Ottocento

Don Carlo

 

 

 Giuseppe Verdi, Don Carlo

Milano, Teatro alla Scala, 7 dicembre 2023

(diretta televisiva)

«Imbarazzante concerto in costume». «Spettacolo da ascoltare, non da vedere». «Serata bicefala tra vista e udito»

Non c’è recensione dello spettacolo inaugurale della stagione milanese che non riporti questa dicotomia tra una “regia musicale” di grandissimo livello e una “regia visiva” a dir poco conservativa, tanto che chi si fosse messo a guardare la diretta televisiva del 7 dicembre 2023 avrebbe pensato di trattarsi di un Sant’Ambroeus di cinquant’anni fa.

Terzo Don Carlo nel giro di pochi giorni in teatri non distanti tra loro – dopo quello del Circuito Emiliano e quello dell’OperaLombardia, anche il Teatro alla Scala inaugura per l’ottava volta la sua stagione con il capolavoro di Giuseppe Verdi – rigorosamente nella versione italiana del 1884 in quattro atti, vista ben 204 volte nella sala del Piermarini, ancora si aspetta di ascoltarne la versione originale in francese e in cinque atti, comunemente rappresentata invece nei teatri d’oltralpe, come è successo a Ginevra pochi mesi fa.

La trasmissione televisiva è stata fortemente disturbata per il maltempo nella zona in cui mi trovavo, tanto da non poterne fare una cronaca attendibile. Riporto quindi le opinioni di alcuni critici presenti in teatro di cui condivido l’opinione su quello che sono riuscito a vedere. Sulla regia di Lluís Pasqual così scrive Domenico Ciccone di OperaClick: «Limitandoci agli allestimenti visti negli ultimi 30 anni, dopo l’ipertrofismo folclorico di Zeffirelli, il concettualismo dei doppi di Stephane Braunschweig e il minimalismo in saldo di Peter Stein, abbiamo ora l’appagante didascalismo di Lluís Pasqual. Appagante, beninteso, per tutti coloro che continuano a invocare il ritorno all’Epoca d’Oro del Melodramma dove lo strapotere dei registi era di là da venire e si metteva in scena solo ed esclusivamente quello che l’autore voleva. E qui l’occhio viene per l’appunto appagato dai magnifici costumi di Franca Squarciapino, splendenti di oro e di un nero abbagliante (perdonateci l’ossimoro), con gorgiere e gioielli che evocano tutto il fasto della corte spagnola di metà seicento. Soluzioni di pregio vengono anche dall’impianto scenico di Daniel Bianco, una grande torre di alabastro che ruotando su sé stessa si apre a rivelare i vari ambienti librettistici, con contorno di cancellate istoriate, statue, busti e una gigantesca pala d’altare barocca dove alla fine dell’Autodafè troveranno posto Filippo ed Elisabetta (e grande merito va riconosciuto alle maestranze scaligere nella realizzazione pratica dell’impianto scenografico). Ma a fronte di tutto ciò la regia propriamente detta latita parecchio, se non del tutto, e quando qualcosa si vede, si vede proprio male. Pasqual ha in più occasioni dichiarato di aver voluto addentrarsi nelle quinte del potere e anche per questo mostrare l’Autodafè non come una sfilata di regime ma facendone vedere il backstage, la preparazione. Francamente non abbiamo trovato nulla di tutto ciò in una regia estremamente rinunciataria, dove lo sfarzo di corte verrebbe evocato con citazioni più o meno palesi dei dipinti di Velazquez, specialmente nella scena di San Giusto al primo atto che vede un ballo con tanto di nani e meninas reali a parodiare quanto si ascolta nella canzone del velo. Per il resto, il coro viene regolarmente lasciato ai lati del palco a mo’ di contorno fisso, i personaggi davanti al proscenio più o meno fissi anche loro, in piedi o stesi in terra. Una mano registica propriamente detta dovrebbe poi fare in modo che non si verifichino cose come Filippo II che intima a Posa «Restate!» avendolo avuto sempre alle sue spalle (e quindi con evidenti poteri divinatori nel sapere che stava andando via), o l’ingresso anticipato dello stesso Posa nella scena del carcere mentre sta scendendo la grata che dovrebbe delimitare il carcere stesso, tale che lo si vede attendere pazientemente prima di avanzare e aprire un cancelletto. Ma il culmine si raggiunge proprio nella scena dell’Autodafè, quando sotto il coro «Spuntato ecco il dì d’esultanza» entra una pletora di dame di corte e frati domenicani che si stendono informalmente a terra modello scampagnata, mentre gli eretici incappucciati vengono scortati da guardie reali a precipitare dentro una botola (metafora dell’averno infernale?) nella quale entrano con fin troppo evidente saltino effetto «Oplà!». Botola che poi si incendierà nel finale davanti alla pala d’altare umana succitata, con effetto barbecue di campagna; una cosa francamente imbarazzante che giustifica da sola i sacrosanti fischi indirizzati al regista nelle uscite finali».

Non molto diverso è quanto scrive Alessandro Mormile su Connessi allìOpera: «Stupisce che, in tempi in cui il dibattito fra tradizionalisti e sostenitori del Regietheater si fa sempre più acceso, chiedendosi dove debba posizionarsi l’ago della bilancia per trovare un giusto equilibrio, questo allestimento, che nasce forse con l’intento di accontentare tutti, fallisce il suo obiettivo, confermando come attenersi alla tradizione sia talvolta più difficile che provocare. Questo Don Carlo nasce infatti seguendo una linea d’intenti giusta, quella di mettere in evidenza la rivalità fra due poteri forti, quello dello Stato e della Chiesa, che condizionano anche i personaggi, smarriti e soli dinanzi all’incomunicabilità dovuta a contrasti politici e alle conseguenze di amori impossibili o non corrisposti; il tutto frutto di un dolore che diviene smarrimento d’anime. Ecco perché scegliere la via della tinta scura e monocroma potrebbe sembrare plausibile, se non fosse che regia e impianto scenico stesso appaiono troppo rigidi e monotoni: nulla altro che una torre centrale in finto alabastro che aprendosi a spicchi su una pedana girevole mostra cancellate finemente intarsiate e microcosmi spaziali, avvolti per lo più nelle tenebre, dove la vicenda si svolge. Neri sono anche i costumi in stile rinascimentale e l’oscurità è rotta solo da pennellate auree che, soprattutto nella scena dell’autodafé, si palesano nel gigantesco retablo dorato che domina la scena come segno di potere, fino a quando gli eretici sanguinanti vengono buttati in una botola e poi abbrustoliti con un improbabile fuocherello da caminetto artificiale mentre in sala vengono date le mezze luci al momento in cui la voce dal cielo invoca la pace divina per le «povere alme» sacrificate. Per altro anche le coreografie che mostrano, nel secondo quadro del primo atto, le ancelle della Principessa d’Eboli danzanti con un gruppo di nani lasciano alquanto a desiderare. La staticità dell’impianto, pur nella continua modulazione degli ambienti, trasmette freddezza, tanto che il tentativo di far tradizione viene a perdersi in quadri viventi che, come appunto quello dell’autodafé, seguono schematismi confusi nel credere che la pomposità della cerimonia debba esaurirsi in un cartone preparatorio del quadro stesso. Fra le molte scelte registiche discutibili ne citiamo due: quando Filippo II appare, ad apertura di sipario sul terzo atto, non solo ma con Eboli in vestaglia che gli consegna il cofanetto a prova del tradimento di Elisabetta, e quando il Grande inquisitore si presenta come fosse un porporato mentre dovrebbe essere un frate in abiti umili seppur detentore di un potere così grande da condizionare tutto e tutti. Segno che, in ambito registico, provocare è facile, ma se all’opposto si sceglie, come in questo caso, la via della tradizione allora bisogna saperlo fare bene». 

Rincara la dose Elvio Giudici: «Ma la tendenza della Scala attuale di scoperchiare sepolcri e riesumare gente come Kokkos, Marelli, De Ana, o riconfermare una Irina Brook firmataria d’uno spettacolo come Il matrimonio segreto (per non dire dell’orripilante regia appena vista all’Elfo d’un brutto testo pasticciato dal Gabbiano), e si potrebbe continuare: tendenza riprovevole, che traccia un percorso che neppure è passatista, semplicemente non è percorso, solo mesto pellegrinaggio in un cimitero. Come si possa pensare di fare del buon teatro accoppiando grande se non grandissimo esito musicale a un totale nulla sul palcoscenico, francamente non riesco a capirlo e tanto meno ad accettarlo. I bui anni del non-teatro durante la gestione Muti paiono sempre più essere la stella polare della Scala, all’insegna della colossale idiozia “la regia non deve infastidire la musica”, frase che in quei diciannove anni abbiamo sentito fino a farci disintegrare le orecchie (e non solo), negazione del concetto stesso di Teatro».

La direzione di Riccardo Chailly è elogiata ma con alcuni distinguo, come quelli di Stefano Jacini sul Giornale della musica: «Fin dalle prime battute Chailly ha ottenuto dall’orchestra il giusto colore brunito, talvolta misterioso. Straordinaria la sezione dei violoncelli, come esemplare il lungo preludio del quarto atto d’impressionante impatto sonoro, ma nitido in ogni particolare. La puntigliosità del direttore nel leggere ogni più piccolo dettaglio della partitura ha però creato talvolta effetti forse non voluti coi cantanti, un solo caso per tutti: il terzetto del primo atto dopo l’arrivo di Rodrigo e il suo «Ecco il regal suggello, i fiordalisi d’oro». Lo scambio mondano e disinvolto tra i personaggi, che dovrebbe risultare frizzante e giocoso, è rimasto penalizzato da un’analisi talmente dettagliata, che ha comportato un rallentamento dei tempi, appesantendo il tutto, e perdendo di vista la tensione dell’intero arco drammaturgico. Squilibri che si sono ripetuti più volte nel corso dell’opera». 

Unanimi invece i consensi sulle due interpreti femminili. Anna Netrebko (Elisabetta) sfoggia il suo glorioso strumento di cui non si sa se ammirare di più la sontuosità del timbro, l’eleganza delle mezze voci o la varietà di sfumature espressive. Il suo «Tu che le vanità» viene giustamente osannato dal pubblico. Come Eboli ritorna ancora una volta Elīna Garanča, vocalmente perfetta sia all’inizio con le galanterie e le agilità della “canzone del velo”, agguerrita poi nel terzetto, infine in «O don fatale» domina la tessitura più grave con grande agio. Il Don Carlo di Filippo Meli rivela luci ed ombre: fraseggio ricercato e timbro luminoso ma i suoni sono un po’ ondeggianti e gli acuti non sempre raggiunti in modo naturale. A Luca Salsi manca l’eleganza del Marchese di Posa, ma l’interprete è sempre attento alla parola ed espressivo. Non in perfetta forma vocale è Michele Pertusi (Filippo II) e infatti nell’intervallo il sovrintendente Meyer annuncia che, pur indisposto, il cantante continua la recita. Il suo «Ella giammai m’amò» risulta più che convincente per la tecnica che permette al basso parmense di raggiungere un risultato di eccellenza nonostante il problema alla gola e le ovazioni del pubblico lo ricompensano dello sforzo. L’Inquisitore, originariamente affidato ad Ain Anger, viene sostituito all’ultimo momento da Jongmin Park, Frate nel primo atto, dalla estensione maggiore in alto che nel grave. Ottimi gli altri interpreti secondari e così pure il coro. 

Opportunamente, Michele Gerardi non ha potuto fare a meno di dire la sua sull’azzardata miscela di ospiti del palco reale: «Purtroppo il palco reale offriva uno spettacolo desolante. Chissà cosa può aver pensato gente simile quando ha assistito alle riflessioni di Filippo II, al duetto con Posa e con l’inquisitore, al meraviglioso finale, solo apparentemente una scena del soprannaturale, in realtà un messaggio che parla all’umanità di ogni tempo: dal 1867!».

Das Rheingold

 

Richard Wagner, Das Rheingold 

Bruxelles, Théâtre Royal de la Monnaie, 31 ottobre 2023

★★★★★

(video streaming)

Anelli e buchi neri: un altro Wagner per Castellucci

Il frastuono di un grande anello di metallo che ruota su sé stesso sul palcoscenico è il primo evento sonoro che scoprono gli spettatori nel buio della sala. Poi, come provenendo da chissà quali profondità ctonie, emerge il mi♭ dei contrabbassi mentre le tre Figlie del Reno, doppiate da tre danzatrici, si stagliano nell’oscurità tutte dipinte d’oro. Alberich è incatenato a una putrella e la liquidità del fiume è suggerita dall’illuminazione. Così ha inizio Das Rheingold, la prima parte del ciclo completo del Ring des Nibelungen che in due stagioni ritornerà a Bruxelles 32 anni dopo la precedente produzione di Herbert Wernicke e Sylvain Cambreling. 

Direttore musicale della Monnaie e grande wagneriano – a Bruxelles ha diretto Lohengrin, Tristan und Isolde e Parsifal – il maestro Alain Altinoglu offre un’esecuzione in cui l’intensità del messaggio va di pari passo con una padronanza assoluta dell’architettura musicale e un senso implacabile della narrazione. Il discorso musicale di Wagner può diventare facilmente prolisso, ma Altinoglu evita questa trappola e scolpisce questo lungo corpo sonoro con fluidità, chiarezza dei motivi, attacchi lancinanti, transizioni vigorose e colori superbi così da creare un universo sonoro appassionante. Non è la prima volta che dirige un lavoro messo in scena da Romeo Castellucci e la convergenza di intenti tra il direttore franco-armeno e l’artista italiano conduce qui a risultati memorabili.

Dopo la prima scena, quella con gli dèi è ambientata in una vasta sala dalle pareti immacolate e decorata con fregi e sculture ellenistiche, del Medioevo o del Rinascimento, vestigia di un lontano passato in questo presente senza tempo: Castellucci universalizza la narrazione, come a dire che questa è una storia che si è ripetuta nella storia e che continuerà a ripetersi. Sul pavimento, si contorcono decine di corpi nudi, una superficie brulicante su cui Wotan e Fricka, vestiti con abiti neri e corone, hanno difficoltà a camminare. Sarà il corso mutevole del fiume? saranno insidiose sabbie mobili? un’umanità letteralmente calpestata, schiavizzata da un’élite corrotta dal potere? Chissà, Castellucci si diverte a porre i suoi enigmi. Come quando Loge lancia uova piene di inchiostro nero sulle foto di illustri interpreti wagneriani del passato e su quella del Wotan di Gábor Bretz che lo sta fronteggiando in scena. O infila uova nell’unico calzino sinistro (una scorta per un futuro lancio che però non avverrà?) o, ancora, quando dall’alto scendono due giganteschi alligatori neri nella scena del rilascio di Freia, e quando Fafner uccide Fasolt uno dei due sauri crolla a terra. Forse è il “drago” in cui si tramuterà il gigante nella seconda giornata?

Il regista/scenografo/costumista dopo aver dimostrato un certo suo sadismo nei confronti del pubblico,  lo dimostra anche verso i cantanti ai quali chiede molto  dal punto di vista fisico ed è un loro merito se la vocalità rimane intatta e sicura in tali condizioni: ad esempio, l’Alberich di Scott Hendricks canta sospeso in aria per i polsi durante il confronto con Wotan e Loge, completamente nudo e imbrattato di vernice nera. Una scena che sarebbe stata inconcepibile pochi decenni fa quando nessun cantante avrebbe accettato simili condizioni. Oggi invece Castellucci è in grado di portare il suo cast a spingersi al di sopra e al di là di ogni limite per offrire performance così fisicamente disinibite.

Nella drammaturgia di Christian Longchamp la forgia di Mime avviene realmente con dei macchinari che trasformano barre di acciaio in grandi anelli che ritroveremo nel finale quando uno di questi diventa un foro nel pavimento in cui si lasciano cadere gli dèi. Nessun ponte con i colori dell’arcobaleno: invece di ascendere al Walhalla, uno alla volta vengono inghiottiti da un buco nero sotto lo sguardo sardonico di Loge che se ne guarda bene di buttarsi anche lui lì dentro grazie al suo ruolo di semidio. In t-shirt e calzoncini corti, Loge è un ironico bellimbusto a cui Nicky Spence fornisce una voce squillante ed espressiva. Dell’Alberich si è già detto e la voce di Scott Hendricks lo rende memorabile. Ancora più scuro qui è il timbro di Gábor Bretz, un Wotan introverso ma implacabile. A tutto tondo la Fricka di Marie-Nicole Lemieux, intensa la Freia di Anett Frisch, efficace il Donner di Andrew Foster-Williams, un po’ meno il Froh di Julian Hubbard, sotto tono invece l’apparizione della Erda di Nora Gubisch. Possenti i due giganti Fasolt e Fafner , dove dispiace che il primo (Ante Jerkunica) debba uscire di scena per mano del secondo (Wilhelm Schinghammer) Ben individuate le personalità delle tre Rheinmädchen: Eleonore Marguerre (Woglinde), Jelena Kordić (Wellgunde) e Christel Loetzsch (Flosshilde).

Il video è disponibile sul sito del teatro e su youtube. Con molto interesse si aspetta Die Walküre a gennaio.

Mefistofele


foto © Fabrizio Sansoni – Teatro dell’Opera di Roma

Arrigo Boito, Mefistofele

Roma, Teatro dell’Opera, 27 novembre 2023

★★★

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Mefistofele a Roma salvato da Mariotti

Il Mefistofele è uno di quei guilty pleasure che pochi ammettono di amare. Un raffinato intenditore di musica mai confesserebbe che gli piace l’operona di Boito, la quale ha invece molti ammiratori nel pubblico melomane.

Quando nel 1868, diretta dallo stesso autore, il lavoro va in scena alla Scala è un fiasco clamoroso, tanto che Boito ne appronta una seconda versione presentata sette anni dopo a Bologna, la città che aveva ascoltato per prima il Lohengrin nel 1871 e che sarebbe diventata la città più wagneriana d’Italia. I cinque atti incorniciati da un Prologo e un Epilogo vengono ridotti a quattro accorciando e soprattutto sopprimendo alcune parti (che l’autore ha distrutto) che portavano avanti un fumoso programma estetico/politico fortemente materialistico e anticlericale. Sono limate le arditezze metriche di certe pagine, Faust da baritono dotto filosofo e pensatore diventa un tenore amoroso e carico di ideali e aumenta la presenza del personaggio di Margherita. Solo il personaggio di Mefistofele rimane intatto.

Così normalizzato, il Mefistofele a Bologna è un grande successo, grazie anche a una migliore compagnia di canto. Bene andrà anche la ripresa veneziana del 1876, in una terza versione. Titolo frequentatissimo a fine Ottocento, da allora, pur con alterne fortune, è abbastanza presente nei cartelloni dei teatri sia in Italia sia all’estero. In questa stagione è in programma a Cagliari, Venezia e ora a Roma dove nel tempo, tra Costanzi e Caracalla, ha avuto più di trenta produzioni diverse, l’ultima nel 2010.

Ennesima riproposta del mito faustiano in musica dopo Spohr (1812), Lortzing (1829), Mendelssohn (1823), Berlioz (1846), Liszt (1857), Gounod (1859) e Schumann (1862), il fatto che Boito metta il diavolo nel titolo la dice lunga sulla sua scelta. Se la versione di Gounod era, secondo Paolo Isotta, una «raccolta di gradevoli e lenificanti melodie [che hanno] ridotto la complessità metafisica e filosofica del poema [di Goethe] all’aneddoto della storia d’amore di Faust e Margherita, a uso di platee borghesi», quella del miscredente Boito è più fedele all’originale goethiano e ha una sua profondità, trattando del bene e del male, del sublime e del grottesco, della debolezza umana e del desiderio dell’uomo di trascendere la finitudine dell’essere. Scritto pochi anni prima di Nietzsche e in un’epoca in cui, se non ancora morto, Dio veniva messo comunque in discussione, il Faust di Boito cerca di dare significato al concetto di vita in sé.

Il libretto, dello stesso compositore, è scritto nello stile erudito e artificioso della scapigliatura, mentre la musica volge lo sguardo lontano da Wagner di cui Boito ammira sì «la suprema incarnazione del dramma», ma non il linguaggio musicale: il suo tende a una semplificazione nell’armonia e nelle forme, forse conscio della limitatezza delle sue capacità compositive (Boito è essenzialmente un letterato) e dei gusti del pubblico, che di lì a poco sarà conquistato dal Verismo. Ma il suo stile ipertrofico, magniloquente e irrimediabilmente kitsch affascina invece noi cinici ascoltatori moderni.

Ed è quello che è successo all’inaugurazione della stagione dell’Opera di Roma dove è stata la musica nella concertazione di Michele Mariotti a salvare uno spettacolo che si è rivelato non memorabile per gli interpreti e discutibile per la parte visiva. Il suo direttore musicale, per la prima volta alle prese con questo titolo dopo essere stato ammirato per lo più nel repertorio belcantistico, ha saputo trarre il meglio da una partitura a suo modo sperimentale per la discontinuità e la varietà di ambientazioni in cui è calata la vicenda – il cielo del prologo; Francoforte il giorno di Pasqua; lo studio di Faust; un giardino «di rustica apparenza»; il monte delle streghe del primo sabba; la prigione di Margherita; il paesaggio classico del secondo sabba – ognuna connotata da un suo colore e stile musicale. Mariotti dà unità a questo variegato disegno musicale, riesce a preservare la distinzione fra i diversi quadri ma li inserisce in una narrazione fluida dove le invenzioni melodiche si inseriscono con naturalezza. Peccato che la fluidità del discorso musicale venga interrotta dagli interminabili cambi di scena imposti dalla messa in scena di Simon Stone che è alla sua prima regia lirica in Italia – di lui s’era visto Tre sorelle di Čechov al Carignano di Torino – ma ha già affiancato Mariotti nella famosa Traviata di Parigi. 

Il regista tedesco-australiano ha concepito molti spettacoli di grande impatto, l’ultimo è stato il bellissimo The Greek Passion di Salisburgo la scorsa estate, ma questo non sembra convincente: seppure basato su presupposti validi quali quelli di svecchiare una tradizione polverosa, il suo stile registico qui, più che altrove, non rende merito all’opera. Il Mefistofele di Boito è frutto di una visione estetica che non ci appartiene più e bene aveva fatto Robert Carsen a leggere con ironia questo lavoro in cui il sublime è indissolubilmente legato al kitsch, qui entrambi assenti nella lettura fredda e analitica di Stone, realizzata per di più senza grazia. Non si spiega altrimenti la costruzione di un mondo asettico e gelido, perennemente immerso nel bianco di impianti scenografici, disegnati da Mel Page, di rara bruttezza: dal parcheggio multipiano del prologo, alla giostrina del primo atto alla vasca con le palline di plastica colorata, dalle pareti con le radiografie (ma Faust non era un filosofo?) alla rozza gradinata, dai colonnati di gesso alle poltrone-botola della casa di riposo del finale. Di Page sono anche gli incongrui costumi: vada per Mefistofele vestito da clown di Stephen King o in completo Domopak, ma perché Margherita, «fanciulla del villaggio» dalla «ruvida man», è vestita di lamé dorato? E perché Faust, cavaliere «splendidamente vestito», in mimetica?

Negli spazi senza profondità di questa triste scenografia il coro istruito dal Maestro Ciro Visco offre una prova eccellente per intonazione e precisione. Il regista lo tiene schierato sempre immobile – la cosa gli riesce particolarmente bene… – mentre i personaggi vagano senza una qualche indicazione registica: Faust va su e giù come un orso in gabbia, le seduttrici non seducono, anzi sono imbarazzanti, solo Mefistofele si muove con un minimo di disinvoltura.

La produzione prevede due cast per gli interpreti principali e alla prima è John Relyea (si pronuncia relièi) a vestire i panni dell’istrionico protagonista. Il timbro un po’ morchioso non è particolarmente gradevole e ne soffre anche la gamma di colori esprimibili, ma il volume è potente e il fraseggio incisivo, sono suoi gli interventi più caustici dell’opera, da «Son lo spirito che nega» dell’atto primo a «Ecco il mondo» del secondo. Ne esce fuori un personaggio sardonico più che demoniaco, in linea con le intenzioni del compositore, ma certo non memorabile. Faust è, come s’è detto, un tenore in questa versione e Joshua Guerrero investe il suo non travolgente carisma in questo ruolo che non ha particolari difficoltà – con Boito siamo ben lontani dal belcanto italiano – essendo in parte declamato, ma con momenti in cui la componente lirica predomina, ed è il caso di «Dai campi, dai prati» del primo atto o «Giunto sul passo estremo» dell’epilogo. Guerrero rivela una certa povertà di colori e fragili mezze voci, è più a suo agio nei momenti passionali con Margherita, ma qui Maria Agresta mette tutti a tacere per la sua maiuscola interpretazione e intensità espressiva. Sarebbe da brividi la sua livida «L’altra notte in fondo al mare» se non fosse disturbata dalle immagini di Faust che si accoppia a una donzella e altre amenità che si vedono attraverso un’apertura dietro a lei. Nelle parti minori si sono distinti Sofia Koberidze (Marta), Marco Miglietta (Wagner) e Leonardo Trinciarelli (Nereo).

Un pubblico particolarmente poco educato – lo spettacolo è iniziato con un quarto d’ora di ritardo ma molti spettatori sono stati ammessi in sala ancora per lungo tempo durante il prologo e alla fine di ogni intervallo si è ripetuta la scena di chi riprendeva il proprio posto o lo trovava occupato con conseguente trambusto, per non dire dei telefonini perennemente accesi – ha applaudito con moderato entusiasmo gli artefici della parte musicale, solo il direttore Mariotti ha ottenuto qualche applauso in più, e buato il regista. Lo spettacolo si potrà rivedere a Madrid essendo una coproduzione del Costanzi e del Real.

Les contes d’Hoffmann

foto © Michele Crosera

Jacques Offenbach, Les contes d’Hoffmann

Venezia,  Teatro La Fenice, 24 novembre 2023

★★★★☆

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L’ultimo Offenbach a Venezia, trent’anni dopo e con lo stesso direttore

Sono così tante le possibili versioni di Les contes d’Hoffmann, che ogni nuova produzione è un caso a sé. Morto prima di riuscire a completarlo, Jacques Offenbach ha lasciato il suo ultimo capolavoro incompiuto e schiere di musicologi hanno tentato di ricostruirlo dandone ognuno una versione differente e talora contrastante con le altre.

C’era quindi molta curiosità per l’atteso spettacolo veneziano inizialmente affidato a quel raffinato concertatore che è Antonello Manacorda, ma purtroppo il direttore torinese ha dovuto rinunciare per un’indisposizione e al suo posto è subentrato all’ultimo momento colui che aveva diretto pochi mesi fa lo stesso titolo alla Scala, ossia Frédéric Chaslin. Il direttore francese ha salvato la situazione – c’era il rischio che l’inaugurazione della stagione saltasse – e gliene siamo tutti grati, ma ha ovviamente riproposto quanto aveva fatto allora e non è stato neppure questa volta esaltante: una direzione di routine, generica e senza grandi sottigliezze. Proprio quello che si era ascoltato a Milano. Aveva diretto l’opera a Venezia già nel 1994 e quella fu la sua prima volta, questa, ha egli stesso dichiarato, è la 732esima! Chaslin si professa un profondo conoscitore dell’opera in tutte le sue versioni e sta provando a realizzarne una propria. La sua è una versione spuria – un misto delle Choudens e Oeser – e con numerosi tagli: rispetto all’edizione “originale” di oltre quattro ore, qui ci sono 2 ore e 35 minuti di musica ripartita in una prima parte di 1h10′ (prologo e atto primo), una seconda di 50 minuti (atto secondo) e una terza di 35 minuti (atto terzo ed epilogo). In questa edizione il finale è drammaturgicamente ancora meno convincente e il personaggio di Giulietta poco definito. 

Quasi contemporaneamente alla Opéra Royal de Wallonie-Liège, che li ha messi in scena con Stefano Poda, e in attesa del ritorno della produzione di Robert Carsen all’Opéra di Parigi fra qualche giorno, nella città lagunare l’allestimento de Les contes d’Hoffmann è affidato al veneziano Damiano Michieletto, che affronta con la sua decisa personalità questa opéra fantastique. Nella sua lettura il poeta Hoffmann è un vecchietto «parcheggiato in una locanda» che incomincia a raccontare dei fantasmi del suo passato, di tre avventure amorose vissute con tre donne diverse in tre diverse città: a Parigi, Olympia; a Monaco, Antonia; a Venezia, Giulietta. Tutte e tre le figure si fondono con quella della cantante Stella in scena per il Don Giovanni in quel momento a Norimberga, dove avviene l’azione del presente.

Olympia rappresenta la prima infatuazione, quella sui banchi di scuola, ed infatti Michieletto ambienta l’episodio della bambola meccanica in una scuola – come aveva fatto nel suo Flauto magico – dove Spalanzani è il maestro e Cochenille il bidello. Il valzer in cui Hoffmann, giovinetto in braghe corte, viene trascinato è una lezione di ginnastica con i cerchi e l’esibizione della bambola meccanica avviene su una danza di numeri e simboli matematici che si staccano dalla lavagna per poi piovere dal soffitto. Il mondo surreale si fonde qui con lo sguardo nostalgico sull’amore adolescenziale.

Anche il secondo atto è ambientato in una scuola, di danza. Antonia infatti per Michieletto non è una cantante, bensì una ballerina costretta a letto – come nella sua Cendrillon a Berlino o nella Rusalka di Christof Loy. Nonostante il tema drammatico, questo quadro diventa vivace per la presenza di piccole ballerine in tutù che irridono Frantz, un caricaturale maître de ballet. Forte è il contrasto tra umorismo e patetismo con la morte di Antonia istigata a danzare dal diabolico Docteur Miracle. Hoffmann qui è un giovanotto nella sua seconda fase della vita, innamorato più dell’idea di amore che della povera fanciulla.

Ritroviamo Hoffmann uomo maturo e senza illusioni nel terzo atto, beffato dalla bella Giulietta che lo imprigiona dietro uno specchio dopo che è stato marcato con una X sul petto dalla maschera del dottore della peste, unico riferimento visibile alla città di Venezia che ospita la vicenda. Nell’epilogo ritornano tutti i personaggi, che un po’ fellinianamente concludono la vicenda: gli spiriti del vino e della birra, i tre diavoli in paillettes, Nicklausse spiritello vittoriano con le alucce irdescenti, le tre donne amate. Nel suo abito da gran sera, boa di struzzo e parrucca rosso fuoco, la diva Stella si scopre non essere altro che il bieco rappresentante del male nella sua ultima incarnazione dopo Lindorf, Coppélius, Miracle, Dapertutto.

La morale del libretto, meglio affidarsi all’arte che alla fuggevolezza dei sentimenti amorosi, è affermata con beffarda ironia in questo spettacolo  che Michieletto ha ideato assieme al suo solito valido team, ossia Paolo Fantin per le sempre sorprendenti scenografie, qui un ambiente in cui si aprono aperture rettangolari, i «buchi di memoria di Hoffmann», da cui si calano oggetti o scende la luce sempre mirabilmente ricreata da Alessandro Carletti. Assieme  ai magnifici costumi di Carla Teti e alle ironiche coreografie di Chiara Vecchi, tutti concorrono alla creazione di uno spettacolo di grande bellezza visuale che cresce di atto in atto fino all’intenso epilogo finale. 

Se Jessica Pratt è stata l’unica interprete dei tre personaggi femminili nella produzione australiana ora ripresa (lo spettacolo è coprodotto da Sydney, Londra e Lione), qui ci sono tre cantanti, molto differenti per personalità e vocalità. Rocío Pérez ha spigliate agilità, timbro luminoso ed è un’Olympia meno meccanica del solito, più simpaticamente umana. Di Carmela Remigio si ammira la partecipazione emotiva al personaggio di Antonia, un po’ meno la vocalità dalla linea discontinua, non migliorata dalla lingua francese, e dai suoni fissi. La parte di Giulietta, qui ridotta, è affidata all’eleganza di Véronique Gens. Paola Gardina è un’ironica Musa con borsone alla Mary Poppins mentre di Giuseppina Bridelli si ammirano l’espressività e la sicura vocalità come Nicklausse. Già Faust due volte a Venezia ed entrambe con Chaslin, Iván Ayón Rivas debutta nella parte eponima delineando un Hoffmann coinvolgente, dal timbro luminoso e dallo squillo poderoso. Anche scenicamente risulta più convincente del solito. Le quattro diverse identità del cattivo trovano in Alex Esposito interprete di eccezione per la proiezione vocale impressionante, il timbro ricco di armonici,  l’articolazione da manuale della frase e la dizione perfetta. A queste si aggiungono le doti da autentico istrione della scena. Indubbiamente i ruoli diabolici si addicono al baritono bergamasco che ha a suo attivo i personaggi di Méphistophélès de  La damnation de Faust di Berlioz e del Faust di Gounod. Anche Didier Peri copre quattro parti – Andrès, Cochenille, Frantz e Pitichinaccio – particolarmente gustosa è quella del maître de ballet Frantz. François Piolino è lo stralunato Spalanzani, Christian Collia è Nathanaël, Yoann Dubruque veste adeguatamente i panni di Hermann e Schlémil, un po’ sbiadito Francesco Milanese come Luther e Crespel. Federica Giansanti è La voce della madre di Antonia, qui anche lei ballerina. Buona prova la dà il coro istruito da Alfonso Caiani.

Pubblico molto caloroso e prodigo di applausi per tutti gli artisti coinvolti e per il Presidente della Repubblica che con la sua illustre presenza ha anche contribuito ad allontanare il rischio dello sciopero previsto. Meglio di così non si poteva sperare.

Alfredo il Grande

foto © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, Alfredo il Grande

Bergamo, Teatro Donizetti, 19 novembre 2023

★★★★★

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Grandissimo successo per una gemma ritrovata

Con il progetto #Donizetti200, che consiste nel rappresentare in ogni edizione un’opera composta dal grande bergamasco nello stesso anno di due secoli prima, il 2023 offriva la scelta tra due lavori: Il fortunato inganno e Alfredo il Grande. Il Festival Donizetti Opera quest’anno ha optato per il secondo titolo. Dopo Pietro il Grande Donizetti affrontava un altro personaggio storico passando dalla Livonia all’Inghilterra in un melodramma eroico che avrebbe segnato il suo debutto a Napoli, la più importante “piazza” operistica italiana del tempo. Quel 2 luglio 1823 l’opera non riscosse alcun successo e non ebbe repliche. Non piacque il verboso e improbabile libretto di Andrea Leone Tottola che ricalcava quello omonimo di Bartolomeo Merelli del 1819 per Simone Mayr, il maestro di Donizetti, a sua volta tratto dall’Eraldo ed Emma (1805) di Gaetano Rossi.

Atto I. Sull’isola di Athelney, nel Somerset, la regina Amalia, seguita dal generale Eduardo, sta cercando in gran segreto re Alfredo, in fuga dai danesi che Io cercano a loro volta dopo aver invaso l’Inghilterra. Pastori e contadini accolgono i due stranieri, di cui ignorano l’identità. In lontananza si ode una marcia militare e poco dopo si vedono sfilare sulle colline truppe danesi. Dopo aver ricordato la sventura dell’invasione, il pastore Guglielmo offre ospitalità ad Amalia ed Eduardo. Chiede soltanto di rispettare «il cupo dolor» di un altro sconosciuto, che da qualche tempo il pastore ha accolto nella sua casa. Nel frattempo, i danesi Atkins e Rivers hanno individuato i due inglesi in incognito. Seguono la regina Amalia e il suo accompagnatore fin da Londra, sperando che le loro ricerche possano condurli ad Alfredo. Lo sconosciuto e proprio lui, Alfredo. Ha visto anche lui le schiere danesi avvicinarsi ed è assalito nuovamente dal timore di essere catturato prima di poter organizzare una riscossa. Ma dopo aver scacciato quei sentimenti negativi si prepara a vendere cara la sua cattura. Senti avvicinarsi qualcuno, si dispone a celare la sua vera identità e a trattenere l’atroce sofferenza che gli è causata da questa forzata clandestinità. Amalia ed Eduardo vengono introdotti nella capanna di Guglielmo Da Enrichetta, una contadina inglese, e da altre sue compagne.Amalia è impaziente di incontrare l’altro ospite sconosciuto, perché spera di poter riconoscere in lui il re che sta cercando. Quando finalmente il suo sguardo si incrocia con quello del misterioso straniero, per entrambi la gioia di essersi ritrovati è immediata. Atkins, che li ha seguiti fino a lì, fingendosi un inglese si avvicina alla capanna di Guglielmo. Il piano suo e di Rivers ha funzionato: seguendo Amalia, hanno intercettato il re in fuga. Sempre sotto mentite spoglie rivela al re che i danesi lo hanno scoperto e lo invita a lasciare il villaggio e a rifugiarsi altrove. Guglielmo si offre allora di guidarli per un sentiero nascosto fra le montagne; ma Atkins, che ha potuto ascoltare tutto, li precede e tende loro un’imboscata con le sue truppe: attende il drappello composto da Alfredo, Amalia, le due contadine Enrichetta e Margherita, e lo sorprende con i soldati armi in pugno. Tutto sembra perduto, ma ecco comparire un piccolo esercito di soldati e contadini inglesi, guidati da Eduardo e Guglielmo. Sono determinati e agguerriti, e riescono a sventare l’assalto e la cattura del re. I danesi battono in ritirata.
Atto II. Rinvigorito dal soccorso e dal sostegno ricevuti, Alfredo decide che è giunto il momento di riprendersi il suo regno. E inizia da lì, dal Somerset. Chiede a Guglielmo di raccogliere tutti coloro che voglio combattere al suo fianco. Nel veder crescere il morale del marito, Amalia manifesta la sua contentezza. Entrambi fanno propositi di condividere la sorte che li attende e si dicono sicuri di una futura vittoria. Alcune contadine vengono a riferire che sono in arrivo truppe britanniche sull’isola. Alfredo saluta allora Amalia e va incontro ai suoi uomini, mentre le contadine circondano la regina cercando di placare la sua agitazione. Margherita raccoglie la preoccupazione di Enrichetta per lo stato di ansietà della sua regina e fuga l’ansia di lei, che alla fine prorompe in un canto rasserenato. Le truppe sono tutte schierate: da un lato i militari inglesi, dall’altro bande di pastori armati, tutti desiderosi di combattere per il loro re. Eduardo li scalda annunciando l’arrivo di Alfredo. Quando il re compare, le schiere lo salutano battendo con entusiasmo le spade sugli scudi, e cantano un coro di lode. Alfredo, da parte sua, motiva i suoi uomini alla battaglia con un’orazione carica di passione, dopodiché si mette alla testa dei soldati, con Eduardo al fianco, mentre Guglielmo conduce le schiere di pastori. E tutti marciano con passo accelerato. Atkins, con una sparuta pattuglia di soldati danesi, osserva dal folto di una selva i movimenti militari del nemico inglese e manifesta la sua disdetta per il mutamento di stato d’animo di Alfredo. Il destino sembra aver rapidamente rovesciato in perdite i trionfi, ha scaraventato i danesi dalle «stelle» agli «abissi», dove sembra caduta anche la temuta Reafan (la bandiera della vittoria danese). Poi, alzando lo sguardo, Atkins vede poco distante tra la vegetazione Amalia, sempre seguita dalla fida Enrichetta. E decide di catturarla e sfruttarla come ostaggio. Assalita, Amalia coraggiosamente resiste. Impugna uno stilo, e malgrado Enrichetta cerchi di farla desistere, affronta Atkins a viso aperto. In quell’istante Eduardo, che è stato incaricato da Alfredo di proteggere Amalia, nell’attraversare con un drappello di soldati la selva, scorge Atkins e i suoi danesi mentre circondano la regina. Si lancia con i suoi uomini all’attacco, mette in fuga i nemici e cattura Atkins. Rivers si trova a coprire un altro fronte. È smarrito. Non ha notizie di Atkins e vede le truppe danesi soccombere sotto l’irruenza di quelle inglesi. È preso dal panico e fugge. L’esercito inglese marcia e canta il suo trionfo, acclamando il re. Alfredo ha Amalia al suo fianco ed è circondato dalle altre persone fidate, Enrichetta, Eduardo, Guglielmo. La regina è sopraffatto dalla gioia, ma dopo un iniziale momento di smarrimento, si lancia in un inno alla pace e a un futuro di felicità.

Mandandolo in scena per la prima volta in epoca moderna, il Festival di Bergamo offre a questo lavoro una prova d’appello e diciamo subito che il pubblico ha apprezzato sia la parte musicale sia quella visiva dello spettacolo, affidato a un non conosciutissimo Stefano Simone Pintor che ha saputo dare una lettura convincente a un’opera che rivela non pochi buchi drammaturgici. Proprio partendo da questo evidente difetto, Pintor ha ideato una messa scena che parte inizialmente da una esecuzione da concerto con gli spartiti in mano ai cantanti e al coro, per inserire a mano a mano i costumi dell’epoca, disegnati da Giada Masi. E allora le copertine in mano ai coristi diventano degli scudi con la croce rossa su fondo bianco. Partendo dalla figura del sovrano che promosse l’alfabetizzazione dei suoi sudditi, ecco i libri che piovono dall’altro nel video o sono sparsi in scena: la cultura contro la barbara violenza, la lettura contro il rogo delle biblioteche. 

Nella regia di Pintor i personaggi/interpreti si muovono con efficacia all’interno di una semplice struttura scenografica. Anche qui sullo stesso led wall de Il diluvio universale appaiono immagini reali, quali incendi, distruzioni e l’assalto a Capitol Hill (con il copricapo cornuto dello shamano che troveremo sulle teste dei danesi!), alternate a una grafica ironica ed elegante che utilizza i codici e le miniature dell’epoca. Ma la presenza delle immagini qui è molto meno invasiva e non distrae dalla musica come era invece successo nel Diluvio. 

Musica che si rivela sorprendente per bellezza e originalità: a momenti viene il sospetto che il Maestro Corrado Rovaris, che dirige l’Orchestra Donizetti Opera, si sia divertito a inserire pagine estranee, ma il fatto è che alcuni momenti richiamano un Rossini a venire – c’è infatti l’inno che troveremo nel Viaggio a Reims! – tanto è felice l’invenzione tematica e strumentale della partitura messa sapientemente in risalto dalla sua concertazione. Gli scatti ritmici delle marcette (alcune suonate da una grande banda in scena), i solenni toni degli inni, lo slancio delle cavatine, i colori degli strumenti, le gemme melodiche, la raffinata armonizzazione, tutto è reso con mano felice e l’equilibrio tra buca e voci sul palco viene mirabilmente realizzato. (1)

Al debutto di Alfredo il Grande nel 1823 nella parte eponima ci fu il celebrato baritenore bergamasco Andrea Nozzari. Qui Antonino Siragusa, cantante rossiniano per eccellenza, ne rileva la sfida senza problemi e dipana con sicuro squillo e infallibile tecnica la sua impegnativa parte. Al suo fianco Gilda Fiume (Amalia) è un torrente in piena di agilità, acrobazie, acuti e sovracuti, passaggi legati, note proiettate con potenza ma anche sensibili mezze voci nei momenti dolenti, il tutto espresso con timbro morbido e omogeneo nei passaggi di registro. La sua performance accende l’entusiasmo del pubblico che dopo il pirotecnico rondò finale decreta convinte ovazioni, estese anche agli interpreti secondari: Lodovico Filippo Ravizza, eccellente Eduardo; Adolfo Corrado, il possente barbaro Atkins; Antonio Garés, Guglielmo; Andrés Agudelo, Rivers. Enrichetta ha a disposizione un’aria eseguita con bello stile da Valeria Girardello mentre Floriana Cicìo, allieva della Bottega Donizetti, è Margherita. Non ultimo il valente coro della Radio Ungherese diretto da Zoltán Pad.

Quello che sembrava lo spettacolo meno attraente della rassegna bergamasca, dopo un dramma biblico e la versione francese di uno dei maggiori capolavori di Donizetti, non è solo un ripescaggio fortunato ma si è rivelato quello di maggior successo e uno dei migliori degli ultimi anni, tanto da convincerci che Alfredo il Grande abbia tutte le carte in regola per diventare un titolo di repertorio.

(1) Struttura dell’opera
Sinfonia
Atto I
Sinfonia
1. Introduzione Vieni Eduardo; Sventurata Britannia (Amalia, Eduardo, Enrichetta, Margherita, Guglielmo, Coro)
2. Cavatina S’inoltra alcun (Alfredo)
3. Coro Il lasso fianco chi vuol posar
4. Terzetto Sposo! … e fia ver (Amalia, Alfredo, Eduardo)
5. Finale Solingo è il sito, amici (Atkins, Alfredo, Amalia, Enrichetta, Margherita, Alfredo, Guglielmo, Coro)
Atto II
[Prima del Duetto] Me avventurato! (Guglielmo, Enrichetta, Alfredo, Pastori)
6. Duetto Questa man che un dì sull’ara (Amalia, Alfredo, Coro di contadine)
[Dopo il Duetto] Dove, o compagna? (Enrichetta, Margherita)
7. Rondò Quando al pianto ed all’affanno?, Di pace in grembo (Enrichetta)
[Dopo l’Aria di Enrichetta] Anelaste, o Britanni (Eduardo)
8. Coro All’apparir dell’astro; Elettrica scintilla (Coro di truppe e pastori armati)
[Dopo il Coro] Si, vinceremo (Alfredo)
9. Aria Che più si tarda? All’armi!; Celeste voce ascolto; Al campo, alla vittoria!; Se questo, amico nume (Alfredo, Guglielmo, Eduardo, Coro)
[Dopo l’Aria] Ti basta, o fato iniquo? (Atkins, Amalia, Enrichetta)
10. Quintetto Traditor! Di un ferro ancora; Se al generoso Alfredo; Sommerso ne’ flutti di un mar tempestoso (Amalia, Enrichetta, Guglielmo, Eduardo, Atkins)
[Dopo il Quintetto] Ah, chi di Atkins mi reca qualche novella? (Rivers)
11. Coro Viva Alfredo! Il grande! Il prode! (Alfredo, Amalia, Enrichetta, Margherita, Eduardo, Guglielmo, Contadine, Esercito inglese)
[Dopo il Coro] Al vostro braccio, o cari! (Alfredo, Amalia, Eduardo, Guglielmo, Margherita, Enrichetta)
12. Rondò Che potrei dirti, o caro; Torna a gioir quest’alma (Amalia, Coro)

Lucie de Lammermoor

foto © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, Lucie de Lammermoor

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Bergamo, Teatro Sociale, 18 novembre 2023

Una Lucia a metà per ricordare le vittime di femminicidio

A poche ore dal ritrovamento del cadavere di Giulia Cecchetti, ennesimo femminicidio in Italia quest’anno, va in scena un’altra vicenda di violenza su una donna e Francesco Micheli, direttore del Festival Donizetti Opera, prima che il sipario si alzi su Lucie di Lammermoor, la versione francese del capolavoro donizettiano, sente il dovere di dedicare la rappresentazione a tutte le Giulie e le Lucie vittime della violenza maschile. Contemporaneamente però annuncia che l’interprete principale andrà in scena anche se indisposta. Purtroppo un altro annuncio alla ripresa della seconda parte conferma quello che si temeva: l’interprete prevista non è in grado di continuare e la sua voce viene sostituita da quella di un’altra cantante resasi disponibile nel frattempo.

Così funestata è dunque la ripresa di questa curiosità, non inedita peraltro in quanto nel 2002 aveva fatto epoca l’edizione dell’Opéra de Lyon diretta da Evelino Pidò di cui esistono fortunatamente ben tre diverse registrazioni: il CD Erato con Natalie Dessay e Roberto Alagna; il DVD Bel Air con Patrizia Ciofi e Alagna; la trasmissione video di Mezzo con Dessay e Sebastian Na.

Anche se Donizetti negli anni ’30 collezionava successi in patria, si apprestava a giocare la carta francese perché solo Parigi poteva ufficializzare il successo a livello internazionale. Sono di quegli anni dei soggetti che hanno qualche elemento transalpino: Parisina (1833), L’assedio di Calais (1836), Gianni di Parigi (1839). Anna Bolena era stata un successo al Théâtre-Italien nel 1831 e in questo teatro nel 1837 Lucia di Lammermoor era stata accolta con grande favore. Ma un’altra sala stava emergendo, il Théâtre de la Renaissance, che si era aggiunto agli altri tre grand théâtres della capitale – l’Opéra, l’Opéra-comique, il Théâtre-Italien appunto. Qui veniva messa in scena l’opéra de genre, una soluzione che non desse fastidio alle altre sale: non un grand-opéra dunque, non un opéra-comique con i suoi dialoghi parlati, ma nemmeno un’opera in lingua italiana, appannaggio del Théâtre-Italien. In questo sistema rigorosamente strutturato c’era spazio per un’opera italiana in traduzione francese, con i dialoghi cantati e un allestimento non troppo grandioso. 

Con il libretto affidato ad Alphonse Royer e Gustave Vaëz, Lucie de Lammermoor debutta al Théâtre de la Renaissance il 6 agosto 1839 con grande clamore. Una dimostrazione indiretta del favore riscosso dall’opera e della sua successiva popolarità è quella fornita da Gustave Flaubert nel capitolo XV della seconda parte della sua Madame Bovary dove narra del marito che accompagna Emma al teatro di Rouen per una recita della Lucie. Che si tratti proprio della versione francese ce lo rivelano alcuni particolari della recita vista con gli occhi della donna, moglie in crisi che si immedesima con il personaggio del titolo, tanto che «La voix de la chanteuse ne lui semblait être que le retentissement de sa conscience, et cette illusion qui la charmait quelque chose même de sa vie» (La voce della cantante le sembrava nient’altro che l’eco della sua coscienza, e l’illusione che la incantava qualcosa della sua stessa vita).

Rispetto alla versione originale, quella francese ha molte differenze, le principali essendo la soppressione del personaggio di Alisa assorbito da quello di Gilbert, che assimila anche la parte di Normanno, e il maggior ruolo di Sir Arthur. Manca qui l’assolo di arpa all’entrata della protagonista che invece di «Regnava nel silenzio» e «Quando rapito in estasi» canta le arie di Rosmonda d’Inghilterra diventate qui «Que n’avons nous des ailes» e «Toi par qui mon coeur rayonne». Viene soppressa anche la scena tra Lucia e Raimondo nel secondo atto e il terzo è rielaborato per ridurre il numero di cambi di scena. Donizetti non compone pressoché nulla di nuovo per Lucie de Lammermoor: quella che viene fuori è una versione «simplifiée» dell’originale italiano, un modo per rendere l’opera eseguibile con bassi costi d’allestimento e con una piccola compagnia. 

La soppressione di Alisa, l’unico altro personaggio femminile, ha il risultato di isolare ancor più il personaggio di Lucie in questo mondo tutto al maschile, tema su cui si è sviluppata la lettura del regista Jacopo Spirei. Fin dalla prima scena i cacciatori sono trasformati in “cacciatori di femmine”: quattro ragazze diventano le prede senza ritegno di un branco di maschi la cui brutalità segnerà tutto il corso dell’opera, fino al finale con un mucchio di cadaveri femminili e ambientato in un cimitero di automobili, non proprio le «tombes de mes aïeux, d’une famille éteinte»… La scena unica di Mario Tinti, una foresta dipinta, vale anche per gl’interni previsti dal libretto, mentre i costumi di Agnese Rabatti ci immergono nella contemporaneità. Poco è fatto dal regista per migliorare la presenza scenica dei cantanti e del coro, quello bravissimo dell’Accademia della Scala istruito da Salvo Sgrò, e alterna è la resa della direzione di Pierre Dumoussaud, con tempi lenti fin troppo allargati, e quelli veloci piuttosto disordinati. Incerta è l’intonazione dei corni dell’Orchestra Gli Originali, 47 elementi che nell’insieme danno un suono poco corposo e povero di colori.

Caterina Sala si è molto impegnata per questo debutto, ma un’indisposizione, che si sperava si risolvesse, non ha invece permesso al giovane soprano di terminare la sua performance: dopo la prima parte, portata avanti con evidente fatica, la cantante ha dovuto dare forfait e dopo l’intervallo è rimasta in scena per “mimare” la sua parte mentre veniva doppiata al leggio da Vittoriana De Amicis, che in così breve lasso di tempo ha generosamente permesso che anche la seconda parte dello spettacolo andasse in porto. La sostituzione ha fatto scoprire le buone qualità vocali di De Amicis che ha reso più che apprezzabile la resa della scena della pazzia, in questa versione accorciata rispetto all’originale, ma comunque irta di difficoltà affrontate e risolte con disinvoltura. Peccato solo che proprio nell’ultimo acuto ci sia stata un’imperfezione che ha così frenato il pubblico dall’esplodere in un’ovazione.

Se il soprano ha avuto dei problemi, non molto meglio è stato per il tenore: l’Edgard Ravenswood di Patrick Kabongo si è rivelato subito di voce sottile, poco proiettata e l’indubbia tecnica e l’ottima dizione non hanno salvato un’interpretazione deludente. Vocalmente non ha deluso invece Vito Priante, autorevole Henri Ashton, personaggio qui ancora meno accettabile anche se non si abbassa alle nefandezze dei suoi accoliti. Una piacevole sorpresa è l’Arthur Buckhaw di Julien Henric, tenore lionese dal timbro limpidissimo, bel fraseggio ed eleganza scenica, già apprezzato a Ginevra dove è stato membro dell’ensemble giovani del Grand Théâtre. Con lui si ha uno dei pochi casi in cui si rimpiange la repentina uscita di scena di Arthur! Eccellenti sono anche il personalissimo Gilbert doppiogiochista di David Astorga e il possente Raimond di Roberto Lorenzi. Non ci si può certo lamentare che manchino le belle voci maschili oggi.

Il diluvio universale

Lorenzo Lotto e Gian Francesco Capoferri, L’arca di Noè, Santa Maria Maggiore, Bergamo

Gaetano Donizetti, Il diluvio universale

Bergamo, Teatro Donizetti, 17 novembre 2023

★★★☆☆

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Un raro Donizetti “biblico” apre il Festival di Bergamo

Nel grande ritratto di Francesco Coghetti del 1832, dietro a un Gaetano Donizetti dallo sguardo febbrile che già sembra far presagire la follia di cui soffrirà, sul piano del pianoforte sulla cui tastiera il compositore posa la mano sinistra, fanno bella mostra cinque volumi. Sono quelli di Anna Bolena, L’esule di Roma, L’elisir d’amore e Olivo e Pasquale, opere del periodo 1827-1832. Il primo, un po’ più piccolo e appoggiato a mo’ di reggilibro agli altri, è Il diluvio.

foto © Gianfranco Rota

Titolo da oratorio sacro, com’è Il Diluvio Universale del Falvetti, con il testo di Domenico Gilardoni tratto dall’omonima tragedia di Francesco Ringhieri del 1783-88, diventa “azione tragico sacra in tre atti” che Donizetti mette in musica e presenta al Real Teatro di San Carlo di Napoli il 6 marzo 1830. Opera dunque da rappresentare nel periodo quaresimale, quando i teatri napoletani restavano aperti ma senza balli e con lavori di soggetti biblici. Era già avvenuto dodici anni prima col Mosè in Egitto di Rossini, la cui preghiera del terzo atto, «Dal tuo stellato soglio», riecheggia qui nella preghiera di Noè del secondo atto «Dio tremendo, onnipossente», aria solenne sostenuta da una biblica arpa. 

Anche Mayr, il maestro di Donizetti, si era adeguato presentando nel 1822 al San Carlo la sua Atalia. In questo sotto-genere le storie sacre della Bibbia si intrecciano con quelle profane e private dei personaggi, qui l’antagonismo tra Noè e Cadmo (suocero di Jafet nella tragedia del Ringhieri) che avversa la fede del patriarca, e triangoli amorosi recuperati «da qualche tragedia rubbando e impasticciando» come scrive Donizetti.

Atto I. Mentre Noè, i figli, le loro mogli e i seguaci pregano presso l’Arca, quelli di Cadmo, guidati da Artoo, cercano di incendiarla ma vengono fermati da Sela, moglie di Cadmo, fedele a Noè, che le consiglia di abbandonare il marito, per salvarsi così dal diluvio. Ada, serva di Sela e amante di Cadmo, riferisce mentendo all’amato che Sela sia innamorata di Jafet, primo figlio di Noè. Ada consiglia a Sela di recarsi da Noè, mentre i Satrapi danno la caccia a lui e al figlio. Cadmo fa arrestare Sela, Noè e Jafet, e Ada, pentita, giura a Sela che tenterà di salvarla.
Atto II. Ada chiede a Cadmo che Sela sia salvata, ma Cadmo rifiuta e la condanna a morte, e decide di sposare Ada. Noè, di fronte alla crudeltà di Cadmo, implora la vendetta divina.
Atto III. Mentre Noè e i suoi seguaci si nascondono nell’Arca, si celebrano le nozze tra Cadmo e Ada. Cadmo chiama Sela e le dice che riavrà il figlio solo se maledirà Dio davanti a tutti. Di fronte a questa scelta, combattuta tra l’amore per il suo Dio e il figlio, Sela non regge e muore, mentre le nubi si addensano e coprono la città. L’ultima scena vede le acque che da ovunque s’alzano e sommergono tutto, mentre illesa, sopra le acque, sta l’Arca.

La presenza del mitico basso Luigi Lablache come Noè dimostra l’importanza data all’opera che debuttò con qualche imprevisto ed esiti controversi e fu replicata solo sette volte nel corso della stagione. Quattro anni dopo, Il diluvio universale debuttava a Genova in una nuova revisione ma poi scompariva dal repertorio. Dopo oltre 190 anni Il Festival Donizetti Opera 2023 presenta la versione originale napoletana sotto la bacchetta esperta di Riccardo Frizza che ridà vita a questo lavoro dalla particolare struttura in pochi numeri (1) in cui corali solenni si alternano a concertati e arie con cabalette, queste ultime affidate ai soli tre personaggi principali. Se è inevitabile il confronto con il capolavoro rossiniano, è anche vero che quello di Donizetti anticipa Nabucco, il soggetto biblico di Verdi. La musica del Diluvio comunque è al 100% donizettiana, lo è l’invenzione melodica, il trattamento orchestrale e quello delle voci. Tipico dell’epoca il metodo dell’autoimprestito con brani che verranno utilizzati dal compositore in opere successive: una sezione della sinfonia confluirà in quella dell’Anna Bolena (dicembre 1830); un coro verrà ripreso nel Gianni di Parigi (1839) e un inno diventa la marcia de La fille du régiment (1840)!

Intervistato da Alberto Mattioli sul programma di sala, il Maestro Frizza sottolinea quanto il compositore bergamasco sia un precursore di tendenze che si sarebbero manifestate in seguito, come la commistione tra le componenti di pubblico e privato tipica del grand-opéra che inizia a prendere piede in quegli anni in Francia. La qualità della partitura è messa chiaramente in evidenza dal direttore bresciano che a capo dell’Orchestra Donizetti Opera fornisce una partecipe lettura con i suoi momenti strumentalmente preziosi – si è detto dell’arpa, ma a turno molti altri strumenti emergono in interventi solistici come il clarinetto che introduce la scena di Ada. Non potendo fare paragoni, la sua scelta dei tempi e dei livelli sonori sembra quella giusta nel dare risalto a questa musica sì sconosciuta, ma che alle nostre orecchie risuona con famigliarità pur nella sua originalità. Ottimo è il lavoro di concertazione con le voci dove Noè è affidato alla voce del basso Nahuel di Pierro, autorevole nei grandi declamati come nei momenti di maggior cantabilità. Elegante e nobile, la sua performance vocale manca però di un maggior lavoro sulla parola. Totalmente all’opposto è il Cadmo di Enea Scala, di chiara derivazione rossiniana per la tessitura acuta e le impervie agilità affrontate magnificamente. Il personaggio si esprime spesso con cavatine rabbiose come nella scena sesta del primo atto «Donna infida! E ancor respira!» seguita subito dopo da «Né col sangue degl’indegni | l’ira mia si estinguerà». Il tenore siciliano si dimostra a suo agio nelle parti del vilain e convincente nella presenza scenica. Più variegata è la parte di Sela, che Giuliana Gianfaldoni realizza con bellissimi legati e precise colorature. È la protagonista dell’opera, lacerata com’è tra la fedeltà al marito, l’amore per il figlio e per Dio. Tradita da chi credeva fedele, è la vera vittima e muore tristemente sola. Il giovane soprano tarantino conferma anche in questa occasione le doti vocali ed espressive rivelate nelle sue ultime prese di ruolo. I tre figli di Noè trovano adeguati interpreti in Nicolò Donini (Jafet), Davide Zaccherini (Sem), Eduardo Martínez (Cam), quest’ultimo allievo della Bottega Donizetti di giovani artisti. Le mogli hanno le voci di Sabrina Gárdez (Tesbite) anche lei allieva della Bottega, Erica Artina (Asfene) e Sophie Burns (Abra). Wangmao Wang è Artoo mentre Elena Pepi, un’altra allieva della Bottega, dimostra disinvolta presenza scenica e interessante vocalità come la rivale Ada. Eccellente e quasi un personaggio a sé per l’importanza della parte e l’impegno richiesto è il coro dell’Accademia Teatro alla Scala diretto da Salvo Sgrò. La parte del coro, già estesa qui, verrà ancora ampliata nella versione genovese.

La messa in scena di questa rarità donizettiana è affidata a MASBEDO, un duo artistico formato da Nicola Massazza e Iacopo Bedogni, che mescola linguaggi diversi. Qui si occupano di progetto, regia, regia in presa diretta e costumi. Già fuori del teatro gli spettatori sono accolti da un gruppo di giovani in impermeabili colorati e schermi con immagini delle profondità marine. Li ritroviamo in scena a ricordarci le devastazioni che facciamo subire ai nostri oceani con le reti da pesca abbandonate che sconvolgono i fondali e diventano un rischio per le specie animali. La lettura dei registi si inserisce in un più ampio discorso sullo sfruttamento dell’ambiente e sui conseguenti catastrofici cambiamenti climatici. Così come chi vive senza preoccuparsi dei possibili sconvolgimenti futuri e fa del vivere nel presente la sua scelta esclusiva, da una parte c’è il profeta biblico con il diluvio quale punizione divina, dall’altra l’apatia di Cadmo che non vuole ascoltare la minaccia e alla cui corte si mangia, si beve e si agisce nell’inconsapevolezza della morte imminente. Nella scenografia di 2050+ siamo all’ultima cena dell’umanità, con un lungo tavolo in una gabbia di metallo che rappresenta un mondo fintamente protetto. Questa stessa gabbia diventa nel finale l’arca di salvezza. Elemento essenziale dell’allestimento è la presa in diretta di quanto avviene: come nel film Festen di Thomas Vintherberg i registi sono in scena come invitati a questa cena elegante e ne rubano le immagini che vengono proiettate in tempo reale su un enorme led wall. Su quello stesso schermo scorrono anche le immagini di catastrofi naturali o disastri causati dall’uomo e il loro impatto visivo è talmente forte da costituire un elemento di distrazione rispetto alla musica tanto da indurre a chiudere gli occhi per concentrarsi sull’elemento sonoro qui schiacciato dall’impatto visivo. È talmente violento il contrasto tra la staticità della rappresentazione, quasi oratoriale, e l’ingombrante flusso di immagini, che alla fine si esce decisamente frastornati. Per questo, dopo aver salutato con calore gli artefici della musica, il pubblico ha espresso sonori dissensi verso i responsabili della messa in scena.

(1) Struttura dell’opera
Sinfonia
Atto I
1. Introduzione Oh, Dio di pietà
2. Coro No, no dal cielo altra mercè
3. Scena e cavatina (Cadmo) Impudica! E ancor respira!
4. Coro Franco inoltrate il piè
5. Finale primo Quel che del ciel
Atto II
6. Duetto (Sela, Cadmo) Non profferir parola
7. Preghiera (Noè) Dio tremendo, onnipossente
8. Finale secondo 
Atto III
9. Coro Stirpe angelica, ti bea
10. Aria (Sela) Senza colpa mi scacciasti e finale

   

Francesco Coghetti, Ritratto di Gaetano Donizetti, Collezione privata,  1832

Jacobín

Antonín Dvořák, Jacobín (Il giacobino)

Brno, Janáčkovo Divadlo, 8 ottobre 2023

★★★☆☆

(registrazione video)

«Siamo Boemi e chiedete se sappiamo cantare?»

A distanza di pochi mesi due diversi teatri europei recuperano due titoli poco conosciuti di compositori apprezzati autori di sinfonie, due titoli che videro la luce nello stesso anno, il 1889: La pulzella d’Orléans di Čajkovskij e Jakobín (Il giacobino) di Antonín Dvořák, quest’ultima una commedia lirica pastorale in tre atti il cui libretto di Marie Červinková-Riegrová utilizza i personaggi del racconto di Alois Jirásek Na dvoře vévodském (Alla corte ducale, 1877), ma in una trama di sua ideazione. Dietro sua espressa richiesta la scrittrice inserisce, ad esempio l’inno cantato dalla congregazione religiosa e il canto patriottico di Bohuš.

La prima rappresentazione dell’opera ebbe luogo il 9 febbraio 1889 al Teatro Nazionale di Praga con la direzione di Adolf Čech; nonostante il successo ottenuto, Dvořák e la sua librettista decisero di modificare sostanzialmente il lavoro: la Riegrová tagliò alcuni episodi (come la visita del conte a Benda), riscrisse il terzo atto e tra il febbraio e l’agosto del 1897 Dvořák ricompose l’ultimo e lo orchestrò, mentre le modifiche al primo atto e al secondo richiesero l’intervento del padre della Riegrová la quale, frattanto, era deceduta. La prima di questa nuova versione venne allestita nello stesso teatro il 19 giugno 1898, versione che da allora è diventata quella comunemente proposta.

Atto primo. In Boemia, all’epoca della rivoluzione francese. Il conte Wilem di Harasov ha ripudiato il figlio Bohuš per le sue idee troppo liberali, preferendogli come erede il nipote Adolf. Durante una festa, Bohuš, che ha portato la moglie Julie a conoscere il suo luogo natio, si nasconde tra la folla sotto falsa identità. Nel frattempo, il burgravio del conte corteggia la figlia del maestro di scuola Benda, Terinka, che però è innamorata di Jiří. Il burgravio sospetta di Bohuš e Julie, soprattutto perché sono arrivati da Parigi, dove si dice che il figlio del conte sia alleato dei giacobini. Con grande sorpresa di tutti, appare il Conte in persona, che conferma di non considerare più Bohuš come suo figlio e che il suo erede sarà il nipote Adolf. Adolf e il burgravio esultano.
Atto secondo. Nella scuola, Benda prova un coro di bambini e abitanti della città, insieme a Terinka e Jiří come solisti, in una cantata che celebrerà la nuova posizione di Adolf. Dopo le prove, Terinka e Jiří si dichiarano il loro amore, ma Benda torna e annuncia che sua figlia deve sposare il burgravio. Si sviluppa una discussione, ma all’improvviso torna il popolo, allarmato dalla voce che i sinistri giacobini sono arrivati in città. I cittadini fuggono terrorizzati, mentre Bohuš e Julie arrivano per chiedere a Benda se può ospitarli per qualche giorno. Lui inizialmente rifiuta, ma quando rivelano di essere Boemi che si sono mantenuti all’estero cantando le canzoni della loro terra natale, lui, Terinka e Jiří sono sopraffatti dall’emozione e sono felici di ospitarli. Il burgravio viene a corteggiare Terinka, ma lei lo respinge. Quando Jiří lo sfida, il burgravio minaccia di costringerlo a entrare nell’esercito, ma all’improvviso entra Adolf, che vuole sapere se il “giacobino” Bohuš è stato arrestato. Il burgravio tergiversa, ma arriva Bohuš stesso e rivela chi è. Lui e Adolf litigano e Adolf ordina l’arresto di Bohuš.
Atto terzo. Al castello, Jiří cerca di incontrare il Conte per dirgli che suo figlio è stato imprigionato, ma viene a sua volta arrestato per ordine di Adolf e del burgravio. La nutrice Lotinka fa entrare Julie e Benda e va a prendere il Conte. Julie si nasconde e Benda cerca di preparare il vecchio a una riconciliazione con Bohuš. Il conte, tuttavia, è ancora arrabbiato con il figlio per aver sposato e lasciato la Boemia e per le sue presunte simpatie giacobine. Benda se ne va e il conte si lamenta della sua vita solitaria e si chiede se, dopo tutto, abbia giudicato male il figlio. Fuori scena, Julie canta una canzone che la defunta contessa era solita cantare a Bohuš quando era bambino e il conte, riconoscendola e preso dall’emozione, chiede a Julie dove l’abbia imparata. Quando scopre che è stato suo figlio a insegnargliela, la sua rabbia ritorna, ma Julie riesce a convincerlo che Bohuš, lungi dall’essere un giacobino, sosteneva i girondini ed era stato condannato a morte dai giacobini. A questo punto rivela che Bohuš è in prigione e che lei è sua moglie, ma i festeggiamenti stanno per iniziare e lei se ne va. I bambini e gli abitanti della città si rallegrano e il Conte annuncia che presenterà loro il suo successore. Adolf è felicissimo, ma il Conte chiede prima a lui e al Burgravio se ci sono prigionieri che può perdonare nell’ambito dei festeggiamenti. I due ammettono a malincuore che ci sono, e Bohuš e Jiří vengono convocati. Il Burgravio capisce che il gioco è fatto quando il Conte denuncia l’intrigante Adolf e abbraccia Bohuš e Julie. Bohuš elogia la lealtà di Jiří e Terinka e il Conte unisce le loro mani. Anche Benda dà loro la sua benedizione e l’opera si conclude con un minuetto, una polka e un coro che elogia il Conte e la sua ritrovata felicità con il figlio e la famiglia.

I caratteri formali, la trama melodica e l’arco emotivo della vicenda sono intessuti di radici nazionali e popolari e Jakobín conferma così che il genere operistico incentrato su tematiche nazionalistiche, ma dal carattere aperto ed europeo, era in grado di riscuotere un vasto successo. «Come nelle sue due opere comiche precedenti, Král a uhlír Komická (Il re e il carbonaio, 1871) e soprattutto Šelma sedlák (Il contadino furbo, 1877), nel Giacobino Dvořák piega la sua spontanea vena melodica alla duttilità dell’ironia e del sorriso. Lontano dall’imponenza da grand-opéra delle sue opere eroiche e tragiche, l’evocazione naturalistica e l’autentica simpatia per i sentimenti popolari acquistano una morbidezza drammaturgica tutta particolare. Si avverte l’influenza di Smetana e talvolta di Musorgskij, ma colpisce soprattutto l’acutezza di introspezione psicologica da cui sono pervase le melodie. La freschezza della cantabilità  lirica, infatti, è qui l’elemento strutturale primario, intorno al quale si articola la scansione narrativa; ciò deriva anche dallo stretto contatto tra il compositore e la librettista, che spesso aggiungeva episodi e frasi o modificava la scansione ritmica del testo per adeguarsi a melodie e idee musicali già abbozzate da Dvořák» (Lidia Bramani).

Il momento più commovente dell’opera, quasi una professione di fede da parte dell’artista, si ha alla fine del secondo atto quando Bohuš e Julie raccontano: «Jen ve zpěvu, jsme našli úlevu, by naděj vzňal, Bůh žití žal, nám písně svaté kouzlo dal» (Solo nel canto abbiamo trovato sollievo, sarebbe sorta la speranza, Dio che vive il dolore, ci ha dato la sacra magia del canto), un tema struggente che viene riprese da Benda, Terinka e Jiří e scatena il commosso applauso del pubblico.

Jakobín era stato prodotto dal Narodní Divadlo di Praga nel 2011, ora tocca al Janáčkovo Divadlo di Brno rinfrescare il ricordo di quest’opera, praticamente sconosciuta al di fuori della sua patria, con una affettuosa produzione di Martin Glaser con l’impianto scenografico naïf di Pavel Borák e i costumi, un po’ ridicoli, di David Janošekin. Nel cast nomi quasi del tutto sconosciuti, in cui l’unica voce che si fa notare per bellezza della linea di canto ed espressività è quella di Pavla Vykopalová, Julie. Ottimi come sempre i cori, specialmente quello di bambini. Jakub Klecker dirige con partecipazione l’orchestra del teatro sottolineando le melodie accattivanti e il colore nazionale della partitura di questo Dvořák meno drammatico del solito.

Zoraida di Granata

Gaetano Donizetti, Zoraida di Granata

Wexford, O’Reilly Theatre, 24 ottobre 2023

★★★

(video streaming)

Tosca incontra Fidelio che incontra Lohengrin

Nella primavera del 1821 l’impresario Giovanni Paterni, responsabile dei teatri romani, si era rivolto a Mayr per una nuova opera. Il maestro bavarese aveva indicato in sua vece l’allievo prediletto sottolineandone la fantasia e la «facilità di estendere le idee». Per il ventiquattrenne Gaetano Donizetti era un’occasione da non perdere. Il testo di Bartolomeo Merelli, lo stesso librettista dell’Enrico di Borgogna, venne tratto dal libretto di Luigi Romanelli per Abenamet e Zoraide di Giuseppe Nicolini del 1805. A meno di due settimane dal debutto Donizetti dovette eliminare tre numeri e adattare la parte di Abenamet a un “musico” cioè un contralto en travesti: durante le prove il giovane tenore Amerigo Sbigoli, ingaggiato per il ruolo di Abenamet, morì dopo aver cercato di superare il tenore rivale Donzelli durante una rappresentazione del Cesare in Egitto di Pacini, facendosi scoppiare un vaso sanguigno in gola. Non essendoci un sostituto, il suo ruolo dovette essere drasticamente ridotto e adattato al poco noto contralto Adelaide Mazzanti.

Nonostante gli inconvenienti, l’opera fu accolta trionfalmente. Sul settimanale romano “Notizie del giorno” del 31 gennaio 1822 la recensione annunciava «una nuova e lietissima speranza per il teatro musicale italiano […] il giovane Maestro Gaetano Donizetti […] si è lanciato con forza nella sua opera seria, Zoraida. Unanimi, sinceri, universali sono stati gli applausi che ha giustamente raccolto dal pubblico presente». Così presenta il lavoro Bernardino Zappa su Opera Manager: «La focosità dei sentimenti, il calore mediterraneo e il clima di accese passioni si vestono di una musica esuberante e aggressiva, generosa di espansioni melodiche e di acrobazie belcantistiche. L’ambientazione esotica viene incrementata anche da un reiterato cromatismo discendente, come nella cullante romanza notturna di Zoraida (Rose che un dì spiegaste). Formidabile virtuosismo e copiosi abbellimenti di bravura si trovano infatti in tutti i pezzi allora più acclamati. L’opera venne ripresa due anni più tardi, sempre a Roma, con una profonda revisione del libretto e della musica. L’eleganza della nuova veste poetica, opera del raffinato Jacopo Ferretti, non raccolse tuttavia analoghi entusiasmi di pubblico». Nella ripresa all’Argentina nel gennaio del 1824, Donizetti aveva infatti rivisto la partitura, ampliando ancora una volta il ruolo di Abenamet per mettere in mostra la bravura del contralto protagonista, Rosamunda Pisaroni-Carrara.

Zoraida porta il segno dell’influenza di Mayr sullo stile compositivo di Donizetti, ma ci sono segni della crescente consapevolezza di Donizetti delle innovazioni introdotte da Rossini. Numerosi sono i momenti musicali salienti: il trio del primo atto che si sviluppa in un quartetto, due arie meravigliosamente introspettive nel secondo atto, una per Abenamet quando è imprigionato in una prigione e l’altra, una romanza, per Zoraida quando è in giardino.

Atto I. L’azione si svolge nel 1480. Granada è nuovamente assediata dagli spagnoli. Il sovrano moresco Almuzir desidera Zoraida, la figlia del precedente re che ha rovesciato. Ma Zoraida ama il generale Abenamet, capo degli Abenceragi. Per separare i due, Almuzir fa gettare in prigione il suo rivale, ma i seguaci del popolare Abenamet non abbandonano il loro capo. Gli viene detto di rinunciare al suo amore per Zoraida, altrimenti verrà giustiziato. Gli spagnoli si ribellano e l’esercito moresco non vuole andare in battaglia senza il suo generale. Il sovrano rilascia a malincuore il suo rivale e gli consegna la bandiera con cui Abenamet deve andare in battaglia. La vittoria spetta ai Mori, ma la bandiera è scomparsa. Abenamet viene rimesso in prigione, perché la perdita della bandiera è punita con la morte.
Atto II. Zoraida è pronta a sposare Almuzir, perché questo potrebbe salvare la vita di Abenamet. A quest’ultimo rimane un solo desiderio: vuole vedere ancora una volta la sua amata e poi togliersi la vita. I due si incontrano di notte nel giardino dell’Alhambra e Zoraida riesce a dissuaderlo dal suo folle desiderio. Ma Aly, un ufficiale di Almuzir, scopre i due e Zoraida viene accusata di aver favorito la fuga e condannata a morte. La sua unica possibilità è in un volontario che se combatterà vittoriosamente per lei, le verrà concesso il dono della vita. Appare un misterioso cavaliere con una visiera nascosta e uno stendardo. Ferisce l’infido Aly, che ha introdotto di nascosto la bandiera moresca nell’accampamento spagnolo, all’insaputa di Almuzir, per accusare Abenamet della perdita. Il popolo reagisce indignato. Abenamet si rivela il misterioso cavaliere e difende Almuzir dal popolo infuriato. La folla invoca allora la morte per il re ma Abenamet lo perdona e questi, pentito, benedice l’unione dei due amanti.

Anche qui, come nel Fidelio beethoveniano, il secondo atto si apre con un uomo in catene che ricorda l’amore fedele della sua donna che viene poi a salvarlo. E c’è poi pure la tromba che risolve la situazione. I dodici numeri musicali della prima versione (1) sono una sapiente successione di arie solistiche e pezzi d’insieme che crescono di intensità man mano che la posta in gioco diventa sempre più alta. Si tratta anche di un’opera di grande importanza, poiché il suo successo portò Donizetti a ottenere un contratto con l’impresario Domenico Barbaja che gli aprì la strada verso Napoli e un apprendistato di otto anni che lo lasciò pronto a sfondare con Anna Bolena alla Scala nel 1830.

Scegliendo la versione del 1822 nella nuova edizione critica di Edoardo Cavalli della Fondazione Teatro Donizetti, il 72° Wexford Festival Opera, assieme al Donizetti Opera Festival, continua al di là della Manica la riscoperta dei titoli meno conosciuti del compositore di Bergamo: nel 1952 fu il WFO a riportare alla popolarità L’elisir d’amore mentre molto recentemente ci sono stati Maria di Rohan (2005), Maria Padilla (2009), Gianni di Parigi (2011) e Maria di Rudenz (2016). 

Rosetta Cucchi, direttrice artistica del festival irlandese, ha intitolato “Women & War” il cartellone del 2023 comprendente tre titoli che raccontano di donne in guerra: L’aube rouge di Camille Erlanger, La ciociara di Marco Tutino e, appunto, Zoraida di Granata. La guerra è d’attualità oltre che nella realtà anche nell’opera e nella sua ambientazione e il regista Bruno Ravella ha buon gioco a trasportare le vicende dalla Spagna del 1480 all’epoca della Guerra dei Balcani, collocando l’azione in un luogo che richiama la Biblioteca di Sarajevo, distrutta dalle bombe. Lo scenografo Gary McCann aggiunge un tocco di moresco agli archi e alle colonne di questo luogo devastato dalla guerra al quale il pregevole gioco luci di Daniele Naldi aggiunge un tocco ulteriormente drammatico. Di McCann sono anche i costumi: un rigido doppio petto per il tiranno Almuzir, mimetiche militari per gli uomini, un abitino azzurro e uno bianco per la protagonista. Sono gli anni Novanta, ma potrebbe trattarsi della contemporaneità, di un luogo che unisce il passato, la cultura e il tempo presente della guerra, con la figura di Zoraida che cerca di tenere insieme qualcosa che sta crollando. La lettura del regista Bruno Ravella mette in luce l’inutilità della guerra: l’opera si conclude con una nota positiva, ma si capisce che molto è andato perduto.

Nato a Casablanca da madre polacca e padre italiano, Ravella ha studiato in Francia e lavora a Londra. Assistente di Robert Carsen e David McVicar, è alla sua seconda regia donizettiana dopo un Elisir d’amore in formato ridotto della Hampstead Garden Opera, la sua prima produzione, nel 2008. Grande cura è riservata alla scansione delle scene e alla recitazione dei cantanti, giovani dalla carriera ben avviata com’è il caso di Claudia Boyle, soprano irlandese la cui Zoraida ha qualche asperità nel timbro e dizione perfettibile con problemi per le consonanti doppie, ma l’espressività della cantante bene rende il dramma del personaggio e le agilità richieste dal ruolo trovano una felice realizzazione. L’intensa caratterizzazione ha i momenti migliore nell’ultima aria «Se non piango, o Dèi clementi» o nella suddetta lunga scena con aria «Rose che un dì spiegaste» che precede l’incontro con l’amato Abenamet, un Matteo Mezzaro scenicamente un po’ rigido ma dal mezzo vocale generoso seppure con un timbro povero di armonici. Il perfido Almuzir trova nel coreano Konu Kim una efficace definizione della complessità del personaggio nella sua aria «Amarla tanto! E perderla!» intonata con grande espressività e voce possente. Già apprezzato a Bergamo ne L’ange de Nisida, la sua è la performance più convincente della serata. Molto bene anche gli altri interpreti: Julian Henao Gonzalez è il subdolo Almanzor; Rachel Croash una trepida Ines; ma soprattutto Matteo Guerzé, un nobile Alj Zegri. Ottima prova è fornita anche dal WFO Chorus, qui tutto al maschile, diretto da Andrew Synnott.

Alla guida dell’orchestra del festival, non sempre impeccabilmente intonata, Diego Ceretta concerta sapientemente alternando le pagine più liriche alle strette più travolgenti riuscendo a dare un reale senso drammatico a questo giovanile lavoro di Donizetti che lascia presagire in più punti i futuri capolavori.

(1) Ecco lo schema delle due versioni:
Versione del 1822
Sinfonia
Atto I
N. 1 – Introduzione, coro e Cavatina di Almuzir Ah! patria un di sì forte!… – Pieghi la fronte audace
N. 2 – Coro e Cavatina di Zoraida Vieni, ah vieni, o del sol più bella – Ah! cessate… al mio dolore
N. 3 – Duetto fra Zoraida e Almuzir A rispettarmi impara
N. 4 – Cavatina di Abenamet Pace, tormenti atroci! – Zoraida… in van ti chiamo – Piangere, amar, nulla sperar
N. 5 – Quartetto Tanto propormi ardisci? (Abenamet, Almuzir, Zoraida, Coro, Alj)
N. 6 – Aria di Ines Del destin la tirannia
N. 7 – Finale I Come volando il folgore (Coro, Zoraida, Ines, Almanzor, Abenamet, Almanzor, Alj)
Atto II
N. 8 – Aria di Abenamet Questo dunque è il mio brando – D’un fato spietato – Dove sperar più fede
N. 9 – Aria di Zoraida Ah dolci a un core amante – Rose, che un dì spiegaste
N.10 – Terzetto fra Zoraida, Abenamet e Almuzir T’amo, sì, t’amai costante – Fuggi pur, tu fuggi invano
N. 11 – Coro e Aria di Almuzir Tetro dì. Di feral, sepolcral – Amarla tanto! E perderla!
N. 12 – Coro e Aria Finale di Zoraida Nel fior degl’anni tuoi – Se non piango, o Dèi clementi (Coro, Alj, Almuzir, Zoraida, Ines, Abenamet, Almanzor)

Versione del 1824
Sinfonia
Atto I
N. 1 – Introduzione, coro e Cavatina di Almuzir Ah! patria un di sì forte!… – Pieghi la fronte audace
N. 2a – Coro e Cavatina di Zoraida Vieni, ah vieni, o del sol più bella – Speme d’un raggio amico
N. 3 – Duetto fra Zoraida e Almuzir A rispettarmi impara
N. 4a – Coro e Cavatina di Abenamet Tremendo, ed infallibile – Era mia… m’amò… l’amai…
N. 5 – Quartetto Tanto propormi ardisci? (Abenamet, Almuzir, Zoraida, Coro, Alj)
N. 6 – Aria di Ines Del destin la tirannia
N. 7a – Finale I Inni al forte guerriero invincibile (Coro, Zoraida, Abenamet, Almuzir, Almanzor, Alj, Ines)
Atto II
N. 8a – Coro e Aria di Alj Fior d’ogni bella – Sì vi tradì la sorte (Coro, Almanzor, Alj)
N. 8b – Duetto fra Almuzir e Abenamet Là nel tempio, innanzi al nume
N. 9 – Aria di Zoraida Ah! dolci a un core amante – Rose, che un dì spiegaste
N. 10a – Terzetto fra Abenamet, Zoraida e Almuzir Ah no. Se tu non parti – Fuggi pur; tu fuggi invano
N. 11 – Coro e Aria di Almuzir Tetro dì. Di feral, sepolcral – Amarla tanto! E perderla! (Coro, Almuzir)
N. 12a – Coro e Aria Finale di Abenamet Nel fior degl’anni tuoi – Quando un’alma generosa (Coro, Abenamet, Zoraida, Ines, Almuzir)

 

Lohengrin

Richard Wagner, Lohengrin

Parigi, Opéra Bastille, 24 ottobre 2023

★★★

(live streaming)

Il prequel di Parsifal

Da quanto tempo e con quanta intensità viene denunciato l’obbrobrio delle guerre, eppure sembra che l’essere umano non riesca a estirparla dalla sua esistenza, come ci viene dimostrato quotidianamente. E ogni volta con sempre maggiore efferatezza. Coloro che si lamentano che gli allestimenti lirici troppo spesso presentino un’ambientazione di guerra, che cosa guardano nei loro schermi televisivi a casa? L’opera, il teatro non sono mera evasione, sono uno specchio della nostra contemporaneità nella sua tragica e sconfortante realtà. La consapevolezza che la guerra è mortale non è una novità, ma raramente è così devastantemente chiara come in questa produzione di Lohengrin – un’opera che si svolge in tempo di guerra – messa in scena per il suo debutto parigino da un perseguitato politico fuggito dal suo paese, quella Russia impegnata in una guerra di invasione di un paese confinante. Kirill Serebrennikov aveva già prodotto Parsifal, l’ultima opera di Wagner, e ora si occupa della sua prima, come molti considerano il Lohengrin.

Il regista e cineasta russo dà il tono della sua lettura già nel preludio con un video in cui vediamo un giovane sorridente che si aggira per una foresta e che viene ripetutamente accarezzato da una mano. Quando si toglie l’uniforme militare e si tuffa nudo in un lago, diventano visibili i tatuaggi ad ali di cigno sulla schiena. Il bel fratello giovane amato dalla sorella è un soldato in licenza a casa. Elsa è devastata dalla sua morte; malata nel corpo e nell’anima, la sua personalità è sdoppiata e il mondo diventa per lei un incubo. Quando viene convocata a corte lei, o uno dei suoi due sdoppiamenti di personalità, si presenta nuda davanti al re e al suo popolo. Nelle stanze adiacenti le pareti si restringono quando le cose sembrano farsi strette per la difesa di Elsa, per poi allargarsi nuovamente quando appare il fantomatico personaggio di Lohengrin accompagnato da due metà cigno sotto forma di danzatori con un’ala di cigno ciascuno. L’uniforme di Lohengrin assomiglia a quella dell’amato fratello: il ricordo di lui si confonde con la figura immaginaria del suo salvatore, una illusione fantasticata dalla giovane donna per proteggerla dalle sue fantasie. Come in playback, Elsa muove le labbra come se le sue parole di Lohengrin venissero da lei. Noi percepiamo l’intera vicenda dalla prospettiva di Elsa ma il suo trauma non è solo quello di una perdita individuale: nel secondo atto diventa il trauma di una società che sprofonda senza speranza nella guerra.

Nella prima parte del secondo atto, Telramund, menomato e con una protesi alla gamba, canta seduto in direzione di Ortrud, che è in piedi di fronte a lui, ma in realtà sta cantando a Elsa, che è a letto sedata da delle infermiere, ricordandoci che lui stesso un tempo aveva corteggiato Elsa. I coniugi Telramund cercano di manipolare Elsa come dottori in camice bianco della clinica in cui lei è ricoverata. Visivamente, la produzione offre immagini suggestive ed elaborate, grazie alle ambiziose scenografie di Olga Pavluk che divide il palcoscenico in diverse scene parallele che riflettono il mondo mentale frammentato di Elsa sublimato dalla sofisticata illuminazione di Franck Evin. A sinistra, soldati ricevono la visita delle loro giovani mogli. Al centro c’è un ospedale militare con feriti e mutilati e il re che distribuisce medaglie. I morti vengono portati accanto alla camera mortuaria a destra, i cui scomparti refrigerati sono da tempo stracolmi, i sacchi neri sono lasciati per terra. Le vedove, piegate dal dolore, hanno con loro solo le foto dei mariti, figli o fratelli. Quando Elsa esita se porre a Lohengrin la domanda proibita sulla sua identità, nella camera mortuaria accade qualcosa di inquietante: giovani uomini nudi escono dai sacchi dei cadaveri e lasciano la stanza camminando verso la luce, spettri che lasciano questo mondo.

Il terzo atto si apre con una serie di matrimoni di guerra rapidamente inscenati: durante la festosa marcia nuziale vediamo giovani soldati armati in azione nel video in alto mentre in basso coppie di soldati mutilati si fanno fotografare con la loro sposa sullo sfondo di un disegno con cigni sul lago. La gioia del momento maschera a malapena la paura di ciò che potrà accadere agli uomini. La scenografia, dapprima rigorosamente divisa in spazi distinti, dissolve gradualmente le partizioni per aprirsi sulla devastazione del mondo, dove si scontrano i vivi, i feriti e i morti. È qui che Lohengrin si congeda da Elsa, dopo averle consegnato la sua piastrina militare, per unirsi ai Cavalieri del Graal, l’unità d’élite a cui appartiene. Dopo il racconto di Monsalvat Lohengrin presenta il “Protettore” del Brabante: apre un sacco per cadaveri e ne esce un giovane uomo con la pelle segnata dalle ferite.

L’inizialmente previsto Gustavo Dudamel è sostituito molto degnamente dall’inglese Alexander Soddy che rende a meraviglia il romanticismo e la grandiosità di questa giovanile partitura wagneriana riuscendo a conferire all’Orchestre de l’Opéra National de Paris un respiro solenne, facendo brillare gli ottoni e svettare gli archi nella grande impalcatura orchestrale che porta a febbrili e densissimi climax. Anche il coro dà ottima prova e viene giustamente festeggiato con calore dal pubblico. Un cast composito si è alternato nelle diverse repliche: in quella del 24 ottobre trasmessa in streaming re Enrico è un pregevole Kwangchul Youn maestoso nel fraseggio e solenne nel timbro di un ruolo che ha spesso frequentato; Lohengrin ha il piglio spavaldo e la voce sicura di Piotr Beczała; Elsa è Johanni van Oostrun intensa ma dal timbro non omogeneo; Telramund un eccezionalmente espressivo Wolfgang Koch; Ekaterina Gubanova una memorabile Ortrud.