La finta pazza

foto © Gilles Abegg, Opéra de Dijon

Francesco Sacrati, La finta pazza

★★★★★

Digione, Grand Théâtre, 5 febbraio 2019

(registrazione video)

Tra femminismo e trasgender

Il 14 gennaio 1641 si inaugurava a Venezia il primo teatro edificato espressamente per l’opera, genere nato da pochi decenni a cui si convertirono presto anche i teatri di S. Cassiano, dei Ss. Giovanni e Paolo (Grimani) e di S. Moisè, prima destinati alla commedia. Il lavoro con cui veniva aperto il Teatro Novissimo – così appunto si chiamava la sala, ora inglobata nell’Ospedale Civile, che rimase aperta solo cinque anni – fu La finta pazza, opera prima del compositore parmense Francesco Sacrati su libretto di Giulio Strozzi.

Grande fu il successo, con dodici rappresentazioni in 17 giorni e una ripresa dopo il Carnevale. La finta pazza divenne il prototipo dell’opera veneziana in giro per l’Italia. Nel 1645 a Parigi fu la prima opera italiana a essere rappresentata, per poi sparire però per quasi tre secoli ed essere conosciuta solo per il libretto e per le scenografie, ma dopo aver avuto un ruolo fondamentale nella genesi dell’opera francese.

Nel 1983 il musicologo Lorenzo Bianconi ne scoprì la partitura e tre anni dopo alla Fenice fu possibile metterla in scena con la direzione musicale di Alan Curtis e le scenografie ricostruite su quelle ideate da Giacomo Torelli per la rappresentazione originale. Il soggetto intrigherà, tra gli altri, a distanza di quasi un secolo, Cavalli e Händel per le loro rispettive Deidamia (quella di Cavalli nel 1644 nello stesso Teatro Novissimo).

Il dramma è diviso in tre azioni, denominate rispettivamente «protesi», «epitasi» e «catastrofè» (sic), precedute da un prologo: quello veneziano fu cantato da un castrato quale «Consiglio improviso», quello parigino da Aurora e Flora. Achille è nascosto nelle vesti femminili di Filli presso il re Licomede di Sciro: la madre Tetide non vuole che il figlio partecipi alla guerra di Troia e per questo si oppone alle richieste di Giunone e Minerva. Divenuto amante segreto della figlia di Licomede, Deidamia, con la quale ha generato un figlio, Achille viene facilmente smascherato da Ulisse e Diomede, giunti nell’isola sulle sue tracce. Straziata dal pensiero di essere abbandonata da Achille, Deidamia si finge pazza per costringerlo a rimandare la partenza e a sposarla: si presenta bellicosa, finge di essere Elena di Troia, istiga il coro a cantare, finge di affogare, parodizza un lamento, chiama tutti i pazzi a danzare e “rinsavita” presenta il figlio al padre. Achille, come sappiamo, si imbarca per Troia, ma non prima di aver rinnovato i suoi giuramenti: «T’amerò, se t’amai, | negl’amori, e nell’armi, in guerra, e in pace | e consorte, e seguace».

«L’opera inaugura la lunga fortuna di travestimenti e scambi di identità sessuale sui palcoscenici veneziani del Seicento. L’eroe Achille è presentato sotto le vesti di un’ancella e l’ambiguità era tanto più riuscita in quanto il suo primo interprete, a detta di Maiolino Bisaccioni, era “un giovanetto castrato venuto da Roma […] di vago aspetto sì che sembrava un’Amazzone, ch’avesse misti i spirti guerrieri con le delicatezze femminili”. Al rude Achille del libretto di Giulio Strozzi lo scambio di identità non va molto a genio, quando confessa (II,2): “io per me non vedea l’ora | di tornar maschio guerriere”. Egli però riconosce subito dopo, senza scandalizzarsi troppo, che altri non la penserebbero così e “resterian femmine ogn’ora”, in quanto è pur sempre una cosa “dolce” il “cambio di Natura”: “quanti invidiano il mio stato | per far l’uomo e la donzella?”» scrive Marco Emanuele. «La finta pazza non è solo importante per il suo disinvolto ‘transgenderismo’, ma anche perché contiene la prima scena di pazzia pervenutaci in un melodramma. Preceduta dalla mai rappresentata Finta pazza Licori di Monteverdi, sempre su libretto di Giulio Strozzi, la follia di Deidamia costituiva il pezzo forte dello spettacolo e proverbiale rimase la bravura della star Anna Renzi, per la quale la parte fu creata» (1). Continua Marco Emanuele: «Negli sproloqui surreali di Deidamia, esemplati sulle scene di pazzia delle commedie dell’arte, il cambiamento improvviso di affetti e situazioni immaginate, e l’accozzaglia apparentemente disordinata che ne deriva, riflettono tutti i luoghi tipici del melodramma veneziano, celebrato come nuova fonte di divertimento. Continuamente l’illusione scenica si spezza e, come avviene di frequente in altri passi del libretto, il personaggio cita direttamente la realtà-finzione dello spettacolo di cui è attore: “Che melodie son queste? | Ditemi? Che novissimi teatri, | che numerose scene | s’apparecchiano in Sciro?”, chiede stupita Deidamia (III,2)».

La partitura ritrovata è l’unica delle opere del Sacrati e si riferisce alla versione itinerante, probabilmente diversa da quella della prima veneziana e più simile a quella parigina. Sono di Leonardo García Alarcón le più importanti esecuzioni di opere di Cavalli degli ultimi tempi e qui in questa ricostruzione della partitura di Sacrati si sente tutta la sua conoscenza di questa musica e della relativa prassi esecutiva. Il direttore argentino colma alcune lacune della partitura con pagine pubblicate separatamente e un’ouverture di Cavalli. Dopo le prime solenni note, la sinfonia diventa un vivace tempo di danza che Alarcón, alla testa della sua Cappella Mediterranea, dipana con verve e proprietà di linguaggio. Pur con un organico relativamente ridotto, non mancano i colori che individuano i diversi quadri di questa vicenda oscillante tra il patetico e l’ironico. Non pochi sono gli interventi del maestro concertatore, ma indistinguibili da quelli originali perché perfettamente in stile. I drastici tagli effettuati – ed è un peccato per l’arguto libretto di Giulio Strozzi – portano a sole due ore la durata di una musica dove nel flusso del recitar cantando si inseriscono pagine di struggente commozione.

Molto ben caratterizzati sono i personaggi, qui sostenuti da specialisti di questo repertorio. La finta pazza Deidamia trova in Mariana Flores una cantante di temperamento, dalla vocalità generosa e dalle sicure agilità. Nell’impegnativa parte il soprano argentino non mostra alcuna fatica vocale e come personaggio proto-femminista tiene testa ai maschi che vorrebbero domarla. E di maschi ce ne sono parecchi in questo lavoro, a iniziare dai due greci appena sbarcati. Uno è lo scafato Ulisse, che si accorge presto del travestimento in abiti femminili di Achille e che ha l’ultima maliziosa parola sulla morale della storia: «Fallo non è di donna | bramar consorte un nerboruto Achille | l’amerebbero mille: | fallo sarebbe stato | non aver Deidamia Achille amato». Nella figura dell’eroe dal multiforme ingegno si cala, per una volta senza patemi amorosi, Carlo Vistoli il cui registro di controtenore risuona sempre più naturale, il fraseggio elegante, il timbro grato e la dizione impeccabile. Un altro controtenore italiano che vanta un impareggiabile uso della parola è Filippo Mineccia, Achille, che si trasforma da leone umiliato nelle vesti di timida donzella a eroe che smania per la guerra. Il timbro caldo e il colore scuro della voce di Mineccia servono al meglio il personaggio sfaccettato e sono sue le pagine più elegiache, come la disarmante dolcezza dell’arioso «Se tu m’udissi, io ti direi» o i numerosi duetti con Deidamia, tra cui «Felicissimi amori», che fanno nascere il sospetto che sia da attribuire a Sacrati il sublime «Pur ti miro» dell’Incoronazione di Poppea monteverdiana, come insinua ad esempio Alan Curtis.

Completamente diverso il carattere un po’ guascone di Diomede, tenore che ha in Valerio Contaldo interprete efficace, timbro squillante e voce di grande prestanza. L’Eunuco del falsettista Kacper Szelążek e la Nodrice di Marcel Beekman, tenore en travesti, danno vita alle parti comiche immancabili nell’opera dell’epoca, e qui irresistibili, tanto che a Beekman è concesso un numero solistico di fronte al sipario dopo aver dialogato con gli spettatori in platea prima della terza parte. Salvo Vitale è il sensibile Capitano (e Coro) mentre vocalmente ingrato è il Licomede di Alejandro Meerapfel. Di livello discontinuo sono i rimanenti interpreti.

La messa in scena di Jean-Yves Ruf è sobria e dosata, ma attenta alla recitazione e la scenografia di Laure Pichat punta su tendaggi e la chioma di un albero per l’ultima parte, nulla dei macchinari che il Torelli avrà a suo tempo inventato. Più fantasia si riscontra nei costumi di Claudia Jenatsch.

Le nostre conoscenze sull’opera di 380 anni hanno fatto un passo in più con la riscoperta di questo anello mancante tra Monteverdi e Cavalli. Il Sacrati, autore di sei libri di madrigali e arie prima del suo debutto come compositore teatrale, per il Teatro Nuovissimo scriverà ancora Il Bellerofonte (1642) e La Venere gelosa (1643) e per il Grimani L’Ulisse errante (1644) su testo di Giacomo Badoero. Lo stesso Badoero nella prefazione al suo libretto aveva proposto un paragone astronomico tra Sacrati e Monteverdi, morto pochi mesi prima: «Ben era di dovere che per vedere gli splendori di questa Luna tramontasse prima quel Sole».

(1) Si tratta della prima primadonna della storia dell’opera, citata dallo Strozzi nella sua prefazione al libretto quando dice del «sig. Francesco Sacrati parmigiano, il quale meravigliosamente ha saputo con le sue armonie adornar i miei versi, e con la stessa meraviglia ha potuto ancor metter insieme un nobilissimo coro di tanti esquisitissimi cigni d’Italia. E fin dal Tebro nel maggior rigor d’un’orrida stagione ha condotta su l’Adria una soavissima sirena, che dolcemente rapisce gli animi, ed alletta gli occhi, e l’orecchie degli ascoltatori. Dalla diligenza del sig. Sacrati deve riconoscere la città di Venezia il favore della virtuosissima signora Anna Renzi». Lo stesso libretto riporta tre sonetti del letterato Francesco Melosi dedicati «alla celebre cantatrice di Roma». Il secondo termina così: «Langue ogni saggio a questa pazza avante, | e desia per aver suon più giocondo | l’armonia delle sfere esser baccante. | Stolto, chi vago di saper profondo | sui fogli a impallidir stassi anelante, | s’oggi una pazza idolatrar fa il mondo».

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