Mattia Verazi

Vologeso

Niccolò Jommelli, Vologeso

★★★★★

Stoccarda, Staatsoper, 15 febbraio 2015

(registrazione video)

«Un abisso d’affanni»

Vologeso (o Berenice Regina di Armenia) di Niccolò Jommelli (1714-1774) è un lavoro dell’ultima fase creativa del compositore di Aversa, la stessa città in cui nascerà Domenico Cimarosa. Non è la più conosciuta delle 80 opere di questo compositore – che viene ricordato principalmente per Fetonte, Demofoonte e Didone abbandonata – ma è tra quelle più amate dal suo autore. Il Vologeso venne rappresentato l’11 febbraio 1766 nel teatro della Corte di Ludwigsburg presso cui Jommelli lavorò come Hofkapellmeister per ben 15 anni a partire dal 1753.

Il compositore, tra i maggiori esponenti della Scuola Napoletana, si era a quel tempo “germanizzato”, tendeva ad abbandonare l’aria nella forma col da capo a favore di strutture durchkomponiert e cavatine, arie brevi inserite all’inizio o nel corpo di una scena che contribuivano al flusso dell’azione senza l’interruzione delle grandi arie. Un altro elemento caratteristico della scrittura di Jommelli stava nell’utilizzo del recitativo accompagnato: a proposito del suo Ricimero (1740) Charles de Brosses scriveva: «i recitativi con accompagnamento obbligato di violini […] sono i più belli; ma sono rari. Quando sono svolti alla perfezione, come certuni di Jommelli che ho udito, bisogna riconoscere che, per la forza della declamazione e la varietà armonica e sublime dell’accompagnamento, sono di una drammaticità estrema, ineguagliabile, molto superiore al miglior recitativo francese e alle più belle arie italiane». La sua evoluzione stilistica anticipava taluni aspetti della riforma gluckiana con la quale la storia dell’opera italiana del Settecento finiva di essere una storia “per arie” – gli unici momenti ritenuti efficaci di un’opera essendo quelli dei singoli momenti nell’alternanza di recitativi ed arie – per diventare una costruzione drammaturgica complessiva con il suo susseguirsi di scene.

Il Vologeso è una tipica opera seria in tre atti basata sul Lucio Vero (1699) di Apostolo Zeno. Jommelli ne aveva già intonato il testo nel 1754 con il titolo del libretto originale, per poi riproporlo col nuovo titolo a Ludwigsburg su libretto adeguato al gusto allora corrente da Mattia Verazi, drammaturgo di Corte. La seconda versione differisce nello sfoltimento del numero delle scene e conseguentemente delle arie, quelle rimaste quasi totalmente riscritte. Dei quattro personaggi principali Vologeso ha a disposizione cinque numeri, Lucio Vero e Berenice sei e Lucilla tre. Flavio ne ha due mentre totalmente ridimensionato risulta il personaggio di Aniceto con una sola aria. Il personaggio principale è dunque Lucio Vero, non Vologeso che si deve accontentare del terzo posto. Nel primo atto predominano lunghe arie solistiche con da capo, ma il finale primo include un concertato di grande teatralità. Nei due atti successivi si fanno strada recitativi accompagnati che si legano senza soluzione di continuità con le arie – e qui il coetaneo Gluck sembra dietro l’angolo. Stupefacente è il finale terzo introdotto dal sestetto «Al mare invitano placide onde» che non solo nel testo richiama le opere maggiori di Mozart. Un’analisi approfondita del Vologeso si trova in un saggio disponibile in rete (Andrea Chegai, Muovere l’aria. Jommelli e l’azione interiore).

Il testo si basa su fatti storici – nel 166 d.C. i Parti sono sconfitti dal romano Lucio Vero e il loro re Vologase (o Vologese) IV è ritenuto morto in combattimento – ma il libero sviluppo della vicenda è affidato praticamente solo al contrasto di “affetti” dei personaggi.

Atto primo. La guerra fra Roma e i Parti sembra ormai decisa: il generale romano Lucio Vero li ha sconfitti e il loro re, Vologeso, sembra sia morto in battaglia. La sua amata Berenice è stata portata, insieme con gli altri prigionieri, alla corte di Lucio Vero a Efeso. Il generale è innamorato di Berenice, ma lei rimane fedele alla memoria di Vologeso. Durante un banchetto, uno schiavo parto progetta di avvelenare Lucio Vero e Berenice sta per bere il vino avvelenato quando lo schiavo confessa il suo progetto omicida salvando la vita a Berenice. Solo la donna ha riconosciuto in lui Vologeso. Lucio Vero lo fa arrestare e condurre in carcere. Il generale riceve una doppia visita da Roma: la figlia dell’imperatore, Lucilla, sua promessa sposa, insieme con Flavio, ambasciatore del Senato. Entrambi chiedono a Lucio Vero di ritornare rapidamente in Italia. Flavio per ragion di Stato. Lucilla per amore. Nel grande anfiteatro, l’inerme Vologeso sta per essere lasciato in pasto ai leoni. L’uomo vede Berenice seduta accanto a Lucio Vero e la accusa d’infedeltà, ma la donna si getta all’improvviso nell’arena per morire con l’amato. La spada del generale li salva entrambi. Lucio Vero adesso ha capito: il parto è il re in persona e Lucilla che Lucio Vero è innamorato di Berenice. La regina e il re dei Parti sperano nella clemenza dal generale romano. Lucilla vuole un chiarimento ma Lucio Vero tace.
Atto secondo. Lucio Vero discute con il servo Aniceto su quale sia il metodo migliore per avere Berenice e alla fine decide di offrire a Vologeso la libertà e il suo regno se abbandonerà l’amata, ma il re sdegnosamente rifiuta. Berenice vuol salvare la vita a Vologeso, ma come può farlo senza essergli infedele? Lucio Vero le offre la scelta: la sua mano o la testa dello sposo. La donna gli promette il suo cuore. Lucio Vero trionfa ma un dubbio lo assale: Berenice lo ama sul serio? Lucilla ascolta dalle stesse labbra del fidanzato il nome della donna cui lui vuole concedere il suo cuore: Berenice. Insinuante, il generale le ricorda che lei e Flavio stanno per tornare a Roma e la ragazza di certo, nel passato, avrà pur avuto qualche altro amante… Lucilla s’infuria perché il suo amore è incrollabile. Lucio Vero informa Vologeso che ha perso Berenice, ma la donna lo corregge: ha promesso al generale il suo cuore, ma lui prima dovrà strapparglielo dal petto. Entrambi sono pronti a morire per il loro amore. Lucio Vero, furibondo, fa imprigionare Berenice. Una simile dedizione lo sconcerta.
Atto terzo. L’esercito romano non è più disposto a obbedire a un generale che insulta la figlia dell’imperatore e ama la moglie di un nemico. I soldati, guidati da Flavio, sono pronti alla ribellione. Flavio libera Vologeso dalla sua cella e gli impone di ritornare con Berenice al suo regno per far sparire la donna dalla vita di Lucio Vero. Il generale si aggrappa a un’ultima soluzione: per ottenere Berenice inscena con Aniceto una macabra recita durante la quale verrà presentato alla donna un oggetto velato che dovrebbe contenere la testa mozzata di Vologeso. Però Berenice non cede alla corte di Lucio Vero e vuole condividere il destino di morte con il marito. Gli insorti irrompono nel palazzo guidati da Flavio e Vologeso. Ora è il generale a dover scegliere: può sposare Lucilla e diventare imperatore di Roma oppure morire. Lucio Vero sceglie la vita, ridà la libertà a Berenice e Vologeso e implora Lucilla di perdonarlo.

Prima ripresa scenica in tempi moderni è questa dell’opera di Stoccarda del febbraio 2015, registrata e pubblicata in DVD dalla Naxos. Jossi Wieler e Sergio Morabito allestiscono uno spettacolo di grande qualità che dà ragione a chi considera questo un capolavoro che merita di essere ripreso. La qualità della messa in scena e della parte musicale giustifica ampiamente l’interesse per questo DVD per chi si fosse perso lo spettacolo dal vivo.

La scenografia di Anna Viebrock richiama un panorama purtroppo comune di certe città mediorientali: rovine classiche in primo piano (una scalinata, colonne, quasi una scena del Veronese o del Tintoretto, di cui in seguito si vedranno alcuni elementi pittorici) inserite in uno spazio urbano trasandato e che per di più porta i segni di una guerra in corso. Durante l’ouverture vediamo infatti delle persone in abiti moderni che cercano rifugio tra le colonne. Poi una ad una raccolgono da terra dei costumi dell’epoca (della composizione) e inizia l’azione. Il finale vedrà l’inverso: tutti si spoglieranno dei costumi per riprendere i loro vestiti e ritornare nella “tragica normalità” del presente.

La cura attoriale dei registi è estrema e tutti gli interpreti dimostrano una presenza scenica fuori del comune. Diversamente dall’edizione audio del 1997 diretta da Frieder Bernius, Vologeso qui è affidato alla voce femminile di un mezzosoprano, Sophie Marilley di grande drammaticità intensità espressiva anche se il timbro non è dei più piacevoli. Ai coniugi macedoni Ana e Igor Durlovski sono affidati i personaggi di Berenice e di Aniceto. La prima incanta per il tono lirico e il delicato fraseggio, il secondo alterna al registro contraltista la sua voce naturale di basso con effetto umoristico. Sebastian Kohlhepp è vocalmente prodigioso nelle agilità e nella potenza della voce ottimamente proiettata e raggiunge il culmine nell’aria di furore «Sei tra ceppi e insulti ancor?». Il suo personaggio di ragazzone ossessionato dall’infatuazione per Berenice e in perenne dubbio sulle sue decisioni è magistralmente definito dall’interprete in calzoni corti e ciuffo biondo alla Tintin. Efficace è anche Helene Schneiderman, Lucilla combattuta tra l’amore, in parte interessato, per il condottiero romano e le grazie terrene del servo Aniceto. Flavio è qui il soprano Catriona Smith dalla voce un po’ metallica.

Gabriele Ferro è alla guida della Staatsorchester Stuttgart, una compagine moderna ma che si adatta magnificamente allo stile settecentesco. Il direttore concerta le voci con abilità e sottolinea i tesori melodici e le preziosità armoniche di questa gemma musicale finora nascosta che ancora incanta malgrado la lunghezza. Nella sua integralità raggiunge infatti le tre ore di musica.

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Europa riconosciuta

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★★★★☆

L’opera dell’inaugurazione del Teatro alla Scala

«D’un teatro edificato sotto i favorevoli auspici delle aa. vv. rr., ed aperto per la prima volta in occasione del tanto sospirato loro felice ritorno, speriamo vedere accolto con sovrana benignità il primo spettacolo, di cui alle medesime da noi viene umiliato il libro, come un ossequioso tributo di speciale omaggio, e di perfetta venerazione». Così inizia la pomposa dedica all’imperatrice Maria Teresa d’Austria e all’imperatore Francesco I del librettista, il poeta aulico Mattia Verazi, per la prima esecuzione del dramma per musica di Antonio Salieri il 3 agosto 1778 all’inaugurazione del Teatro di Santa Maria alla Scala edificato due anni dopo l’incendio che aveva distrutto il vecchio Teatro Ducale.

Europa, principessa di Tiro, era promessa sposa ad Isseo, ma il re di Creta Asterio la rapì sposandola in segreto. Agenore, padre di Europa, dopo averla fatta cercare inutilmente decise di lasciare il trono alla nipote Semele, stabilendo che andasse sposa a colui che avesse ucciso il primo straniero approdato a Tiro, per vendicare il rapimento di Europa. Alla morte di Agenore, Asterio decide di riportare Europa a Creta e restituirle il trono che le spetta. L’opera si apre con il naufragio della flotta di Asterio, che lo lascia indifeso sulla spiaggia di Creta con la moglie, il figlio e pochi altri sopravvissuti; qui vengono catturati dal malvagio Egisto, che mira a sposare Semele, e li fa condurre alla reggia. Semele però è innamorata di Isseo, e decide di volerlo sposare ignorando le ragioni di Egisto, che tentando di farla comunque valere porta Europa al cospetto della regina. Europa si fa riconoscere, Egisto vede svanire le sue speranze, Isseo è profondamente turbato dal ritorno del suo vecchio amore, e Semele cade preda della gelosia e dell’ira. Nel secondo atto Europa confida ad Isseo di voler rinunciare al trono, in cambio della salvezza sua e della sua famiglia. Nel frattempo Egisto è riuscito a convincere Semele a condannare a morte Asterio, ma Isseo le confida la rinuncia di Europa e l’infedeltà di Egisto. Il sacrificio di Asterio viene quindi impedito dall’intervento dei soldati cretensi giunti in soccorso e da Isseo, che nello scontro uccide Egisto. Tutto è pronto per il lieto fine: Europa rinuncia al trono in favore di Semele ed Isseo.

Ed è la stessa opera il 7 dicembre 2004 a riaprire il tempio della lirica milanese dopo i discussi restauri durati tre anni. Qui Ronconi e Pizzi non esibiscono gli effetti di cui parla il Verri in una lettera al fratello due giorni dopo la prima: «Mentre te ne stai aspettando quando si dia il principio ascolti un tuono, poi uno scoppio di fulmine, e questo è il segnale perché l’orchestra cominci l’ouverture; al momento che s’alza il sipario, vedi un mare in burrasca, fulmini, piante sulla riva scosse dal vento, navi che vanno naufragando, e la sinfonia imita la pioggia, il vento, il muggito delle onde, le grida dei naufraganti; poco a poco si calma, si rasserena il cielo, scendono gli attori da una nave e il coro e alcune voci sole cominciano l’azione. Hai in seguito trionfi, armate schierate, 36 cavalli in ordine, combattimenti, incendi, lotte, anfiteatri con fiere, Fetonte che cade fulminato; è una lanterna magica di oggetti mal connessi, ma che obbligano a stare attento».

Ronconi non rinuncia neanche qui al suo gusto per i macchinari, anche se non ha gli “ingegnj” barocchi dei fratelli Galliari di cui si ricorderà il Foscolo nel 1821: «La sera del 3 agosto 1778 ne fu fatta solenne apertura con sì grandiosi spettacoli, che ne dura ancor viva la memoria». Per la tempesta dell’ouverture il regista mette in scena un enorme battello che poi si spezza in due, seguono una grande prigione di tubi intrecciati, coristi che escono dal suolo, scalinate semoventi, un esercito di cavalli finti, cambi di scena a vista. Però l’allestimento sembra fatto apposta per mettere in evidenza le potenzialità tecnologiche del “nuovo” teatro piuttosto che essere frutto di un progetto registico sentito. Il grigio in tutte le sue sfumature, l’acciaio e gli specchi sono contrapposti agli sgargianti colori dei costumi di Semele – Pizzi rinuncia per una volta al suo consueto monocromatismo – e magnificamente fantasiosi sono quelli dei ballerini, modellati su quelli del Rinaldo del Tiepolo.

Riccardo Muti si immerge con dedizione nella partitura che dirige con precisione e nerbo ed è poi sua l’idea di includere tra i due atti dei ballabili, non previsti dal libretto, su musiche di Salieri, per rendere più completa la Festa Teatrale, nel senso che l’oggetto del festeggiamento è il teatro stesso. Non è sfuggito a uno spirito attento come Paolo Isotta il significato dell’operazione: «Il […] concetto è quello della Scala come protagonista dell’Opera. Già durante i Balletti il fondale è un immenso specchio riflettente, […] nei suoi colori rosso e oro, la Scala stessa. Ecco perché altrimenti v’è solo il grigio… Durante il Finale, calano dall’alto file di poltrone del nostro teatro, il Coro canta, in dinner-jacket gli uomini, simulando d’esser specularmente noi spettatori riappropriantici dell’edificio». Non possono mancare alla festa teatrale le due étoile del balletto Alessandra Ferri e Roberto Bolle.

Nel 1778 Salieri aveva al suo attivo già undici lavori, di cui nove opere buffe, ma non c’è nessuna prova che a quell’epoca Mozart ne conoscesse il lavoro. Senza fondamento quindi il giudizio di chi ritrova nel genio salisburghese echi di Salieri espressi però con più sapienza! Lo zeitgeist è sempre attivo e non è strano trovare in autori della stessa epoca procedimenti simili. La musica dell’Europa riconosciuta è originale e ben scritta, i recitativi sono brevi ed efficaci dal punto di vista drammaturgico e il coro partecipa attivamente all’azione. Si sente come Salieri fosse un seguace della riforma gluckiana. Le arie solistiche danno agio alle cantanti di esprimere le loro abilità canore nel contesto però di una vicenda di grande efficacia teatrale.

Parliamo di voci femminili perché in mancanza di castrati (e la voga dei controtenori non ha ancora neanche adesso varcato le Alpi) (1) le parti maschili di Asterio e Isseo sono affidate a Genia Kühmeier e Daniela Barcellona, entrambe espressive e impavide nelle agilità. Solo Egisto ha il fisico virile di Giuseppe Sabbatini di cui si apprezza la presenza vocale. Europa e Semele, con parti virtuosistiche irte di difficoltà, hanno in Diana Damrau e Desirée Rancatore interpreti impareggiabili, sia la Damrau, Europa, quasi una futura Regina della Notte, sia la Rancatore in duetto con l’oboe concertante di «Quando più irato freme», strappano acclamazioni a quel pubblico che altrove nell’opera non sembra eccessivamente convinto.

La registrazione su DVD è quella della ripresa RAI, con le immagine del gotha intellettuale presente in sala, da Valeria Marini al principe Emanuele Filiberto di Savoia, quello dei sottaceti. Nessun extra e uno striminzito opuscolo.

(1) No, il controtenore no. In Italia no. Il paese che ha inventato il genere per ottemperare ai divieti papali che impedivano alle donne di calcare le scene, oggi rifiuta il succedaneo più simile, il controtenore (o contraltista o sopranista o falsettista) e i pochi bravi italiani devono emigrare per far parte della fiorente schiera che all’estero, dal Marocco all’Australia, dall’Argentina alla Mongolia fornisce i teatri (stranieri) che vogliono mettere in scena l’opera barocca nelle condizioni più simili a quelle originali. Fenomeno nato nell’Inghilterra dei cori di voci bianche, ora è dilagato in tutti i paesi e mai come ora è numeroso e di qualità il numero di cantanti che adottano questa tecnica per poter interpretare i ruoli richiesti dall’opera del XVII e XVIII secolo. Qui da noi no. Soprani e contralti en travesti trasformano vicende maschili in ginecei per la scarsa considerazione in cui sono tenute le voci controtenorili, come se fossimo ancora agli anni ’60 del secolo scorso. Ma si sa che il pubblico e l’establishment lirico nostrani non sono rinomati per essere al passo coi tempi. Noi ci consideriamo ancora vestali di una tradizione che sta seppellendo giorno dopo giorno il genere musicale che ha contraddistinto per quasi tre secoli la cultura e la società al di qua delle Alpi.