Mese: gennaio 2020

Vologeso

Niccolò Jommelli, Vologeso

★★★★★

Stoccarda, Staatsoper, 15 febbraio 2015

(registrazione video)

«Un abisso d’affanni»

Vologeso (o Berenice Regina di Armenia) di Niccolò Jommelli (1714-1774) è un lavoro dell’ultima fase creativa del compositore di Aversa, la stessa città in cui nascerà Domenico Cimarosa. Non è la più conosciuta delle 80 opere di questo compositore – che viene ricordato principalmente per Fetonte, Demofoonte e Didone abbandonata – ma è tra quelle più amate dal suo autore. Il Vologeso venne rappresentato l’11 febbraio 1766 nel teatro della Corte di Ludwigsburg presso cui Jommelli lavorò come Hofkapellmeister per ben 15 anni a partire dal 1753.

Il compositore, tra i maggiori esponenti della Scuola Napoletana, si era a quel tempo “germanizzato”, tendeva ad abbandonare l’aria nella forma col da capo a favore di strutture durchkomponiert e cavatine, arie brevi inserite all’inizio o nel corpo di una scena che contribuivano al flusso dell’azione senza l’interruzione delle grandi arie. Un altro elemento caratteristico della scrittura di Jommelli stava nell’utilizzo del recitativo accompagnato: a proposito del suo Ricimero (1740) Charles de Brosses scriveva: «i recitativi con accompagnamento obbligato di violini […] sono i più belli; ma sono rari. Quando sono svolti alla perfezione, come certuni di Jommelli che ho udito, bisogna riconoscere che, per la forza della declamazione e la varietà armonica e sublime dell’accompagnamento, sono di una drammaticità estrema, ineguagliabile, molto superiore al miglior recitativo francese e alle più belle arie italiane». La sua evoluzione stilistica anticipava taluni aspetti della riforma gluckiana con la quale la storia dell’opera italiana del Settecento finiva di essere una storia “per arie” – gli unici momenti ritenuti efficaci di un’opera essendo quelli dei singoli momenti nell’alternanza di recitativi ed arie – per diventare una costruzione drammaturgica complessiva con il suo susseguirsi di scene.

Il Vologeso è una tipica opera seria in tre atti basata sul Lucio Vero (1699) di Apostolo Zeno. Jommelli ne aveva già intonato il testo nel 1754 con il titolo del libretto originale, per poi riproporlo col nuovo titolo a Ludwigsburg su libretto adeguato al gusto allora corrente da Mattia Verazi, drammaturgo di Corte. La seconda versione differisce nello sfoltimento del numero delle scene e conseguentemente delle arie, quelle rimaste quasi totalmente riscritte. Dei quattro personaggi principali Vologeso ha a disposizione cinque numeri, Lucio Vero e Berenice sei e Lucilla tre. Flavio ne ha due mentre totalmente ridimensionato risulta il personaggio di Aniceto con una sola aria. Il personaggio principale è dunque Lucio Vero, non Vologeso che si deve accontentare del terzo posto. Nel primo atto predominano lunghe arie solistiche con da capo, ma il finale primo include un concertato di grande teatralità. Nei due atti successivi si fanno strada recitativi accompagnati che si legano senza soluzione di continuità con le arie – e qui il coetaneo Gluck sembra dietro l’angolo. Stupefacente è il finale terzo introdotto dal sestetto «Al mare invitano placide onde» che non solo nel testo richiama le opere maggiori di Mozart. Un’analisi approfondita del Vologeso si trova in un saggio disponibile in rete (Andrea Chegai, Muovere l’aria. Jommelli e l’azione interiore).

Il testo si basa su fatti storici – nel 166 d.C. i Parti sono sconfitti dal romano Lucio Vero e il loro re Vologase (o Vologese) IV è ritenuto morto in combattimento – ma il libero sviluppo della vicenda è affidato praticamente solo al contrasto di “affetti” dei personaggi.

Atto primo. La guerra fra Roma e i Parti sembra ormai decisa: il generale romano Lucio Vero li ha sconfitti e il loro re, Vologeso, sembra sia morto in battaglia. La sua amata Berenice è stata portata, insieme con gli altri prigionieri, alla corte di Lucio Vero a Efeso. Il generale è innamorato di Berenice, ma lei rimane fedele alla memoria di Vologeso. Durante un banchetto, uno schiavo parto progetta di avvelenare Lucio Vero e Berenice sta per bere il vino avvelenato quando lo schiavo confessa il suo progetto omicida salvando la vita a Berenice. Solo la donna ha riconosciuto in lui Vologeso. Lucio Vero lo fa arrestare e condurre in carcere. Il generale riceve una doppia visita da Roma: la figlia dell’imperatore, Lucilla, sua promessa sposa, insieme con Flavio, ambasciatore del Senato. Entrambi chiedono a Lucio Vero di ritornare rapidamente in Italia. Flavio per ragion di Stato. Lucilla per amore. Nel grande anfiteatro, l’inerme Vologeso sta per essere lasciato in pasto ai leoni. L’uomo vede Berenice seduta accanto a Lucio Vero e la accusa d’infedeltà, ma la donna si getta all’improvviso nell’arena per morire con l’amato. La spada del generale li salva entrambi. Lucio Vero adesso ha capito: il parto è il re in persona e Lucilla che Lucio Vero è innamorato di Berenice. La regina e il re dei Parti sperano nella clemenza dal generale romano. Lucilla vuole un chiarimento ma Lucio Vero tace.
Atto secondo. Lucio Vero discute con il servo Aniceto su quale sia il metodo migliore per avere Berenice e alla fine decide di offrire a Vologeso la libertà e il suo regno se abbandonerà l’amata, ma il re sdegnosamente rifiuta. Berenice vuol salvare la vita a Vologeso, ma come può farlo senza essergli infedele? Lucio Vero le offre la scelta: la sua mano o la testa dello sposo. La donna gli promette il suo cuore. Lucio Vero trionfa ma un dubbio lo assale: Berenice lo ama sul serio? Lucilla ascolta dalle stesse labbra del fidanzato il nome della donna cui lui vuole concedere il suo cuore: Berenice. Insinuante, il generale le ricorda che lei e Flavio stanno per tornare a Roma e la ragazza di certo, nel passato, avrà pur avuto qualche altro amante… Lucilla s’infuria perché il suo amore è incrollabile. Lucio Vero informa Vologeso che ha perso Berenice, ma la donna lo corregge: ha promesso al generale il suo cuore, ma lui prima dovrà strapparglielo dal petto. Entrambi sono pronti a morire per il loro amore. Lucio Vero, furibondo, fa imprigionare Berenice. Una simile dedizione lo sconcerta.
Atto terzo. L’esercito romano non è più disposto a obbedire a un generale che insulta la figlia dell’imperatore e ama la moglie di un nemico. I soldati, guidati da Flavio, sono pronti alla ribellione. Flavio libera Vologeso dalla sua cella e gli impone di ritornare con Berenice al suo regno per far sparire la donna dalla vita di Lucio Vero. Il generale si aggrappa a un’ultima soluzione: per ottenere Berenice inscena con Aniceto una macabra recita durante la quale verrà presentato alla donna un oggetto velato che dovrebbe contenere la testa mozzata di Vologeso. Però Berenice non cede alla corte di Lucio Vero e vuole condividere il destino di morte con il marito. Gli insorti irrompono nel palazzo guidati da Flavio e Vologeso. Ora è il generale a dover scegliere: può sposare Lucilla e diventare imperatore di Roma oppure morire. Lucio Vero sceglie la vita, ridà la libertà a Berenice e Vologeso e implora Lucilla di perdonarlo.

Prima ripresa scenica in tempi moderni è questa dell’opera di Stoccarda del febbraio 2015, registrata e pubblicata in DVD dalla Naxos. Jossi Wieler e Sergio Morabito allestiscono uno spettacolo di grande qualità che dà ragione a chi considera questo un capolavoro che merita di essere ripreso. La qualità della messa in scena e della parte musicale giustifica ampiamente l’interesse per questo DVD per chi si fosse perso lo spettacolo dal vivo.

La scenografia di Anna Viebrock richiama un panorama purtroppo comune di certe città mediorientali: rovine classiche in primo piano (una scalinata, colonne, quasi una scena del Veronese o del Tintoretto, di cui in seguito si vedranno alcuni elementi pittorici) inserite in uno spazio urbano trasandato e che per di più porta i segni di una guerra in corso. Durante l’ouverture vediamo infatti delle persone in abiti moderni che cercano rifugio tra le colonne. Poi una ad una raccolgono da terra dei costumi dell’epoca (della composizione) e inizia l’azione. Il finale vedrà l’inverso: tutti si spoglieranno dei costumi per riprendere i loro vestiti e ritornare nella “tragica normalità” del presente.

La cura attoriale dei registi è estrema e tutti gli interpreti dimostrano una presenza scenica fuori del comune. Diversamente dall’edizione audio del 1997 diretta da Frieder Bernius, Vologeso qui è affidato alla voce femminile di un mezzosoprano, Sophie Marilley di grande drammaticità intensità espressiva anche se il timbro non è dei più piacevoli. Ai coniugi macedoni Ana e Igor Durlovski sono affidati i personaggi di Berenice e di Aniceto. La prima incanta per il tono lirico e il delicato fraseggio, il secondo alterna al registro contraltista la sua voce naturale di basso con effetto umoristico. Sebastian Kohlhepp è vocalmente prodigioso nelle agilità e nella potenza della voce ottimamente proiettata e raggiunge il culmine nell’aria di furore «Sei tra ceppi e insulti ancor?». Il suo personaggio di ragazzone ossessionato dall’infatuazione per Berenice e in perenne dubbio sulle sue decisioni è magistralmente definito dall’interprete in calzoni corti e ciuffo biondo alla Tintin. Efficace è anche Helene Schneiderman, Lucilla combattuta tra l’amore, in parte interessato, per il condottiero romano e le grazie terrene del servo Aniceto. Flavio è qui il soprano Catriona Smith dalla voce un po’ metallica.

Gabriele Ferro è alla guida della Staatsorchester Stuttgart, una compagine moderna ma che si adatta magnificamente allo stile settecentesco. Il direttore concerta le voci con abilità e sottolinea i tesori melodici e le preziosità armoniche di questa gemma musicale finora nascosta che ancora incanta malgrado la lunghezza. Nella sua integralità raggiunge infatti le tre ore di musica.

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Stagione Sinfonica RAI

Gustav Mahler, Sinfonia n° 9 in Re maggiore
1. Andante comodo
2. In Tempo eines gemächlichen Ländlers. Etwas täppisch und sehr derb
3. Rondo-Burleske: Allegro assai. Sehr trotzig
4. Adagio. Sehr langsam und noch zurückhaltend

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 9 gennaio 2020

Daniele Gatti e i silenzi di Mahler

Un unico titolo in programma per il nono concerto della Stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale, quella Nona Sinfonia di Gustav Mahler ritenuta il suo testamento artistico e spirituale in quanto della Decima egli riuscì a completare solo il primo dei quattro movimenti previsti. Neanche per lui sembrava essersi arrestata la “maledizione della Nona”, una superstizione per la quale il numero nove aveva interrotto la vita compositiva e terrena di musicisti quali Beethoven, Spohr, Schubert, Bruckner, Dvořák e poi di Vaughan Williams. Seppure infondata (il conteggio è per lo più erroneo), Mahler sembra averla presa sul serio, tanto da non intitolare Nona Sinfonia quello che conosciamo come Das Lied von der Erde, il ciclo di Lieder sinfonici.

Malato di cuore fin dal 1907, Gustav Mahler compensava la frenetica attività musicale americana al Metropolitan e alla New York Philharmonic con periodi estivi in luoghi tranquilli, come il maso in Tirolo dove dal 1908 si rifugiò per scrivere le sue ultime tre composizioni. Nessuna delle quali fu eseguita lui vivente.

“De fine temporum” intitola Quirino Principe il capitolo dedicato alla Nona Sinfonia nel suo Mahler, La musica tra Eros e Thanatos: «la Nona comincia […] dove Das Lied von der Erde finisce: nell’istante immediatamente successivo alla fine. […] Il motivo finale del contralto, ewig, ewig!, riappare subito al principio della nuova sinfonia. In questo registro dev’essere letto il linguaggio tutto negativo della Nona, ipotetica ma poeticamente verosimile autoanalisi della morte».

I quattro tempi in cui è suddivisa la composizione sono dilatati secondo le convenzioni mahleriane con il primo movimento (Andante comodo) che supera i 25 minuti con una complessa struttura in forma di sonata. Dopo il sarcasmo della Sesta e della Settima e la luminosità dell’Ottava, questa Nona è caratterizzata da una certa omogeneità di scrittura e di tono, un’uniformità «calma, liscia e funerea», scrive ancora Principe e a tale mancanza di opposizioni dialettiche non sfuggono neppure i due tempi centrali, pur nella loro apparente “diversità”: le danze distorte del secondo movimento (In tempo di Ländler tranquillo. Un po’ goffo e molto rude), i contrappunti dissonanti del terzo (Rondò-Burlesca. Allegro assai. Molto ostinato). Il quarto movimento (Adagio. Molto lento e ulteriormente trattenuto) è un’estenuata elegia le cui ultime 34 battute, affidate ai soli archi, portano indicazioni quali Adagissimo, Äußerst langsam (estremamente adagio), pppp, con l’ultima nota segnata ersterbend (morente). Quella della Nona è una morte non definitiva però, nella ciclicità della forma si legge la ciclicità della vita di quella natura, al più indifferente all’uomo, già cantata in Das Lied von der Erde.

Dopo Bruno Walter, che la diresse la prima volta a Vienna il 26 giugno 1912 tredici mesi dopo la morte del compositore e fu il primo a registrarla nel 1938, quasi tutti i più grandi direttori d’orchestra hanno lasciato la loro impronta interpretativa. Sono più di un centinaio le incisioni a nostra disposizione.

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Ora affronta questo capolavoro Daniele Gatti, per la prima volta alla guida dell’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI. Ha talmente introiettato la partitura da dirigerla a memoria e la sterminata compagine risponde con la consueta sensibilità alla conduzione del direttore milanese che con ampi gesti concerta le imponenti masse con grande equilibrio. Tutto lo spettro sonoro è presente: dalle lancinanti esplosioni sonore degli ottoni blateranti e del clangore dei piatti, ai pianissimi il cui livello sonoro scende sotto il quasi impercettibile fruscio dell’impianto di condizionamento della sala. Gatti mette bene in evidenza i particolari timbri presenti in questo lavoro: i colori lividi e metallici dei corni con sordina del primo tempo, le dissonanze degli archi, le liquide e iridescenti note delle arpe o lo sberleffo alla Petruška del terzo tempo, prima di quella corsa dell’orchestra verso l’abisso che termina solo davanti alle rassegnate note del quarto tempo. Un movimento, quest’ultimo, dominato dalla simmetria: sono gli archi a iniziare e saranno ancora loro a terminare, dopo l’“addio” dei legni – prima i clarinetti (morendo in partitura), poi i due flauti e infine il corno inglese. E dopo non rimane che il silenzio. Il lungo interminabile silenzio che viene interrotto solo dopo molto tempo dai calorosi applausi del folto pubblico.

Opera

Kate Bailey Ed., Opera: Passion, Power and Politics

2017 V&A Publishing, 304

Catalogo della mostra al Victoria and Albert Museum (30 settembre 2017- 25 febbraio 2018) diretta da Tristram Hunt.

Un’introduzione del regista Kasper Holten, direttore della Royal Opera House londinese dal 2001 al 2017, precede gli otto capitoli in cui la mostra era articolata:

  1. Venezia, Claudio Monteverdi, L’incoronazione di Poppea, il teatro La Fenice e un contributo di Danielle De Niese;
  2. Londra, Georg Friedrich Händel, Rinaldo, il teatro della Royal Opera House e un contributo di Robert Carsen;
  3. Vienna, Wolfgang Amadeus Mozart, Le nozze di Figaro, il teatro della Staatsoper e un contributo di Antony Pappano;
  4. Milano, Giuseppe Verdi, Nabucco; il teatro alla Scala e un contributo di Plácido Domingo;
  5. Parigi, Richard Wagner, Tannhäuser, il teatro dell’Opéra Garnier e un contributo di Michael Levine;
  6. Dresda, Richard Strauss, Salome, il teatro Semperoper e un contributo di Simone Young;
  7. Leningrado, Dmitrij Šostakovič, Lady Macbeth del distretto di Mcensk, il teatro Michailovskij e un contributo di Graham Vick
  8. L’opera oggi e domani.

Il ricchissimo apparato iconografico fa rimpiangere meno il non aver visto l’esposizione.

Die Zauberflöte

La locandina dello spettacolo

Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauberflöte (Il flauto magico)

★★★☆☆

Glyndebourne, Opera House, 4 agosto 2019

(video streaming)

Grand Hôtel Mozart

Trascurati gli elementi massonici, esoterici, filosofici e iniziatici della vicenda originale, negli ultimi allestimenti de Die Zauberflöte l’intrattenimento visuale prevale su tutto, come in questa produzione di Glyndebourne affidata a Renaud Doucet e André Barbe che si suddividono regia e disegno scenografico rispettivamente.

Se Suzanne Andrade e Barrie Kosky avevano puntato sul cinema muto espressionista e Simon McBurney su disegni fatti dal vivo, qui a dominare sono le scenografie bidimensionali, illustrazioni a penna e inchiostro di un Gustave Doré fin-de-siècle. L’ambientazione in un hotel Belle Époque dà modo di ricreare i personaggi come figure ironicamente tratteggiate: Sarastro è lo chef, lo Sprecher il sommelier, i Templari gli aiuto cuochi, la Regina della Notte un’esigente cliente, le tre dame le governanti e i Genietti tre bellboy. Gli armigeri e il serpente iniziale sono costruiti con utensili di cucina e le prove sostenute da Pamina sono quelle ai fornelli dei televisivi “Bake-off”. Naturalmente i grembiuli solennemente conquistati alla fine non sono quelli di Maestro Massone, ma di Master Chef…

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Tutto molto carino e divertente, ma l’umanità dei personaggi si perde dietro questo sovraccarico visivo con le continue gag in cui ogni oggetto si anima e dove abili marionettisti trasformano i cuscini e i piumini di Papageno in volatili o ricompongono i tagli di maiale della cucina nell’animale danzante sulle note del flauto. Senza parlare del complesso gioco di luci che muta ad ogni scena, dei cappelli da cuoco e dei menu luminosi, dei bicchieri che suonano, del mucchio di verdura che diventa un uomo arcimboldiano, dei montacarichi che parlano, dei forni che inghiottono le persone o che sfornano i piccoli Papageni. Anche troppa roba.

C’è poi il problema del sessismo dell’opera, con le frasi misogene del libretto. Questo ha tenuto Doucet e Barbe lontani da quest’opera per quindici anni, come hanno affermato, ma ora hanno ceduto non tagliando i versi incriminati, ma facendoli recitare in modo ridicolo e facendo della Regina della Notte una leader di suffragette che rivendicano i diritti di voto delle donne. Per il problema del razzismo («Weil ein Schwarzer häßlich ist!») è bastato far diventare Monostatos un fuochista e sporcargli la faccia di nerofumo. C’è però da chiedersi se valeva la pena “bonificare” secondo i criteri del contemporaneo politically correct un classico come questo travisandolo.

Sul lato musicale le cose sono molto più tradizionali, a cominciare dall’Orchestra of the Age of Enlightenment con strumenti antichi e diretta con tempi rilassati («funereal tempi» sono stati definiti dalla stampa inglese), ritardandi e pause anche eccessive da Ryan Wigglesworth. Sofia Fomina e David Portillo sono i due corretti personaggi principali e Brindley Sherratt un autorevole Sarastro. Caroline Wettergreen conclude la sua prima aria come Regina della Notte con un salto all’ottava superiore in cui conferma la sua agilità vocale, la performance è però un po’ meccanica e il personaggio non convince. Il migliore di tutti è senz’altro Björn Bürger, già ammirato Papageno nella produzone di Robert Carsen a Parigi, dalla bellissima voce da liederista e la grande presenza scenica.

Flight

Jonathan Dove, Flight

★★★★☆

Glyndebourne, Opera House, 22 ottobre 1998

(registrazione video)

L’opera contemporanea prende il volo

Prima vera opera di Jonathan Dove, compositore inglese nato nel 1959, e commissionata dal Glyndebourne Festival Opera che la rappresentò il 24 settembre 1998, Flight si basa, come il film di Spielberg The Terminal, sulla vicenda di Mehran Karimi Nasseri, un rifugiato iraniano che ha vissuto al Terminal 1 dell’aeroporto Charles de Gaulle di Parigi per 18 anni (dall’agosto 1988 all’agosto 2006) nell’impossibilità di uscire in quanto sprovvisto di documenti che poteva recuperare se non uscendo dal paese! Solo un ricovero ospedaliero per intossicazione alimentare sbloccò la situazione che si concluse con il suo trasferimento in una casa di accoglienza di Parigi.

Il libretto di April de Angelis non affronta i problemi politici e sociali legati alla figura del rifugiato, ma indugia sui rapporti fra i passeggeri e il personale di un aeroporto in cui le condizioni climatiche costringono ad annullare tutti i voli mettendo in crisi le convenzionali relazioni interpersonali. I personaggi sono, oltre al rifugiato, una giovane coppia in crisi sentimentale, una matura divorziata, uno steward e una hostess, un diplomatico e la moglie incinta, il funzionario dell’immigrazione e il controllore di volo.

Atto I. All’aeroporto, i personaggi sono in partenza, tranne il Controllore di volo, il Rifugiato e il Funzionario dell’immigrazione. Il Rifugiato non può lasciare l’aeroporto perché non ha un passaporto o altri documenti che gli consentano di entrare legalmente nel paese e l’Ufficio Immigrazione lo cerca per arrestarlo. La coppia sposata Bill e Tina stanno partendo per una vacanza per cercare di migliorare la loro relazione con l’aiuto di un manuale sul sesso. La donna anziana è arrivata al terminal per aspettare il suo “fidanzato”, un uomo più giovane che ha promesso di incontrarla lì. Minskman è un diplomatico trasferito a nuovo incarico e sua moglie, Minskwoman, è incinta e prossima al parto. La Hostess e lo Steward hanno una relazione appassionata. All’ultimo minuto, Minskwoman si rifiuta di partire e il marito se ne va senza di lei. Il Controllore di volo annuncia l’avvicinarsi di una tempesta. Il fidanzato della donna anziana non arriva e Bill e Tina si preparano a partire. Il primo atto si chiude sull’annuncio che a causa del maltempo i violi sono stati cancellati e i passeggeri rimangono bloccati all’aeroporto.
Atto II. Notte. La tempesta ha lasciato tutti gli aerei a terra. Dopo che i personaggi sono andati a dormire, Bill, in un tentativo di uscire dalla sua natura “prevedibile”, ci prova con la Hostess, ma ci trova lo Steward. I due si avventurano su nella torre di controllo. Il Controllore di volo è alle prese con la mancanza di aerei e se la prende con la tempesta. Il rifugiato cerca di inserirsi con le varie donne  dando loro una “pietra magica” che, dice, curerà i loro travagli individuali. Le donne brindano con il rifugiato. Alla fine, mentre la tempesta cresce, le donne ubriache si rendono conto che il Rifugiato ha dato loro la stessa “pietra”e gli si avventano contro facendolo cadere privo di sensi e nascondendo il suo corpo all’interno di un baule. In alto nella torre, Bill e lo Steward intraprendono una relazione sessuale esplorativa.
Atto III. L’alba. La tempesta è passata e ognuno ripensa agli avvenimenti della notte appena trascorsa. Il Controllore di volo annuncia l’arrivo di un aereo. Minskman è tornato col primo volo disponibile, incapace di continuare senza la moglie al suo fianco. Quando Tina viene a sapere della scappatella di Bill lo colpisce con rabbia con il manuale facendogli perdere conoscenza. Minskwoman entra in in travaglio e fa nascere il bambino nel terminal, proprio mentre il rifugiato si sveglia nel baule. I personaggi, come rinati a nuova vita, riflettono sui problemi della loro esistenza e si perdonano l’un l’altro. L’Ufficio Immigrazione raggiunge finalmente il Rifugiato. I passeggeri si dividono in due fazioni: una chiede l’arresto del rifugiato, l’altra cerca di persuadere il funzionario dell’immigrazione a “rivedere la situazione”. L’Ufficio Immigrazione è implacabile, citando la necessità di osservare le regole. Il rifugiato racconta quindi la sua storia, in cui spiega perché non ha documenti. La sua storia tocca i passeggeri e anche l’Ufficiale che afferma che il rifugiato non può lasciare il terminal, ma che “chiuderà un occhio” e non lo arresterà. Finita la tempesta, Minskman e Minskwoman volano verso la loro nuova destinazione con il loro bambino. Tina coglie l’occasione per ricominciare da capo con il marito Bill mentre la donna anziana decide di avventurarsi su un volo da sola. Lo Steward e la Hostess si fanno le scuse reciproche e tornano a lavorare. Il Controllore di volo e il Rifugiato sono i soli che rimangono a terra.

Scritto per dieci cantanti, l’orchestra di Dove è descrittiva e coinvolgente e ricorda il minimalismo di un Adams. La sua piacevolezza è alla radice del successo di quest’opera che ha raggiunto quasi un centinaio di rappresentazioni. Un arrangiamento dello stesso autore come suite orchestrale viene eseguito in concerto col titolo Airport Scenes.

Diretta da David Parry la London Philharmonic Orchestra esprime tutti i colori e i timbri della complessa partitura. Due sono le voci che svettano, in tutti i sensi, tra gli interpreti: il soprano coloratura Claron McFadden che presta le stratosferiche linee vocali al Controllore di volo e il controtenore Christopher Robson alla figura estranea del Rifugiato, ma efficaci sono tutti gli altri membri del cast vocale. L’allestimento di Richard Jones ha momenti di ironia e serve alla perfezione la vicenda narrata.

Queen LeaR

Queen LeaR

Torino, Teatro Astra, 3 gennaio 2020

Shakespeare on stiletto heels

Nel teatro elisabettiano potevano recitare solo uomini. E maschi furono quindi le tre figlie di Lear: Cordelia, Regan e Goneril. Anche qui sulle tavole del torinese teatro Astra, proveniente dal Carcano di Milano, nella rilettura del dramma scespiriano gli interpreti sono tutti uomini e King Lear è Queen, anzi una Drag Queen.

Da un’idea di Francesco Micheli e su un testo di Claire Dowie, le Nina’s Drag Queens, finalmente a Torino, dirigono e interpretano la vicenda del padre (qui una madre) che nella sua cieca follia non riconosce l’amore vero della figlia Cordelia e affida la sua vita invece alle altre due ingrate. La vicenda è fedele al plot originale con gli stessi personaggi, anche se il fool qui è una marionetta e Kent è la fedele dama di compagnia che si ripresenta come Clara (e l’omonimia con la cantante Clara Kent è ironicamente cercata). Lea Rossi (Lea R. dice l’insegna del suo negozio) è ossessionata dalle bambole e avviata alla demenza senile: il tema della vecchiaia è infatti l’oggetto di questa irriverente lettura che a momenti di sarcastico umorismo accosta amare riflessioni sulla senescenza, la malattia, la morte. L’attualità è invece presente nel personaggio di Edmund, qui immigrato badante nella casa di riposo. Con gli ineffabili versi di famose canzonette cantati dal vivo sulle musiche di Enrico Melozzi, lo spettacolo si sorregge sull’eccezionale bravura dei cinque interpreti: Alessio Calciolari, Gianluca di Lauro, Lorenzo Piccolo, Ulisse Romanò e il sempre sorprendente Sax Nicosia, vecchia Lea dalle mille sfaccettature. Ancora due serate.

TEATRO VENTIDIO BASSO

Teatro Ventidio Basso

Ascoli Piceno (1846)

842 posti

La storia del Teatro Ventidio Basso comincia nel 1839, quando il consiglio comunale di Ascoli Piceno delibera la costruzione di un nuovo teatro da sostituire a quello di legno che aveva sede all’interno del palazzo dell’Arengo. Per Ascoli Piceno si tratta di una millenaria tradizione culturale proveniente dall’antico Teatro Romano adiacente la Porta Gemina e dall’Anfiteatro di Piazza San Tommaso. Nel 1839  il progetto del nuovo teatro fu affidato ad Ireneo Aleandri, già ideatore dello Sferisterio di Macerata e del Teatro Nuovo di Spoleto e venne stabilita anche la sede del teatro nel palazzo di Via del Trivio. Dalla data in cui fu messa la prima pietra, nel 1841, alla conclusione dei lavori il percorso che portò alla costruzione fu assai complesso. Tra ostacoli e resistenze, alla fine i lavori già avviati furono affidati all’architetto Giovan Battista Carducci. All’apertura, che fu evento solenne, due grandi recite: Ernani e I Puritani. Il dedicatario del teatro fu Publio Ventidio Basso, un eroe ascolano del I secolo d.C. che Pompeo Magno elevò al grado di console per le sue eroiche gesta.

La facciata neoclassica, in travertino rifinito, presenta un colonnato centrale composto da sei colonne ioniche in pietra, aggiunte da Gabriele Gabrielli nel 1851, che formano un pronao, su cui s’aprono tre porte che accedono all’atrio arricchito da nicchie e statue opera di Giorgio ed Emidio Paci e un soffitto a cassettoni in stucco. Al secondo piano, due finestre archivoltate e lunettate sono in corrispondenza delle due lunette del piano terra; al centro, su un colonnato d’ordine corinzio, tamponato, fanno bella mostra tre luci neoclassiche. Una seconda trabeazione, su cui si leva un timpano triangolare di coronamento, completa l’elegante ma austera costruzione. Al piano superiore c’è il foyer, impreziosito da decorazioni con stucchi. Questi sono stati realizzati in oro da Giorgio ed Emidio Paci, su disegno dell’architetto Giambattista Carducci. Altre decorazioni come il sipario raffigurante Il trionfo di Ventidio Basso sui Parti, i quadri di mezzo, le muse, le medaglie furono opera dell’anconetano Vincenzo Podesti. I volti degli affreschi di Pietro Carbonari di Jesi ed il soffitto fu dipinto da Ferdinando Cicconi. I meccanismi del palcoscenico furono curati da Gabriele Ferretti di Ancona.

A partire dagli anni settanta del secolo scorso il teatro ha dovuto far fronte alle molte difficoltà incontrate, sia per una cattiva gestione privata sia per le gravi scosse sismiche del novembre 1971 che danneggiarono il tessuto urbano di Ascoli. Fu necessario un lungo restauro, avviato nel 1980, che tenne il teatro chiuso per quattordici lunghi anni. Nel mese di ottobre del 1994 finalmente l’attesa serata di riapertura con la Traviata. Il teatro appare oggi abbellito da colori forti tra i quali spicca la tinta verde caratteristica, il rosso dell’arredo e da decori sontuosi.