nelle tutine piumose delle galline e nel machismo del gallo – soprattutto nei movimenti e nella gestualità: tante annusate, grattate, minzioni e copulazioni. Gli animali non sono molto diversificati (non ci sono grilli, libellule, ranocchi ecc.), ma per le creature dell’aria che discendono dall’alto sono utilizzati i sempre teatralmente efficaci cordami. Aboliti i movimenti coreografici (spesso stucchevoli in altre produzioni), qui rimane soltanto la festa del matrimonio delle due volpe con l’allegro kamasutra di tutte le bestiole.

A quindici anni dalla sua prima realizzazione (Anversa, 2001) Carsen è arrivato ad un’essenzialità estrema: la scena (di Gideon Davey) è vuota e il solo riferimento alla natura è quello dell’avvicendarsi delle stagioni sul terreno accidentato – foglie morte, neve, erba verde; un po’ come nel suo indimenticabile allestimento de Les Boréades di Rameau. Di sorprendente semplicità ma geniale il “disgelo” dell’atto terzo. Tutti i cambiamenti di scena sono realizzati unicamente con il sapiente gioco di luci laterali a vista, di Carsen stesso e di Peter Van Praet. Come sempre eccelsa la direzione attoriale con gestualità appropriate e intrise d’ironia, in equilibrio tra sensibilità umana e selvaticità animale. Sullo stesso livello il gioco coreografico-acrobatico di Philippe Giraudeau. La tersa regia di Carsen rende la storia perfettamente comprensibile, nonostante la lingua, e non fa sentire per nulla la mancanza di tutte le altre bestiole che si affollano nel libretto di Rudolf Těsnohlídek.

Le voci, prevalentemente maschili per gli umani e femminili invece per gli animali, sono di cantanti di madre lingua ceca, l’unica soluzione possibile per salvaguardare la musicalità così legata all’inflessione della parola ricercata da Janáček in tutta la sua opera. Gli interpreti non hanno i nomi dello star system lirico internazionale, ma apportano la loro sicura professionalità in quest’opera eminentemente corale.

Jan Latham-Koenig, che ha anche vivacemente e sapientemente presentato in sala Puccini l’opera e la Messa Glagolitica che dirigerà nel prossimo concerto della Filarmonica del Regio, si è dimostrato il profondo conoscitore della musica di Janáček cui ha dedicato molte ricerche sul campo. La sua lettura è precisa, ma sa abbandonarsi a quegli struggenti momenti lirici che il vecchio Leoš sapeva così bene far rivivere in musica. Non sempre inappuntabile la prestazione dell’orchestra e in alcuni momenti il suono ha sovrastato le voci in scena. Particolarmente e giustamente applauditi Lucie Silkenová e Svatopluk Sem (la volpe e il guardacaccia).

Per alcuni fra il pubblico questa, a distanza di quasi novant’anni, è  musica ancora troppo moderna. Un po’ di pazienza, la prossima volta c’è Tosca.

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Foto Ramella &Giannese © Teatro Regio

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