Tristan und Isolde

Richard Wagner, Tristan und Isolde

★★★★☆

Bologna, Teatro Comunale, 24 gennaio 2020

Valčuha trionfa all’apertura della nuova stagione del Comunale

Cinque opere di Wagner, una per ogni stagione, «per valorizzare lo storico legame di Wagner con il nostro Teatro partendo dalle opere […] che furono rappresentate per la prima volta in Italia proprio a Bologna» ha annunciato Fulvio Macciardi, sovrintendente del Teatro Comunale.

Si inizia con Tristan und Isolde, una coproduzione con il Théâtre de la Monnaie. A Bruxelles lo spettacolo era stato presentato nel maggio dell’anno scorso con grande successo sotto la direzione di Alain Altinoglou e gli stessi protagonisti principali, Ann Petersen e Bryan Register, anche se qui Tristano appartiene al secondo cast, essendoci nel primo Stefan Vinke.

L’aspetto visivo è affidato all’ideazione artistica di Alexander Polzin e al complesso gioco di luci e ombre di John Torres. Dopo Bill Viola e Anish Kapoor il Tristan è oggetto di ricerca visuale sul piano astratto e di esplorazione dei misteri dei sentimenti umani. L’aspetto filosofico della vicenda si carica di simboli ed arcani riferimenti alchemici (Tristano all’ultimo atto ha il viso coperto di oro) in questa lettura del regista Ralf Pleger al suo esordio italiano. Il visual artist Polzin crea tre atti nettamente distinti: nessuna nave al primo atto ma una parete a specchio che riflette un soffitto di stalattiti di ghiaccio che nel tempo accrescono fino a toccare il pavimento diventando traslucide colonne luminose; nel secondo un’enorme radice diventa albero animato quando ci accorgiamo che i rami sono dei danzatori seminudi dipinti dello stesso bianco; al terzo atto la parete di fondo è traforata e da ogni foro esce un cilindro trasparente. Anche qui giocano un ruolo determinante la luce, i colori e le ombre che accompagnano il pathos della vicenda.

La produzione bolognese è enigmatica e aperta all’interpretazione personale quanto l’opera stessa: qui non c’è bisogno di effettive pozioni d’amore per provocare l’evento magico, come se l’innamoramento fosse qualcosa che viene dall’interno, implacabile, senza nessuna logica o ragione e frutto di un profondo desiderio interiore. È solo la musica che porta il peso della sua convinzione. Nelle dichiarazioni del regista il filtro di Tristano e Isotta è l’inizio di un viaggio psichedelico che permette loro di entrare in un altro livello di coscienza catapultandoli in un’altra realtà. L’idea del regista rappresenta un affascinante punto di partenza per una messa in scena visivamente fantasiosa. Quella che viene trascurata è la regia attoriale e il rapporto tra i personaggi, sempre distanti, senza interazione personali. Il Liebestod di Isotta avviene con la cantante in piedi al proscenio come in una esecuzione concertistica. Tutti si muovono molto lentamente, un po’ alla Bob Wilson, ma non con gesti ieratici, bensì come in una pantomima al rallentatore. Costumi fantasiosi ma discutibili quelli di Wojciech Dziedzic, come i mutandoni/cintura Gibaud per i danzatori, la giacca luccicante che trasforma Re Marke in un Elton John senza occhiali, il pastore rinchiuso in un cuscino semovente.

Sul piano musicale è un trionfo personale per Juraj Valčuha, che riceve grandiose ovazioni dopo aver concertato con una tensione palpabile e con grande sensibilità le quattro ore di musica. Gli interventi strumentali prendono una luce particolare, come quando il corno inglese del pastore sembra quasi una Sequenza di Luciano Berio nelle sue arcane modulazioni. L’orchestra del Comunale risponde a meraviglia sotto la sua bacchetta esibendo una cura dei timbri degni di una grande orchestra sinfonica.

In generale per gli interpreti di Tristano e Isotta è già un gran merito arrivare alla fine. Qui Ann Petersen delinea una drammatica Isotta di ottima presenza scenica e potente vocalità anche se la voce, che pure ha grande proiezione risulta un po’ indietro in gola e il timbro di conseguenza non è tra i più piacevoli. Nel complesso però la sua performance è convincente e molto apprezzata dal pubblico. Molto aperta e quasi stentorea invece la vocalità del Tristano di Stefan Vinke, che però parco di colori e con incertezze di intonazione soprattutto nel primo atto. Una lezione di stile è quella del Re Marke di Albert Dohmen che nei suoi interventi dimostra la bellezza di un canto espressivo fondato tutto sulla parola. Autorevole Kurwenal è quello di Martin Gartner e Brangäne di lusso Ekaterina Gubanova. Nelle parti di Melot e di un pilota della nave Tommaso Caramia ha gestito una notevole voce baritonale, mentre più lirica è quella del pastore e del marinaio di Klodjan Kaçani, prossimo Nemorino in questo stesso teatro.

L’impegno dello spettacolo non ha spaventato il folto pubblico bolognese che è rimasto fino alla fine per poi tributare calorosi applausi agli interpreti e al direttore. Un po’ meno convinti ma senza punte di dissenso quelli per gli ideatori visivi.

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