Modest Musorgskij, Chovanščina
★★★★☆
Milano, Teatro alla Scala, 27 febbraio 2019
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Chovanščina, l’apocalisse
Delle dieci opere a cui Modest Musorgskij ha inteso mettere mano nella sua carriera di compositore il Boris Godunov, pur nelle varie versioni, è l’unica completata. Tre sono rimaste solo dei progetti e sei non sono state terminate – come Chovanščina, che il compositore russo aveva iniziato nel 1872, ma che alla sua morte nel marzo 1881 ancora mancava dei finali secondo e quinto e di quasi tutta la strumentazione.
La prima rappresentazione a San Pietroburgo nel 1886 era avvenuta in una versione molto rimaneggiata di Rimsky-Korsakov, ma ci furono anche versioni orchestrate congiuntamente da Stravinskij e Ravel nel 1913 e da Šostakovič nel 1960 – la versione che da allora viene comunemente messa in scena, come questa Chovanščina milanese, titolo non infrequente sul palcoscenico della Scala dove torna per l’ottava volta. L’ultima è stata nel 1998 con lo stesso Valery Gergiev che la dirige ora con un allestimento prevalentemente italiano: il regista Mario Martone, le scene di Margherita Palli, i costumi di Ursula Patzak, le luci di Pasquale Mari e le coreografie di Daniela Schiavone. Le immagini video sono della Italvideo Service.
Il colore cupo della vicenda – l’opera inizia con il racconto delle efferatezze compiute dagli Strel’cy e con la denuncia della congiura contro lo zar dettata a un terrorizzato scrivano dal boiaro Šaklovityj – prevale in questa messa in scena, in una specie di Blade Runner (con inquietanti velivoli di ricognizione che solcano i cieli plumbei e fiamme dalla sommità dei grattacieli) e Independence Day (con scheletri di edifici e le rovine di viadotti crollati in primo piano). Che una vecchia vicenda del XVII secolo rispecchi lotte di potere sempre attuali è sottolineato dal regista con l’uso di armi moderne e degli immancabili telefonini: la danza delle persiane che allietano il principe Chovanskij qui è resa in un numero di burlesque da giovani escort che non rinunciano a farsi un selfie col morto dopo che una di esse – che a un certo punto era apparsa travestita da zarevna all’allucinato Chovanskij – lo ha ucciso con lo stesso fucile che l’uomo aveva utilizzato per la caccia alle anatre.
Martone dimostra la sua abilità nel costruire affreschi grandiosi con un efficace movimento delle masse corali, ma include anche particolari teatralmente significativi, come la presenza della zarevna Sof’ja con Aleksej e Pietro, o l’apparizione di Chovanskij in una gabbia per il suo ultimo discorso agli Strel’cy. Il regista risolve il finale del secondo atto, quello mancante, con un sipario nero dietro il quale viene ripetuto il coro dei monaci neri fuori scena. Non giustificabile invece è invece la gabbia in cui è rinchiusa Marfa nel terzo atto. Nonostante qualche soluzione poco convincente, il regista riesce a dare coerenza a una vicenda che ha non pochi aspetti di inverosimiglianza e lontananza dalla nostra sensibilità moderna per quanto riguarda la disputa teologica tra riformatori e “vecchi credenti” che vanno lietamente al massacro per inezie dottrinali. Il pessimismo dell’autore è comunque chiaramente messo in luce.
In Chovanščina, ancor più del Boris Godunov, il coro è protagonista assoluto. La lunghezza e complessità degli interventi e la difficoltà della lingua non sono stati un ostacolo per il maestro Bruno Casoni e per i suoi coristi. Ci sono stati momenti che hanno lasciato il pubblico in una stupefatta sospensione prima di sfogare in una meritata ovazione a sipario calato.
I meriti di Valerij Gergiev in questo repertorio e in quest’opera in particolare già si conoscevano, ma qui l’orchestra della Scala ha superato di gran lunga ogni aspettativa, con le aspre armonie e i lancinanti colori dell’orchestrazione di Šostakovič, il compositore che ha reso al meglio gli abbozzi dell’autore, rendendo la sua versione quella definitiva. La tensione drammatica raggiunta dal direttore russo si è stemperata nei momenti in cui l’orchestra si accennano i nostalgici temi popolari russi che affiorano nella modernissima partitura. Nella sua edizione Gergiev ha ripristinato la scena del pastore luterano, ma ha espunto la ballata di Kuz’ka.
L’ottimo esito della serata si deve anche a un nutrito cast vocale di gran livello che ha visto Mikhail Petrenko delineare con grande padronanza scenica il ruolo dell’arrogante Chovanskij. Sergeij Skorokhodov ha ricoperto la parte del lirico Andreij, uno dei pochi tenori in un’opera dominata dalle voci basse maschili. Eccellente il comparto femminile con l’intensa Marfa di Ekaterina Semenchuk, particolarmente acclamata dal pubblico, il contralto Evgenia Muraveva (Emma) e Irina Vaščenko (Susanna).
⸪