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Gustav Mahler, Sechs Gesänge aus “Des Knaben Wunderhorn”
1. Rheinlegendchen
2. Wo die schönen Trompeten blasen
3. Das irdische Leben
4. Urlicht
5. Revelge
6. Der Tambourg’sell
Béla Bartók, Concerto per viola e orchestra BB 128
Béla Bartók, Il mandarino meraviglioso, suite da concerto
Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 16 gennaio 2020
Secondo appuntamento mahleriano
La stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI dopo la Nona sinfonia fa un salto indietro nel tempo, e qui la datazione diventa più complessa. A partire da quei primi due Lieder su poesie di Heinrich Heine scritti a 15 anni e andati perduti, tutta la carriera compositiva di Gustav Mahler è costellata di Lieder, la sua forma prediletta.
Mahler ebbe sempre un fortissimo legame con Des Knaben Wunderhorn, la raccolta di storie e leggende popolari pubblicate da Achim von Arnim e Clemens Brentano nel 1808: «Fino all’età di quarant’anni ho tratto le parole dei miei Lieder esclusivamente da questa raccolta. Mi sono votato con tutta l’anima a quella poesia, che è essenzialmente diversa da ogni altro genere di “poesia letteraria” e potrebbe essere definita meglio come Vita e Natura». Anche se Il corno magico del fanciullo (questo il titolo in italiano) si scoprì non essere affatto una collezione di poesie popolari e contadine, bensì la libera riscrittura di due poeti romantici, per Mahler esse rappresentarono sempre l’autentica voce del popolo, espressioni di una naïveté che contrastava con la realtà urbana e sofisticata in cui viveva, talora con disagio, il musicista. Lo stesso contrasto si evidenzia nella sontuosa veste orchestrale con cui è ammantata l’anacronistica semplicità dei versi, come è evidente fin dal primo pezzo in programma, quella Piccola leggenda renana (1893), un testo ingenuo accompagnato da un elegante valzerino viennese. Tre dei sei pezzi scelti fanno riferimento alla vita militare e alla guerra: il secondo (Dove suonano le belle trombe, 1898), il quinto (Sveglia, 1899) e l’ultimo (Il tamburino, 1901), dove le angosce dei giovani che devono lasciare la casa e gli affetti sono contrappuntate da beffarde marcette militari che anticipano di qualche decennio le ciniche musiche di Kurt Weill. Il terzo pezzo (La vita terrena, 1893) sembra voglia contrapporsi con la sua cupezza e tragicità a Das himmlische Leben (La vita celeste), che costituisce il quarto movimento della sua Quarta Sinfonia. Anche il quarto pezzo (La luce primigenia, 1893) ha trovato posto come preludio al finale corale della Seconda Sinfonia.
A interpretare queste gemme è stato invitato uno dei più celebrati cantanti tedeschi di oggi, il baritono Matthias Goerne, allievo di due dei maggiori liederisti del secolo passato, Dietrich Fischer-Dieskau ed Elisabeth Schwarzkopf, e rinomato per i cicli schubertiani e schumanniani incisi su disco. Il bellissimo timbro, i fiati strepitosi e la potenza sonora egualmente distribuita su tutti i registri gli permettono di affrontare questi canti con un agio e un’intensità espressiva che riflette la teatralità dei ruoli incontrati nella sua carriera lirica nelle opere di Wagner, Strauss o Berg. Con una padronanza somma della parola, ogni frase ha il giusto risalto, ogni indicazione della partitura la dovuta realizzazione e i diversi stati d’animo sono espressi con un’estesa gamma di toni e colori. Ha fornito il suo contribuito anche la fisicità debordante del cantante, quasi egli fosse su una scena teatrale e non sul palco di un auditorium. Inutile dire che la sua prestazione ha destato un entusiasmo al calor bianco tra gli spettatori. Merito della felice riuscita è stata anche la sapiente direzione orchestrale dello svizzero Michel Tabachnik, che ha prontamente sostituito l’indisposto James Conlon previsto.
Il suo subentro ha solo in parte portato a una variazione di programma: invece del previsto brano di Franz Schreker – uno dei rappresentanti di quella “musica degenerata” a cui il maestro Conlon dedica lodevole attenzione – il maestro Tabachnik ha eseguito un titolo più noto, la suite da concerto da Il mandarino meraviglioso (1926) di Béla Bartók, uno dei brani più inquietanti del secolo scorso, che fa propria la violenza orchestrale della stravinskiana Sacre du printemps di tredici anni prima per arrivare a un parossismo sonoro quasi insostenibile. La tavolozza rutilante di colori è stata magnificamente realizzata dalla nostra orchestra sotto la sua coinvolgente guida. Dello stesso autore si era ascoltato prima il Concerto per viola e orchestra, opera postuma eseguita la prima volta nel 1949. Atmosfera completamente differente qui, in cui le lunghe e intense arcate della viola prevalentemente nel registro basso sono alternate a passaggi più virtuosistici che trovano nell’orchestra un accompagnamento trasparente, quasi minimalista – Bartók non fece a tempo a scrivere la parte orchestrale e questa fu completata con riserbo reverenziale dal suo allievo Tibor Serly. Solo nel terzo tempo l’orchestra diventa più protagonista nel dialogo. Interprete del concerto è la prima viola dell’orchestra, Luca Ranieri, che si è accostato alla parte con dedizione e tecnica ineccepibile. Il suo sforzo è stato giustamente ripagato dagli scroscianti applausi del folto pubblico intervenuto.
⸪