I Puritani

Vincenzo Bellini, I Puritani

★★★☆☆

Parigi, Opéra Bastille, 10 settembre 2019

Bellini torna a Parigi

La produzione è del 2013, quando venne data per la prima volta all’Opéra National di Parigi nonostante I Puritani fossero nati proprio nella capitale francese il 24 gennaio 1835 al Théâtre de la Comédie Italienne con esito trionfale – anche grazie all’eccezionale quartetto di interpreti: Giovanni Battista Rubini, Giulia Grisi, Antonio Tamburini e Luigi Lablache. Quella sera erano riusciti a realizzare il programma che Bellini aveva dettato al Pepoli: «il dramma per musica deve far pianger, inorridire, morire cantando». E infatti l’ultima opera del compositore catanese nutre i personaggi di passioni e sentimenti più che osservare la realtà storica che non sembra interessare molto né al librettista né al musicista. Ultima opera di Bellini, sì, ma è solo la prematura scomparsa del compositore (avvenuta otto mesi dopo) che ne fa, ai nostri occhi, il testamento artistico, mentre invece non è che un’opera di transizione in cui il musicista mette in campo significative innovazioni formali, come spiega puntualmente Damien Colas in uno scritto nel programma di sala.

Dopo aver dato il meglio di sé nel repertorio comico, in questo approccio a un mondo melanconico e lunare («fond de boutique de Bellini» lo definisce ancora il Colas), Laurent Pelly non dà la sua prova migliore: il suo allestimento ha momenti di interesse accanto ad altri meno riusciti, come il ridicolo avanti e indietro delle guardie ed Enrichetta oppure quando Riccardo e Giorgio si tolgono le giacche e restano in t-shirt nera per intonare «Suoni la tromba, e intrepido» nel finale secondo. Il regista dichiara di partire dalla musica essendo l’intrigo al limite del risibile, ed è vero. Ecco quindi la storia raccontata secondo gli occhi di Elvira, tutto è centrato sulla sua vicenda. L’universo mentale della protagonista è definito dalla scenografia che ricorda una gabbia che imprigiona la povera ragazza, quasi la proiezione di un incubo. Un apparato scenografico su una piattaforma rotante, quello di Chantal Thomas, formato da una specie di grande gazebo, uno scheletrico castello medievale che confonde interni ed esterni e non aiuta molto la proiezione delle voci. Nel primo atto vediamo ruotare quasi in continuazione la complessa struttura di archi, stanze, passaggi merlati, scale. Nel secondo sta isolata la stanza di Elvira mentre poi dall’alto una scheletrica parete con camino acceso. Nel terzo atto siamo nel cortile della fortezza con un’alta torre sulla destra. Il suggestivo gioco luci di Joël Adam connota lo scarno spazio mentre i costumi, dello stesso Pelly, declinano tutte le sfumature di grigio, marron e nero con l’eccezione del bianco dell’abito di Elvira.

Riccardo Frizza ha l’arduo compito di adattare quest’opera essenzialmente intimista alle dimensioni colossali della sala. L’equilibrio della buca con le voci in scena lo porta ad allungare i tempi e a perdere di pathos nella lettura, con dolorosi tagli, della partitura che risulta corretta ma non trascinante e con un’orchestra a volte un po’ pesante. Elsa Dreisig è un’Elvira di eccellente presenza scenica, il timbro è luminoso e aperto, mai metallico. La dolcezza dei legati e delle mezze voci si affianca agli acuti precisi seppure un po’ secchi, ma è l’evoluzione del personaggio, che cresce passando dal fatuo «Son vergin vezzosa» del primo atto alla scena della pazzia del secondo alla “guarigione” nel terzo, il maggior merito del soprano franco-danese. In alternanza a Javier Camarena, il secondo Arturo del cast è quello di Francesco Demuro, non pienamente soddisfacente per una voce che non conosce molte sfumature e arriva agli acuti assottigliandosi, con una linea vocale non sempre omogenea e un timbro un po’ nasale. Diversi e complementari i due baritoni: Nicolas Testé è un Giorgio paterno e nobile che utilizza in maniera sapiente un volume di voce non enorme, Igor Golovatenko delinea invece un Riccardo fiero e vigoroso con una voce proiettata e aperta. Su un livello inferiore si sono dimostrati gli altri interpreti. Il coro, trattato in maniera grafica, quasi pedine di una scacchiera con le donne che si muovono a passettini sotto le ampie gonne e sembrano scivolare sulla superficie e con la ridicola coreografia delle alabarde dei maschi, ha dato prova di compattezza vocale sotto la cura di José Luis Basso.

Applausi calorosi per tutti e ovazioni per la protagonista femminile.

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