Lo schiavo

Antônio Carlos Gomes, Lo schiavo

★★☆☆☆

Cagliari, Teatro Lirico, 22 febbraio 2019

(registrazione video)

Amori contrastati nella foresta pluviale

Un caso praticamente unico in Italia è quello del coraggioso Teatro Lirico di Cagliari che punta su novità di oggi e rarità del passato per arricchire i suoi cartelloni.

È il caso del recupero de Lo schiavo del compositore brasiliano Antônio Carlos Gomes, dramma lirico in quattro atti presentato la prima volta a Rio de Janeiro il 27 settembre 1889 in onore della Principessa Isabella, figlia dell’Imperatore Pedro II. L’improponibile e scalcagnato libretto di Rodolfo Paravicini, tratto dall’originale di Alfredo d’Escragnolle Taunay, fa svolgere l’azione nel 1567: «Questo melodramma è basato sulla storia del Brasile e sulle guerre sostenute dalle tribù dei Tamayos alleate ai francesi contro i portoghesi vincitori. Iberè, prima schiavo, poi capo dei Tamayos, è il protagonista nell’episodio storico-romantico avvenuto a Guaipacarè sulle rive del fiume Parahyba». La questione politico-umanitaria, che piacque molto ai regnanti del Brasile che in occasione dell’abolizione della schiavitù fecero de Lo schiavo un manifesto musicale delle loro politiche, in realtà si perde nelle solite vicende di un banale triangolo amoroso.

Atto I. Ilàra e Iberè, della tribù Tamoyo, sono schiavi nella fazenda del conte Rodrigo il cui figlio, Américo, è innamorato corrisposto di Ilàra. Américo libera Iberè e quest’ultimo giura che sarà eternamente fedele al suo giovane protettore. Conoscendo l’amore del figlio per la ragazza indiana e la sua pietà per gli schiavi, il conte manda il giovane a Rio de Janeiro, per raggiungere l’esercito contro la rivolta dei Nativi. Durante l’assenza di Américo, il conte chiama Gianfèra, il suo caposquadra, per organizzare il matrimonio di Ilàra con Iberè.
Atto II. A Niterói, la giovane contessa di Boissy, un’abolizionista, accoglie Américo di cui è innamorata, ma egli pensa sempre a Ilàra. Sorprendendo tutti, decide di liberare i suoi schiavi indiani, tra i quali Iberè e Ilàra, ora in suo possesso. Quando gli dicono che i due sono ora uniti, Américo nella sua gelosia mostra tutto il suo odio.
Atto III. I due indiani, ora liberi, vivono in una foresta in Jacarepaguá e il giovane cerca di conquistare l’amore di sua moglie, nella speranza di farla un po’ più felice. Ilàra, tuttavia, rivela a Iberè il suo giuramento di fedeltà verso Américo. Iberè riunisce la sua tribù contro i portoghesi.
Atto IV. Américo viene imprigionato e portato alla presenza di Iberè. Al fine di mantenere il suo giuramento, il Tamayo tradisce il suo stesso popolo e libera il suo benefattore. La fuga di Américo e Ilàra è notata dai selvaggi, che vogliono vendetta. Iberè si uccide, offrendo la sua vita in cambio di quella degli amanti, così permettendo loro di essere felici per sempre.

Gomes è una figura singolare nel panorama musicale dell’Ottocento. Il compositore brasiliano si adegua al linguaggio operistico del tempo e agli evidenti riferimenti verdiani affianca soluzioni personali. Nelle parole di Alberto Mattioli Lo schiavo «è uno di quei casi in cui scontiamo il fatto di esserci persi per strada un pezzo di Ottocento, e che pezzo. Oggi Meyerbeer e soci sono quasi scomparsi dai cartelloni (ma l’inversione di tendenza è già iniziata, anche se da noi ovviamente non se ne sono accorti), ma nel secondo Ottocento, in Italia, il grand opéra francese passava per l’avanguardia musicale più à la page e “filosofica”. Da qui il fiorire e il successo della sua versione autarchica, le “opere ballo”, possibilmente su soggetto esotico come questa, che ne riproducevano la formula grandiosa. […] Gomes si muove in quest’ambito […] ma il successo grande anche se non persistente di Gomes si spiega con le sue doti di melodista efficace, benché raramente memorabile. Insomma, siamo in zona Petrella, o Ponchielli». Bene quindi rispolverare titoli desueti, ma che questi abbiano un valore intrinseco oltre a quello di curiosità storica è talora dubbio, come nel caso di questo lavoro di Gomes, che sicuramente non rimpiangeremo se non verrà mai più riproposto.

Destinato per l’Italia, come era successo a Il Guarany che aveva debuttato alla Scala 19 anni prima, Lo schiavo invece non è mai stato rappresentato nel nostro paese prima di questa coproduzione del Festival Amazonas de Ópera de Manaus che inaugura la stagione lirica cagliaritana. Il brasiliano John Neschling (lo stesso che ha diretto Plácido Domingo nel Guarany discografico) rende abilmente i differenti piani sonori dell’opera: il primo atto indubitabilmente verdiano, il secondo in stile brillante nel disegnare l’ambiente francese della dimora della contessa di Bussy, gli altri due di colore notturno, dove esotismo significa trasparenza di scrittura e raffinatezze orchestrali. Le voci sono quelle del soprano Svetla Vassileva, Ilàra, dagli evidenti limiti vocali già rilevati altrove; il baritono Andrea Borghini, nobile Iberè dalla voce ben chiaroscurata; il tenore Massimiliano Pisapia, Américo che però tutti pronunciano Ameríco, personaggio tanto magnanimo quanto è spietato il padre, ma irrimediabilmente convenzionale e il cantante non fa molto per convincerci del contrario; Elisa Balbo è una Contessa di Boissy un tantino isterica; Dongho Kim l’inflessibile Conte Rodrigo. Istruito da Donato Sivo, non è sempre compatto e perfettamente intonato il coro del teatro.  

Nella sua lettura il regista Davide Garattini Raimondi sottolinea il tema della schiavitù: gli spettatori entrando in teatro trovano corpi riversi per terra, in scena non si risparmiano le frustate («Se la frusta non temete, c’è il baston») e nella foresta ribelli impiccati alle liane fanno da sfondo all’incontro dei due amanti. Nei costumi di Domenica Franchi i crudeli oppressori vestono cuoio e pesanti armature sotto il sole tropicale mentre Tiziano Santi disegna le scene che ci si aspetta, né più né meno. L’idea di presentare questo titolo in un modo un po’ più problematico non è proprio passata nella mente di nessuno dei responsabili dell’allestimento.

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