Ottocento

Jacobín

Antonín Dvořák, Jacobín (Il giacobino)

Brno, Janáčkovo Divadlo, 8 ottobre 2023

★★★☆☆

(registrazione video)

«Siamo Boemi e chiedete se sappiamo cantare?»

A distanza di pochi mesi due diversi teatri europei recuperano due titoli poco conosciuti di compositori apprezzati autori di sinfonie, due titoli che videro la luce nello stesso anno, il 1889: La pulzella d’Orléans di Čajkovskij e Jakobín (Il giacobino) di Antonín Dvořák, quest’ultima una commedia lirica pastorale in tre atti il cui libretto di Marie Červinková-Riegrová utilizza i personaggi del racconto di Alois Jirásek Na dvoře vévodském (Alla corte ducale, 1877), ma in una trama di sua ideazione. Dietro sua espressa richiesta la scrittrice inserisce, ad esempio l’inno cantato dalla congregazione religiosa e il canto patriottico di Bohuš.

La prima rappresentazione dell’opera ebbe luogo il 9 febbraio 1889 al Teatro Nazionale di Praga con la direzione di Adolf Čech; nonostante il successo ottenuto, Dvořák e la sua librettista decisero di modificare sostanzialmente il lavoro: la Riegrová tagliò alcuni episodi (come la visita del conte a Benda), riscrisse il terzo atto e tra il febbraio e l’agosto del 1897 Dvořák ricompose l’ultimo e lo orchestrò, mentre le modifiche al primo atto e al secondo richiesero l’intervento del padre della Riegrová la quale, frattanto, era deceduta. La prima di questa nuova versione venne allestita nello stesso teatro il 19 giugno 1898, versione che da allora è diventata quella comunemente proposta.

Atto primo. In Boemia, all’epoca della rivoluzione francese. Il conte Wilem di Harasov ha ripudiato il figlio Bohuš per le sue idee troppo liberali, preferendogli come erede il nipote Adolf. Durante una festa, Bohuš, che ha portato la moglie Julie a conoscere il suo luogo natio, si nasconde tra la folla sotto falsa identità. Nel frattempo, il burgravio del conte corteggia la figlia del maestro di scuola Benda, Terinka, che però è innamorata di Jiří. Il burgravio sospetta di Bohuš e Julie, soprattutto perché sono arrivati da Parigi, dove si dice che il figlio del conte sia alleato dei giacobini. Con grande sorpresa di tutti, appare il Conte in persona, che conferma di non considerare più Bohuš come suo figlio e che il suo erede sarà il nipote Adolf. Adolf e il burgravio esultano.
Atto secondo. Nella scuola, Benda prova un coro di bambini e abitanti della città, insieme a Terinka e Jiří come solisti, in una cantata che celebrerà la nuova posizione di Adolf. Dopo le prove, Terinka e Jiří si dichiarano il loro amore, ma Benda torna e annuncia che sua figlia deve sposare il burgravio. Si sviluppa una discussione, ma all’improvviso torna il popolo, allarmato dalla voce che i sinistri giacobini sono arrivati in città. I cittadini fuggono terrorizzati, mentre Bohuš e Julie arrivano per chiedere a Benda se può ospitarli per qualche giorno. Lui inizialmente rifiuta, ma quando rivelano di essere Boemi che si sono mantenuti all’estero cantando le canzoni della loro terra natale, lui, Terinka e Jiří sono sopraffatti dall’emozione e sono felici di ospitarli. Il burgravio viene a corteggiare Terinka, ma lei lo respinge. Quando Jiří lo sfida, il burgravio minaccia di costringerlo a entrare nell’esercito, ma all’improvviso entra Adolf, che vuole sapere se il “giacobino” Bohuš è stato arrestato. Il burgravio tergiversa, ma arriva Bohuš stesso e rivela chi è. Lui e Adolf litigano e Adolf ordina l’arresto di Bohuš.
Atto terzo. Al castello, Jiří cerca di incontrare il Conte per dirgli che suo figlio è stato imprigionato, ma viene a sua volta arrestato per ordine di Adolf e del burgravio. La nutrice Lotinka fa entrare Julie e Benda e va a prendere il Conte. Julie si nasconde e Benda cerca di preparare il vecchio a una riconciliazione con Bohuš. Il conte, tuttavia, è ancora arrabbiato con il figlio per aver sposato e lasciato la Boemia e per le sue presunte simpatie giacobine. Benda se ne va e il conte si lamenta della sua vita solitaria e si chiede se, dopo tutto, abbia giudicato male il figlio. Fuori scena, Julie canta una canzone che la defunta contessa era solita cantare a Bohuš quando era bambino e il conte, riconoscendola e preso dall’emozione, chiede a Julie dove l’abbia imparata. Quando scopre che è stato suo figlio a insegnargliela, la sua rabbia ritorna, ma Julie riesce a convincerlo che Bohuš, lungi dall’essere un giacobino, sosteneva i girondini ed era stato condannato a morte dai giacobini. A questo punto rivela che Bohuš è in prigione e che lei è sua moglie, ma i festeggiamenti stanno per iniziare e lei se ne va. I bambini e gli abitanti della città si rallegrano e il Conte annuncia che presenterà loro il suo successore. Adolf è felicissimo, ma il Conte chiede prima a lui e al Burgravio se ci sono prigionieri che può perdonare nell’ambito dei festeggiamenti. I due ammettono a malincuore che ci sono, e Bohuš e Jiří vengono convocati. Il Burgravio capisce che il gioco è fatto quando il Conte denuncia l’intrigante Adolf e abbraccia Bohuš e Julie. Bohuš elogia la lealtà di Jiří e Terinka e il Conte unisce le loro mani. Anche Benda dà loro la sua benedizione e l’opera si conclude con un minuetto, una polka e un coro che elogia il Conte e la sua ritrovata felicità con il figlio e la famiglia.

I caratteri formali, la trama melodica e l’arco emotivo della vicenda sono intessuti di radici nazionali e popolari e Jakobín conferma così che il genere operistico incentrato su tematiche nazionalistiche, ma dal carattere aperto ed europeo, era in grado di riscuotere un vasto successo. «Come nelle sue due opere comiche precedenti, Král a uhlír Komická (Il re e il carbonaio, 1871) e soprattutto Šelma sedlák (Il contadino furbo, 1877), nel Giacobino Dvořák piega la sua spontanea vena melodica alla duttilità dell’ironia e del sorriso. Lontano dall’imponenza da grand-opéra delle sue opere eroiche e tragiche, l’evocazione naturalistica e l’autentica simpatia per i sentimenti popolari acquistano una morbidezza drammaturgica tutta particolare. Si avverte l’influenza di Smetana e talvolta di Musorgskij, ma colpisce soprattutto l’acutezza di introspezione psicologica da cui sono pervase le melodie. La freschezza della cantabilità  lirica, infatti, è qui l’elemento strutturale primario, intorno al quale si articola la scansione narrativa; ciò deriva anche dallo stretto contatto tra il compositore e la librettista, che spesso aggiungeva episodi e frasi o modificava la scansione ritmica del testo per adeguarsi a melodie e idee musicali già abbozzate da Dvořák» (Lidia Bramani).

Il momento più commovente dell’opera, quasi una professione di fede da parte dell’artista, si ha alla fine del secondo atto quando Bohuš e Julie raccontano: «Jen ve zpěvu, jsme našli úlevu, by naděj vzňal, Bůh žití žal, nám písně svaté kouzlo dal» (Solo nel canto abbiamo trovato sollievo, sarebbe sorta la speranza, Dio che vive il dolore, ci ha dato la sacra magia del canto), un tema struggente che viene riprese da Benda, Terinka e Jiří e scatena il commosso applauso del pubblico.

Jakobín era stato prodotto dal Narodní Divadlo di Praga nel 2011, ora tocca al Janáčkovo Divadlo di Brno rinfrescare il ricordo di quest’opera, praticamente sconosciuta al di fuori della sua patria, con una affettuosa produzione di Martin Glaser con l’impianto scenografico naïf di Pavel Borák e i costumi, un po’ ridicoli, di David Janošekin. Nel cast nomi quasi del tutto sconosciuti, in cui l’unica voce che si fa notare per bellezza della linea di canto ed espressività è quella di Pavla Vykopalová, Julie. Ottimi come sempre i cori, specialmente quello di bambini. Jakub Klecker dirige con partecipazione l’orchestra del teatro sottolineando le melodie accattivanti e il colore nazionale della partitura di questo Dvořák meno drammatico del solito.

Zoraida di Granata

Gaetano Donizetti, Zoraida di Granata

Wexford, O’Reilly Theatre, 24 ottobre 2023

★★★

(video streaming)

Tosca incontra Fidelio che incontra Lohengrin

Nella primavera del 1821 l’impresario Giovanni Paterni, responsabile dei teatri romani, si era rivolto a Mayr per una nuova opera. Il maestro bavarese aveva indicato in sua vece l’allievo prediletto sottolineandone la fantasia e la «facilità di estendere le idee». Per il ventiquattrenne Gaetano Donizetti era un’occasione da non perdere. Il testo di Bartolomeo Merelli, lo stesso librettista dell’Enrico di Borgogna, venne tratto dal libretto di Luigi Romanelli per Abenamet e Zoraide di Giuseppe Nicolini del 1805. A meno di due settimane dal debutto Donizetti dovette eliminare tre numeri e adattare la parte di Abenamet a un “musico” cioè un contralto en travesti: durante le prove il giovane tenore Amerigo Sbigoli, ingaggiato per il ruolo di Abenamet, morì dopo aver cercato di superare il tenore rivale Donzelli durante una rappresentazione del Cesare in Egitto di Pacini, facendosi scoppiare un vaso sanguigno in gola. Non essendoci un sostituto, il suo ruolo dovette essere drasticamente ridotto e adattato al poco noto contralto Adelaide Mazzanti.

Nonostante gli inconvenienti, l’opera fu accolta trionfalmente. Sul settimanale romano “Notizie del giorno” del 31 gennaio 1822 la recensione annunciava «una nuova e lietissima speranza per il teatro musicale italiano […] il giovane Maestro Gaetano Donizetti […] si è lanciato con forza nella sua opera seria, Zoraida. Unanimi, sinceri, universali sono stati gli applausi che ha giustamente raccolto dal pubblico presente». Così presenta il lavoro Bernardino Zappa su Opera Manager: «La focosità dei sentimenti, il calore mediterraneo e il clima di accese passioni si vestono di una musica esuberante e aggressiva, generosa di espansioni melodiche e di acrobazie belcantistiche. L’ambientazione esotica viene incrementata anche da un reiterato cromatismo discendente, come nella cullante romanza notturna di Zoraida (Rose che un dì spiegaste). Formidabile virtuosismo e copiosi abbellimenti di bravura si trovano infatti in tutti i pezzi allora più acclamati. L’opera venne ripresa due anni più tardi, sempre a Roma, con una profonda revisione del libretto e della musica. L’eleganza della nuova veste poetica, opera del raffinato Jacopo Ferretti, non raccolse tuttavia analoghi entusiasmi di pubblico». Nella ripresa all’Argentina nel gennaio del 1824, Donizetti aveva infatti rivisto la partitura, ampliando ancora una volta il ruolo di Abenamet per mettere in mostra la bravura del contralto protagonista, Rosamunda Pisaroni-Carrara.

Zoraida porta il segno dell’influenza di Mayr sullo stile compositivo di Donizetti, ma ci sono segni della crescente consapevolezza di Donizetti delle innovazioni introdotte da Rossini. Numerosi sono i momenti musicali salienti: il trio del primo atto che si sviluppa in un quartetto, due arie meravigliosamente introspettive nel secondo atto, una per Abenamet quando è imprigionato in una prigione e l’altra, una romanza, per Zoraida quando è in giardino.

Atto I. L’azione si svolge nel 1480. Granada è nuovamente assediata dagli spagnoli. Il sovrano moresco Almuzir desidera Zoraida, la figlia del precedente re che ha rovesciato. Ma Zoraida ama il generale Abenamet, capo degli Abenceragi. Per separare i due, Almuzir fa gettare in prigione il suo rivale, ma i seguaci del popolare Abenamet non abbandonano il loro capo. Gli viene detto di rinunciare al suo amore per Zoraida, altrimenti verrà giustiziato. Gli spagnoli si ribellano e l’esercito moresco non vuole andare in battaglia senza il suo generale. Il sovrano rilascia a malincuore il suo rivale e gli consegna la bandiera con cui Abenamet deve andare in battaglia. La vittoria spetta ai Mori, ma la bandiera è scomparsa. Abenamet viene rimesso in prigione, perché la perdita della bandiera è punita con la morte.
Atto II. Zoraida è pronta a sposare Almuzir, perché questo potrebbe salvare la vita di Abenamet. A quest’ultimo rimane un solo desiderio: vuole vedere ancora una volta la sua amata e poi togliersi la vita. I due si incontrano di notte nel giardino dell’Alhambra e Zoraida riesce a dissuaderlo dal suo folle desiderio. Ma Aly, un ufficiale di Almuzir, scopre i due e Zoraida viene accusata di aver favorito la fuga e condannata a morte. La sua unica possibilità è in un volontario che se combatterà vittoriosamente per lei, le verrà concesso il dono della vita. Appare un misterioso cavaliere con una visiera nascosta e uno stendardo. Ferisce l’infido Aly, che ha introdotto di nascosto la bandiera moresca nell’accampamento spagnolo, all’insaputa di Almuzir, per accusare Abenamet della perdita. Il popolo reagisce indignato. Abenamet si rivela il misterioso cavaliere e difende Almuzir dal popolo infuriato. La folla invoca allora la morte per il re ma Abenamet lo perdona e questi, pentito, benedice l’unione dei due amanti.

Anche qui, come nel Fidelio beethoveniano, il secondo atto si apre con un uomo in catene che ricorda l’amore fedele della sua donna che viene poi a salvarlo. E c’è poi pure la tromba che risolve la situazione. I dodici numeri musicali della prima versione (1) sono una sapiente successione di arie solistiche e pezzi d’insieme che crescono di intensità man mano che la posta in gioco diventa sempre più alta. Si tratta anche di un’opera di grande importanza, poiché il suo successo portò Donizetti a ottenere un contratto con l’impresario Domenico Barbaja che gli aprì la strada verso Napoli e un apprendistato di otto anni che lo lasciò pronto a sfondare con Anna Bolena alla Scala nel 1830.

Scegliendo la versione del 1822 nella nuova edizione critica di Edoardo Cavalli della Fondazione Teatro Donizetti, il 72° Wexford Festival Opera, assieme al Donizetti Opera Festival, continua al di là della Manica la riscoperta dei titoli meno conosciuti del compositore di Bergamo: nel 1952 fu il WFO a riportare alla popolarità L’elisir d’amore mentre molto recentemente ci sono stati Maria di Rohan (2005), Maria Padilla (2009), Gianni di Parigi (2011) e Maria di Rudenz (2016). 

Rosetta Cucchi, direttrice artistica del festival irlandese, ha intitolato “Women & War” il cartellone del 2023 comprendente tre titoli che raccontano di donne in guerra: L’aube rouge di Camille Erlanger, La ciociara di Marco Tutino e, appunto, Zoraida di Granata. La guerra è d’attualità oltre che nella realtà anche nell’opera e nella sua ambientazione e il regista Bruno Ravella ha buon gioco a trasportare le vicende dalla Spagna del 1480 all’epoca della Guerra dei Balcani, collocando l’azione in un luogo che richiama la Biblioteca di Sarajevo, distrutta dalle bombe. Lo scenografo Gary McCann aggiunge un tocco di moresco agli archi e alle colonne di questo luogo devastato dalla guerra al quale il pregevole gioco luci di Daniele Naldi aggiunge un tocco ulteriormente drammatico. Di McCann sono anche i costumi: un rigido doppio petto per il tiranno Almuzir, mimetiche militari per gli uomini, un abitino azzurro e uno bianco per la protagonista. Sono gli anni Novanta, ma potrebbe trattarsi della contemporaneità, di un luogo che unisce il passato, la cultura e il tempo presente della guerra, con la figura di Zoraida che cerca di tenere insieme qualcosa che sta crollando. La lettura del regista Bruno Ravella mette in luce l’inutilità della guerra: l’opera si conclude con una nota positiva, ma si capisce che molto è andato perduto.

Nato a Casablanca da madre polacca e padre italiano, Ravella ha studiato in Francia e lavora a Londra. Assistente di Robert Carsen e David McVicar, è alla sua seconda regia donizettiana dopo un Elisir d’amore in formato ridotto della Hampstead Garden Opera, la sua prima produzione, nel 2008. Grande cura è riservata alla scansione delle scene e alla recitazione dei cantanti, giovani dalla carriera ben avviata com’è il caso di Claudia Boyle, soprano irlandese la cui Zoraida ha qualche asperità nel timbro e dizione perfettibile con problemi per le consonanti doppie, ma l’espressività della cantante bene rende il dramma del personaggio e le agilità richieste dal ruolo trovano una felice realizzazione. L’intensa caratterizzazione ha i momenti migliore nell’ultima aria «Se non piango, o Dèi clementi» o nella suddetta lunga scena con aria «Rose che un dì spiegaste» che precede l’incontro con l’amato Abenamet, un Matteo Mezzaro scenicamente un po’ rigido ma dal mezzo vocale generoso seppure con un timbro povero di armonici. Il perfido Almuzir trova nel coreano Konu Kim una efficace definizione della complessità del personaggio nella sua aria «Amarla tanto! E perderla!» intonata con grande espressività e voce possente. Già apprezzato a Bergamo ne L’ange de Nisida, la sua è la performance più convincente della serata. Molto bene anche gli altri interpreti: Julian Henao Gonzalez è il subdolo Almanzor; Rachel Croash una trepida Ines; ma soprattutto Matteo Guerzé, un nobile Alj Zegri. Ottima prova è fornita anche dal WFO Chorus, qui tutto al maschile, diretto da Andrew Synnott.

Alla guida dell’orchestra del festival, non sempre impeccabilmente intonata, Diego Ceretta concerta sapientemente alternando le pagine più liriche alle strette più travolgenti riuscendo a dare un reale senso drammatico a questo giovanile lavoro di Donizetti che lascia presagire in più punti i futuri capolavori.

(1) Ecco lo schema delle due versioni:
Versione del 1822
Sinfonia
Atto I
N. 1 – Introduzione, coro e Cavatina di Almuzir Ah! patria un di sì forte!… – Pieghi la fronte audace
N. 2 – Coro e Cavatina di Zoraida Vieni, ah vieni, o del sol più bella – Ah! cessate… al mio dolore
N. 3 – Duetto fra Zoraida e Almuzir A rispettarmi impara
N. 4 – Cavatina di Abenamet Pace, tormenti atroci! – Zoraida… in van ti chiamo – Piangere, amar, nulla sperar
N. 5 – Quartetto Tanto propormi ardisci? (Abenamet, Almuzir, Zoraida, Coro, Alj)
N. 6 – Aria di Ines Del destin la tirannia
N. 7 – Finale I Come volando il folgore (Coro, Zoraida, Ines, Almanzor, Abenamet, Almanzor, Alj)
Atto II
N. 8 – Aria di Abenamet Questo dunque è il mio brando – D’un fato spietato – Dove sperar più fede
N. 9 – Aria di Zoraida Ah dolci a un core amante – Rose, che un dì spiegaste
N.10 – Terzetto fra Zoraida, Abenamet e Almuzir T’amo, sì, t’amai costante – Fuggi pur, tu fuggi invano
N. 11 – Coro e Aria di Almuzir Tetro dì. Di feral, sepolcral – Amarla tanto! E perderla!
N. 12 – Coro e Aria Finale di Zoraida Nel fior degl’anni tuoi – Se non piango, o Dèi clementi (Coro, Alj, Almuzir, Zoraida, Ines, Abenamet, Almanzor)

Versione del 1824
Sinfonia
Atto I
N. 1 – Introduzione, coro e Cavatina di Almuzir Ah! patria un di sì forte!… – Pieghi la fronte audace
N. 2a – Coro e Cavatina di Zoraida Vieni, ah vieni, o del sol più bella – Speme d’un raggio amico
N. 3 – Duetto fra Zoraida e Almuzir A rispettarmi impara
N. 4a – Coro e Cavatina di Abenamet Tremendo, ed infallibile – Era mia… m’amò… l’amai…
N. 5 – Quartetto Tanto propormi ardisci? (Abenamet, Almuzir, Zoraida, Coro, Alj)
N. 6 – Aria di Ines Del destin la tirannia
N. 7a – Finale I Inni al forte guerriero invincibile (Coro, Zoraida, Abenamet, Almuzir, Almanzor, Alj, Ines)
Atto II
N. 8a – Coro e Aria di Alj Fior d’ogni bella – Sì vi tradì la sorte (Coro, Almanzor, Alj)
N. 8b – Duetto fra Almuzir e Abenamet Là nel tempio, innanzi al nume
N. 9 – Aria di Zoraida Ah! dolci a un core amante – Rose, che un dì spiegaste
N. 10a – Terzetto fra Abenamet, Zoraida e Almuzir Ah no. Se tu non parti – Fuggi pur; tu fuggi invano
N. 11 – Coro e Aria di Almuzir Tetro dì. Di feral, sepolcral – Amarla tanto! E perderla! (Coro, Almuzir)
N. 12a – Coro e Aria Finale di Abenamet Nel fior degl’anni tuoi – Quando un’alma generosa (Coro, Abenamet, Zoraida, Ines, Almuzir)

 

Lohengrin

Richard Wagner, Lohengrin

Parigi, Opéra Bastille, 24 ottobre 2023

★★★

(live streaming)

Il prequel di Parsifal

Da quanto tempo e con quanta intensità viene denunciato l’obbrobrio delle guerre, eppure sembra che l’essere umano non riesca a estirparla dalla sua esistenza, come ci viene dimostrato quotidianamente. E ogni volta con sempre maggiore efferatezza. Coloro che si lamentano che gli allestimenti lirici troppo spesso presentino un’ambientazione di guerra, che cosa guardano nei loro schermi televisivi a casa? L’opera, il teatro non sono mera evasione, sono uno specchio della nostra contemporaneità nella sua tragica e sconfortante realtà. La consapevolezza che la guerra è mortale non è una novità, ma raramente è così devastantemente chiara come in questa produzione di Lohengrin – un’opera che si svolge in tempo di guerra – messa in scena per il suo debutto parigino da un perseguitato politico fuggito dal suo paese, quella Russia impegnata in una guerra di invasione di un paese confinante. Kirill Serebrennikov aveva già prodotto Parsifal, l’ultima opera di Wagner, e ora si occupa della sua prima, come molti considerano il Lohengrin.

Il regista e cineasta russo dà il tono della sua lettura già nel preludio con un video in cui vediamo un giovane sorridente che si aggira per una foresta e che viene ripetutamente accarezzato da una mano. Quando si toglie l’uniforme militare e si tuffa nudo in un lago, diventano visibili i tatuaggi ad ali di cigno sulla schiena. Il bel fratello giovane amato dalla sorella è un soldato in licenza a casa. Elsa è devastata dalla sua morte; malata nel corpo e nell’anima, la sua personalità è sdoppiata e il mondo diventa per lei un incubo. Quando viene convocata a corte lei, o uno dei suoi due sdoppiamenti di personalità, si presenta nuda davanti al re e al suo popolo. Nelle stanze adiacenti le pareti si restringono quando le cose sembrano farsi strette per la difesa di Elsa, per poi allargarsi nuovamente quando appare il fantomatico personaggio di Lohengrin accompagnato da due metà cigno sotto forma di danzatori con un’ala di cigno ciascuno. L’uniforme di Lohengrin assomiglia a quella dell’amato fratello: il ricordo di lui si confonde con la figura immaginaria del suo salvatore, una illusione fantasticata dalla giovane donna per proteggerla dalle sue fantasie. Come in playback, Elsa muove le labbra come se le sue parole di Lohengrin venissero da lei. Noi percepiamo l’intera vicenda dalla prospettiva di Elsa ma il suo trauma non è solo quello di una perdita individuale: nel secondo atto diventa il trauma di una società che sprofonda senza speranza nella guerra.

Nella prima parte del secondo atto, Telramund, menomato e con una protesi alla gamba, canta seduto in direzione di Ortrud, che è in piedi di fronte a lui, ma in realtà sta cantando a Elsa, che è a letto sedata da delle infermiere, ricordandoci che lui stesso un tempo aveva corteggiato Elsa. I coniugi Telramund cercano di manipolare Elsa come dottori in camice bianco della clinica in cui lei è ricoverata. Visivamente, la produzione offre immagini suggestive ed elaborate, grazie alle ambiziose scenografie di Olga Pavluk che divide il palcoscenico in diverse scene parallele che riflettono il mondo mentale frammentato di Elsa sublimato dalla sofisticata illuminazione di Franck Evin. A sinistra, soldati ricevono la visita delle loro giovani mogli. Al centro c’è un ospedale militare con feriti e mutilati e il re che distribuisce medaglie. I morti vengono portati accanto alla camera mortuaria a destra, i cui scomparti refrigerati sono da tempo stracolmi, i sacchi neri sono lasciati per terra. Le vedove, piegate dal dolore, hanno con loro solo le foto dei mariti, figli o fratelli. Quando Elsa esita se porre a Lohengrin la domanda proibita sulla sua identità, nella camera mortuaria accade qualcosa di inquietante: giovani uomini nudi escono dai sacchi dei cadaveri e lasciano la stanza camminando verso la luce, spettri che lasciano questo mondo.

Il terzo atto si apre con una serie di matrimoni di guerra rapidamente inscenati: durante la festosa marcia nuziale vediamo giovani soldati armati in azione nel video in alto mentre in basso coppie di soldati mutilati si fanno fotografare con la loro sposa sullo sfondo di un disegno con cigni sul lago. La gioia del momento maschera a malapena la paura di ciò che potrà accadere agli uomini. La scenografia, dapprima rigorosamente divisa in spazi distinti, dissolve gradualmente le partizioni per aprirsi sulla devastazione del mondo, dove si scontrano i vivi, i feriti e i morti. È qui che Lohengrin si congeda da Elsa, dopo averle consegnato la sua piastrina militare, per unirsi ai Cavalieri del Graal, l’unità d’élite a cui appartiene. Dopo il racconto di Monsalvat Lohengrin presenta il “Protettore” del Brabante: apre un sacco per cadaveri e ne esce un giovane uomo con la pelle segnata dalle ferite.

L’inizialmente previsto Gustavo Dudamel è sostituito molto degnamente dall’inglese Alexander Soddy che rende a meraviglia il romanticismo e la grandiosità di questa giovanile partitura wagneriana riuscendo a conferire all’Orchestre de l’Opéra National de Paris un respiro solenne, facendo brillare gli ottoni e svettare gli archi nella grande impalcatura orchestrale che porta a febbrili e densissimi climax. Anche il coro dà ottima prova e viene giustamente festeggiato con calore dal pubblico. Un cast composito si è alternato nelle diverse repliche: in quella del 24 ottobre trasmessa in streaming re Enrico è un pregevole Kwangchul Youn maestoso nel fraseggio e solenne nel timbro di un ruolo che ha spesso frequentato; Lohengrin ha il piglio spavaldo e la voce sicura di Piotr Beczała; Elsa è Johanni van Oostrun intensa ma dal timbro non omogeneo; Telramund un eccezionalmente espressivo Wolfgang Koch; Ekaterina Gubanova una memorabile Ortrud.

Amleto

© Ennevi Foto

Franco Faccio, Amleto

Verona, Teatro Filarmonico, 22 ottobre 2023

★★★

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«Essere o non essere! codesta la tesi ell’è»

Tra un mese il Mefistofele di Arrigo Boito aprirà la stagione lirica romana, ma intanto al Filarmonico di Verona è possibile scoprire un altro lavoro di quegli anni, ispirato questa volta non a Goethe ma a Shakespeare, «la grande attualità del melodramma» come scrive Boito nel 1865 pensando al Macbeth di Verdi andato in scena a Parigi ad aprile e al suo libretto dell’Amleto con musica di Franco Faccio presentato a Genova il 30 maggio. Boito ha 23 anni, Faccio 25, entrambi sono veneti e appartengono al movimento della Scapigliatura, sono giovani, irruenti e si arruoleranno entrambi nel corpo dei volontari di Garibaldi in occasione della Terza Guerra d’Indipendenza. Il frutto del loro lavoro non ha però il successo sperato e sei anni dopo viene presentato in una versione piuttosto rimaneggiata alla Scala di Milano il 9 febbraio 1871. Ma è un fiasco ancora maggiore e l’indisposizione dell’interprete titolare, il tenore Mario Tiberini, è la scusa per ritirare il lavoro, che non verrà mai più rappresentato. Per Faccio è anche la decisione di abbandonare per sempre la composizione e dedicarsi solo alla direzione d’orchestra. 

L’Amleto è stato ripreso ad Albuquerque nel 2014 nell’edizione critica di Anthony Barrese e poi a Bregenz nel 2016 in una produzione disponibile in video. Ora ritorna nella città natale del compositore come prima esecuzione italiana in tempi moderni preceduta da un’interessante tavola rotonda ospitata a Palazzo Maffei in Piazza delle Erbe, dove esperti hanno discusso delle peculiarità di un lavoro che rappresenta un unicum nella storia dell’opera italiana nella sua traduzione della drammaturgia scespiriana e nella restituzione teatrale delle teorie della Scapigliatura. Non ultima è la sua difficoltà di esecuzione legata alla parte vocale estremamente impegnativa del personaggio principale per di più quasi sempre presente in scena. 

L’Amleto è opera ambiziosa, velleitaria ma piena di un’energia giovanile che cerca ispirazioni ad ampio raggio – Verdi, Wagner, la grandiloquenza del grand-opéra, ma anche il lirismo di Gounod – con risultati inediti e a loro modo personali. Chi ha voluto l’opera ha dovuto affrontare un primo problema: della versione scaligera si è perso il quarto atto, manca dagli archivi Ricordi. Quella qui proposta è una versione spuria: i primi tre atti sono del 1871 e il quarto del 1865. Il secondo problema era quella del reperimento dell’interprete titolare, ma la scelta del tenore Angelo Villari per la prima e per l’ultima recita (si alterna con Samuele Simoncini nelle altre due recite) ha giustificato questa attesa ripresa grazie alle qualità vocali dell’interprete. Il suo ruolo anticipa quelli della Giovane Scuola (soprattutto Giordano) e il cantante, che ha in repertorio Ponchielli, Mascagni, Cilea, Respighi, affronta con agio una tessitura che si può definire sadicamente impervia. Villari esibisce una voce sonora, un timbro squillante e di grande proiezione, uno scavo della parola e un fraseggio efficace, ma diversamente dall’Amleto introverso e straniato di Pavel Černoch dell’edizione di Bregenz, il suo è virile e deciso, anche troppo, la figura quasi mussoliniana e il turbamento del personaggio di Shakespeare, la sua cinica ironia qui sono assenti. Per contrasto, ancora più intensa, trepidante ed emozionante è l’Ofelia di Gilda Fiume che domina perfettamente la lunga scena della pazzia. Anche lei si alterna nelle recite con un altro soprano, Eleonora Bellocci. 

La regina Geltrude nel libretto di Faccio ha un momento di pentimento assente in Shakespeare, «Ah! Che dissi? Io rea, che il padre | spensi al figlio e tolsi il trono, | non son madre, ah non son madre!…», che Marta Torbidoni intona con grande intensità e voce ricca di risonanze gravi. Dei molti altri interpreti alcuni sono più convincenti di altri, ma tutti dipanano con efficacia teatrale la lingua artificiosissima di Boito, qui più scapigliato che nelle successive opere di Verdi. Nel suo Amleto tocca le vette dello sperimentazione e della ricercatezza linguistica: «Con impaziente foja abbandonava la sposa del magnanimo defunto nell’adre braccia di quel drudo! […] All’arsiccio gorgozzule bramoso una felice innaffïata […] Eccovi tutto grullo e incamuffito!». Fortunatamente il cast è interamente italiano è una sbirciata al vocabolario risolve il problema di comprensione.

L’orchestra della Fondazione Arena di Verona dà ottima prova sotto la guida di Giuseppe Grazioli che ha sostituito il previsto Alessandro Bonato. Senza nulla togliere dell’esuberanza a tratti ingenua della partitura, ne fornisce una lettura antiretorica che ha i momenti migliori nelle pagine puramente strumentali dei preludi e della marcia funebre di Ofelia, un lungo solenne brano che ha preso la strada dei concerti sinfonici ed è la pagina più conosciuta dell’opera. Anche il coro, istruito da Roberto Gabbiani, si è dimostrato all’altezza della prova.

Alla sua prima regia lirica Paolo Valerio non delude ma neanche esalta: il suo è un impianto minimalistico che fonde elementi tradizionali, quinte, tende, frange, con le proiezioni di Ezio Antonelli in modo sobrio. Se i movimenti del coro sono impacciati, meglio vanno i personaggi principali e gli attori della pantomima trasformati in marionette. Efficaci le luci di Claudio Schmidt mentre poco caratterizzati si rivelano i costumi di Silvia Bonetti, che rimandano agli anni tra le due guerre in cui il regista sembra voler ambientare la storia. Ma lo spettro del padre di Amleto si presenta in un’incongrua armatura!

Un pubblico molto partecipe e generoso di applausi a scena aperta ha decretato col suo entusiasmo che l’Amleto di Faccio può entrare nel repertorio. E si sa, il pubblico ha quasi sempre ragione…

   

La pulzella d’Orléans

Pëtr Il’ič Čajkovskij, La pulzella d’Orléans

Düsseldorf, Opernhaus, 30 agosto 2023

★★★★☆

(video streaming)

Giovanna, donna lacerata tra missione celeste e terrena umanità

Negli ultimi tempi due teatri tedeschi hanno ripescato due titoli di Čajkovskij quasi del tutto assenti dai cartelloni lirici. Prima l’Opera di Francoforte con L’incantatrice, ora la Deutsche Oper am Rhein di Düsseldorf con La Pulzella d’Orléans propongono due titoli che ci mostrano l’altro lato del compositore di sinfonie, concerti e balletti, delle cui undici opere liriche vengono eseguite regolarmente solo Evgenij Onegin, La dama di picche e, più di rado, Iolanta.

In originale Орлеанская дева (Orleanskaia Deva) La Pulzella d’Orléans è un’opera in quattro atti e sei scene rappresentata per la prima volta al teatro Mariinskij di San Pietroburgo, il 13 febbraio 1881. Il libretto fu redatto dal compositore stesso a partire da fonti diverse: la tragedia Die Jungfrau von Orleans (1801) di Friedrich Schiller, soprattutto, ma anche il testo di Jules Barbier per la Jeanne d’Arc di Gounod del 1873, quello di Auguste Mermet per la propria Jeanne d’Arc (1876) e l’Histoire de Jeanne d’Arc (1860), biografia dello storico Henri-Alexandre Wallon. Si potrebbe aggiungere all’elenco anche la Giovanna d’Arco di Verdi del 1845. Presentata per la prima volta al teatro Mariinskij di San Pietroburgo il 13 febbraio 1881, fu considerata in seguito quasi perduta scomparendo dai palinsesti dei teatri  per decenni durante la vita di Čajkovskij.

Nella Guerra dei Cent’anni contro l’Inghilterra, i francesi si trovano in una situazione difficile: Parigi è caduta, Orléans è assediata e il legittimo erede al trono, Carlo VII, è bloccato nell’immobilismo. In questa situazione disperata, la figlia del contadino Giovanna proclama che Dio l’ha incaricata di liberare Orléans dall’occupazione. Un voto di castità certifica la missione divina di Giovanna di fronte ai suoi compatrioti, il cui coraggio combattivo viene riacceso dalla determinazione della giovane donna e sotto la sua guida viene conseguita la vittoria decisiva. Ma Giovanna, pur essendo venerata come casta guerriera, ha smesso da tempo di esserlo: ha perso il cuore per il combattente nemico Lionel. 

Atto I. Nella piazza di un villaggio. Alcune ragazze adornano una quercia e intonano dei canti. Il contadino Thibaut è infastidito dalla loro spensieratezza in un momento così terribile per la patria. Egli è inquieto per sua figlia, la diciassettenne Giovanna d’Arco: la vuole dare in sposa a Raimond, per allontanarla dai pericoli, ma lei sente come un ordine dall’alto di essere destinata ad altre cose. Le campane annunciano la caduta di Parigi e l’assedio di Orléans, che rischia di soccombere. Il popolo prega disperato per la salvezza, e Giovanna profetizza con ispirazione la vicina vittoria sul nemico. La ragazza prende congedo dal padre, mentre ode voci di angeli, che la ringraziano per la sua impresa eroica.
Atto II. Nel castello di Chinon. Il re Carlo VII si diverte a corte con la sua amante, tra paggi, buffoni e menestrelli, dimentico dei suoi doveri. Né la comparsa del cavaliere Lauret, ferito a morte in battaglia, né la dipartita del valoroso cavaliere Dunois, che decide di lasciare la corte per unirsi ai combattenti, non fanno smuovere il re dalla sua decisione di salvarsi con la ritirata. All’improvviso entra l’arcivescovo, accompagnato da cortigiani e popolani, a riferire al re della fuga degli inglesi, della vittoria dei francesi e della “gloriosa ragazza” che ha caricato i soldati nella lotta decisiva. Giovanna racconta ai presenti stupefatti la visione che ha avuto, con l’ordine di guidare la lotta agli invasori stranieri. Il voto di preservare la sua verginità era la condizione per la vittoria. Per ordine del re Giovanna è messa a capo delle truppe.
Atto III. Scena prima In un fitto bosco. Giovanna affronta a duello il cavaliere borgognone Lionel, che rimane ferito e perde l’elmo. Sedotta dal bel viso del giovane, la ragazza non lo uccide. Lionel è toccato dalla magnanimità di Giovanna, che, scossa da un sentimento nuovo, considera la possibilità di infrangere il suo voto. Lionel decide di passare dalla parte dei francesi e consegna la sua spada a Dunois che è appena arrivato, mentre il suo cuore già arde d’amore per Giovanna. Scena seconda La piazza della cattedrale di Reims. Il popolo rende gloria al re e a Giovanna vincitrice. Suo padre Thibaut è molto afflitto perché ritiene che tutte le gesta di Giovanna derivino dal diavolo e decide di dover salvare l’anima della figlia, anche a costo di sacrificarne la vita. Proprio quando il re proclama Giovanna salvatrice della patria e ordina di erigerle un altare, Thibaut l’accusa di essere in comunione col maligno e le chiede di dimostrare pubblicamente la sua purezza. Alla domanda se si ritenga pura o impura, Giovanna però non risponde, tormentata dall’amore per Lionel. Dunois cerca di proteggerla, ma il popolo, spaventato dai tuoni di un temporale, la respinge, temendo il castigo divino. Giovanna scaccia via Lionel, che invano desidera intervenire per lei.
Atto IV. Scena prima In un bosco. Giovanna d’Arco è sola, abbandonata e maledetta da tutti, in preda ai suoi tormenti. All’improvviso appare Lionel, che la stava cercando disperatamente: la riconosce e lei gli risponde non potendo opporsi al sentimento d’amore. Ma la loro felicità dura solo un istante: sopraggiungono infatti dei soldati inglesi che uccidono Lionel e trascinano via la ragazza. Scena seconda Sulla piazza di Rouen. Il rogo è pronto: Giovanna sarà giustiziata. Il popolo, riunitosi in gran numero, prova compassione per l’eroina, e non crede nella giustizia della punizione. La ragazza è condotta al rogo a cui viene dato fuoco. Giovanna tiene fra le mani una croce e si affida a Dio, pronta ad affrontare la morte. Sente le voci di angeli, che le annunciano il perdono.

I temi dell’amore impossibile e del senso di colpa devono avere attirato il compositore russo come un riflesso della sua esistenza e in questo lavoro poco conosciuto mette a disposizione la sua vena melodica più trascinante. Lo stesso Čajkovskij considerava La pulzella d’Orléans la sua opera più importante. Non si tratta quindi di una debole opera giovanile che potrebbe essere giustamente dimenticata. «Per raccontare una vicenda francese, Čajkovskij sembra prendere come modello l’opéra di quella nazione. Guarda al grand-opèra di Meyerbeer (nella scena dell’incoronazione e nel duetto del re e di Agnès), ma anche al lirismo di Bizet e di Gounod. Tuttavia, Čajkovskij qui risente anche dell’influsso di Musorgskij, trovandosi a trattare una materia epica; e così alcune scene corali, e il racconto di Giovanna nel secondo atto, ricordano il Boris. D’altra parte, in quest’opera al centro dell’interesse drammaturgico del compositore è il racconto della vicenda di una semplice donna, non tanto nei suoi lati eroici o nell’esaltazione mistica. Le pagine più riuscite e toccanti, pertanto, pur frammiste a cori, concertati, scene di corte e di piazza che a tratti appaiono forse un poco generiche, sono le due romanze di Giovanna: quella del primo atto, una delicata melodia nella quale saluta il suo luogo natio, e quella del secondo atto, dove ella racconta al re la sua vita. Giovanna è un personaggio nostalgico e innamorato, il cui temperamento conferisce un raro vigore ai due duetti d’amore con Lionel. Eppure Čajkovskij non dimentica neppure di dare una precisa connotazione storico-drammaturgica alla musica: ad esempio, allorché i menestrelli che allietano il re cantano sul motivo popolare francese “Mes belles amourettes”, oppure nel preludio al terzo atto, concepito in uno stile marziale che vuole simulare la battaglia in corso nei pressi di Reims». (Susanna Franchi)

In questa produzione della Deutsche Opera am Rhein nella scenografia di Annika Haller, si rinuncia ai luoghi della vicenda previsti da Čajkovskij: l’intera azione si svolge  in uno spazio unico, l’interno di una chiesa con un altare elevato e sovrastato da un grande rosone sul fondo e una cantoria a sinistra. Prima luogo di preghiera, poi rifugio, infine spazio devastato dal conflitto. I costumi di Su Sigmund suggeriscono la contemporaneità con molte divise militari mentre Giovanna veste jeans neri e un maglione oversize che suggerisce una cotta di maglia, lo spadone sempre al fianco. Un angelo a lei somigliante la accompagna nel corso della sua vita fino alla morte, non sul rogo ma come una delle tante vittime civili nella chiesa assediata dalle fiamme. Tutti i maschi sono stati precedentemente costretti ad arruolarsi e sono rimasti solo i bambini e le donne. Anche Giovanna, non più la guerriera di Dio, da quando è stata accusata di essere mossa dal demonio. Con la drammaturgia di Anna Melcher la regista Elisabeth Stöppler non racconta semplicemente la vicenda storica: Giovanna non è un’eroina, ma una donna vulnerabile, sporca di sangue, dubbiosa tra missione celeste e terrena umanità, lacerata tra due fronti mentre tutti gli altri si servono della religione per raggiungere i loro scopi.

Il direttore principale Vitali Alekseenok alla guida dell’Orchestra Sinfonica di Düsseldorf ricrea la ricca partitura che dipinge quadri sonori a più livelli come succede nell’estesa ouverture  dove il paesaggio pastorale e il cinguettio degli uccelli lasciano rapidamente il posto al rombo di guerra. Alekseenok dirige con slancio una grande orchestra – un organo e una banda con trombe, quattro tromboni, due clarinetti e un ottavino che fa la sua apparizione nelle cerimonie di incoronazione – e lascia molto spazio agli strumentisti solisti, in particolare ai timbri e ai colori dei fiati, soprattutto flauto e clarinetto. I tempi  incalzanti si distendono in oasi liriche di grande seduzione grazie anche alla qualità delle  voci in scena. Nel cast spicca il mezzosoprano Maria Kataeva che incarna intensamente la parte di Giovanna nello sviluppo del personaggio da semplice contadina a carismatico capo dell’esercito a martire con la sua voce di grande proiezione e ben timbrata. La grande estensione vocale richiesta e il fatto di stare in scena quasi continuamente dimostrano la resistenza e capacità della cantante. Le scene d’amore con il bel baritono Richard Šveda (Lionel) sono tragicamente emozionanti nella loro dimostrazione dell’impossibilità di amare in tempo di guerra. Il principe ereditario Carlo VII è ritratto dal tenore Sergej Khomov con molta efficacia quale debole Delfino che vuole abbandonare il suo Paese per fuggire con la sua amante. Dunois; il capo dell’esercito, trova nell’azerbaigiano Evez Abdulla un basso autorevole mentre chiara e luminosa è la voce di Aleksandr Nesterenko, Raimond. Sami Luttinen (Thibaut), Thorsten Grümbel (il cardinale) sono tra gli altri numerosi comprimari. Accanto ai solisti il coro è un altro importante protagonista e assieme agli artefici dello spettacolo contribuisce al positivo esito dello spettacolo.

I due Foscari

foto © Andrea Crovera

Giuseppe Verdi, I due Foscari

Venezia, Teatro La Fenice, 8 ottobre 2023

★★★☆☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Com’è triste Venezia…

Opera venezianissima: siamo nel XV secolo e i Foscari del titolo sono il Doge Francesco e il figlio Jacopo, vittime del rancore tra famiglie nemiche e della brama di vendetta di Jacopo Loredano, membro del temibile Consiglio dei Dieci. Jacopo Foscari, ingiustamente accusato per un delitto che non ha commesso, ritorna illegalmente dall’esilio a cui era stato condannato sperando nella clemenza del Consiglio e nell’intercessione del padre Doge, ma Francesco, pur combattuto, è rispettoso della legge e il figlio è nuovamente condannato all’esilio morendo di crepacuore sulla nave che lo deve portare a Creta. Ma l’accanimento contro i Foscari non ha fine: Francesco viene costretto a dimettersi e la notizia che una confessione ha scagionato il figlio, ahimè troppo tardi, e il rintocco delle campane che festeggiano il nuovo Doge Malipiero, sono fatali per il vecchio che muore anche lui «d’angoscia». Un soggetto perfetto per La Fenice, «pieno di passione e musicabilissimo», come scrive Verdi, ma il teatro rifiuta ritenendo inopportuno riportare a galla l’antico rancore tra famiglie ancora attive allora in città e il compositore si rivolge altrove: I due Foscari vedrà la luce a Roma, al Teatro Argentina il 3 novembre 1844.

Francesco Foscari è il primo di una serie di vecchi oppressi dal potere – verranno poi Simon Boccanegra, Don Carlo, a suo modo anche Macbeth – e l’opera è un punto di svolta della drammaturgia verdiana: I due Foscari è il primo lavoro nel quale «vicende politiche siano in sostanza il motore stesso dell’azione», come scrive Massimo Mila, anche se Verdi qui sembra volersi staccare dal genere di Nabucco e Lombardi, opere prevalentemente di grandi quadri e vicende collettive, per rivolgersi invece a un dramma imperniato su personaggi-individui e azioni private travolte dalla politica. Per la prima volta qui si incarnano «la ragion di stato, le contraddizioni del potere, la solitudine che da esso deriva, la scissione tra persona privata e personaggio pubblico», come ricorda giustamente il Maestro Stefano Rolli nell’intervista inserita nel programma di sala.

La musica dei Foscari è scura al pari della tragedia di Lord Byron, The Two Foscari: An Historical Tragedy da cui è tratto il libretto di Francesco Maria Piave, lo stesso librettista del precedente Ernani. Nel 1821 a Ravenna Byron aveva scritto anche Marino Faliero, Doge of Venice, anch’essa ambientata nella città lagunare che il poeta conosceva bene per averci vissuto molti anni. I cinque atti della tragedia di Byron non sembrano offrire una particolare drammaturgia essendo l’azione statica, congelata nel lamento di tre personaggi – è presente con i suoi figli anche Lucrezia, la moglie di Jacopo – ma fin dalle prime note dell’ouverture Verdi riesce a definire con efficacia teatrale la plumbea atmosfera che dominerà nel dramma, con gli strumenti spesso nel registro grave e un uso dei timpani prima sommesso poi quasi ossessivo. L’atto secondo inizia con la tetraggine del carcere, in cui langue Jacopo, dipinta da un duo viola-violoncello di grande cupezza. Neanche la musica con cui si apre il terzo atto, il coro e barcarola del popolo e delle maschere «che si incontrano, riconoscono, passeggiano. Tutto è gioia» come dicono le didascalie del libretto, nella sua brevità riesce a cancellare la cupezza dell’atmosfera che volge presto in tragedia con la morte dei due personaggi eponimi. Ma a rendere teatrale e «musicabilissimo» I due Foscari sono le arie e il guizzo delle cabalette, cosa che ha ben compreso Sebastiano Rolli, specialista del repertorio verdiano, che a capo dell’orchestra del teatro dà una lettura trascinante della partitura realizzando alla perfezione questo primo Verdi degli “anni di galera”, un compositore costretto a un lavoro forsennato e massacrante sotto i condizionamenti dell’ambiente teatrale. Bilanciando il suono orchestrale Rolli riesce ad accompagnare le voci nello slancio delle cabalette e nei concitati ensemble dei finali infuocati con tempi esatti e colori ora sommessi ora sfavillanti. Una prova magnifica di senso del teatro.

Nel cast vocale svetta la maiuscola performance di Luca Salsi, un Francesco Foscari delineato a tutto tondo con grande proiezione vocale, ricchezza di sfumature e intenzioni, una scavo sulla parola senza pari. Due sono i momenti solistici più grandiosi di questo personaggio magnificamente tratteggiato da Verdi: nel primo atto «Eccomi solo alfine… […] O vecchio cor, che batti | come a’ prim’anni in seno» quando esprime il tormento della sua impotenza di fronte alla legge; nel terzo atto l’amaro sfogo di «Questa dunque è l’iniqua mercede, | che serbaste al canuto guerriero?» rivolto al Consiglio dei Dieci che gli impone la rinunzia. In entrambi il baritono parmense sa trarre accenti da brivido che lo mettono alla pari con i più celebrati interpreti del passato. Nei panni di Jacopo Foscari Francesco Meli non parte benissimo: le note tenute sono eccessivamente vibrate, gli acuti sforzati, ma poi nel corso della serata l’esecuzione migliora e il tenore genovese riesce a fornire una solida e convincente performance. La parte di Lucrezia Contarini è tra le più impervie tra quelle delle opere di questo periodo, al pari di Abigaille, ma Anastasia Bartoli la affronta con grande sicurezza con quella voce imperiosa come una lama d’acciaio che nel tempo si spera diventi però meno tagliente. Difficile non rendere odiosa la parte di Jacopo Loredano, ma Riccardo Fassi non eccede in truculenza, anzi ne dà una lettura sobria e pure elegante. Qui ci vorrebbe l’aiuto di un regista per definire il personaggio, ma la regia è totalmente latitante. L’ultima volta che I due Foscari è stato dato a Venezia fu nel 1977 con la regia di Sylvano Bussotti: tanto valeva riprendere quella produzione vista a Torino qualche anno dopo e che mi ricordo fosse a suo modo efficace. Grischa Asagaroff si limita a far entrare e uscire i personaggi e il coro senza un vero senso drammaturgico e gli interpreti affidano alle loro capacità attoriali la teatralità dei loro gesti, per lo più convenzionali. Non va meglio per la scenografia di Luigi Perego che ricrea una Venezia falsa e bruttoccia, con le nuvolette e il mare dipinti sulle quinte e con al centro un parallelepipedo, ispirato alla tomba dei Foscari nella chiesa dei Frari, fatto ruotare da quattro figuri in mantelli neri lucidi per creare i vari ambienti. Lo stesso Perego disegna i costumi tutti uguali con con un guizzo di surreale follia al terzo atto, quello delle maschere, quando tutti si presentano con un copricapo a forma di ferro delle gondole… Neanche alle Folies Bergères o a Las Vegas hanno mai osato tanto kitsch! Ah, anche qui c’era un balletto. Da dimenticare.

Deluso dalla Venezia dipinta, il pubblico si è infiammato però per la parte musicale con calorosi applausi agli interpreti vocali e al direttore. Uno spettacolo da ascoltare senza guardare.

 

Un mari à la porte

foto © Andrea Macchia

Jacques Offenbach, Un mari à la porte

Torino, Teatro Regio, 6 ottobre 2023

Grande o piccola, l’opera è francese a Torino

Soffia un vento transalpino sul teatro lirico torinese: anche il secondo titolo della sua stagione arriva dalla Francia, ma dopo il grand-opéra de La Juive, nella sala più raccolta del Piccolo Regio Puccini va in scena un’operetta di Jacques Offenbach, Un mari à la porte. Creata il 22 giugno 1859 ai Bouffes-Parisiens su libretto di Alfred Delacour e Léon Morand, dopo il successo strepitoso di Orphée aux enfers con questo lavoro Offenbach torna al genere sans façon delle sue prime opere – Les deux aveugles, Le violoneux, Ba-ta-clan, Croquefer… – lavori brevi di argomento leggero e con pochi personaggi: nei piccoli teatri parigini si potevano rappresentare pièce con al massimo tre personaggi. Le norme erano nel frattempo cambiate ma con Un mari à la porte Offenbach sembra volersi burlare di quelle vecchie leggi poiché i personaggi sono sì quattro, ma solo tre sono in scena: il quarto rimane dietro la porta e appare solo nel finale. La situazione ricalca quella delle pochade di Eugène Labiche che in quegli stessi anni presentava sulla scena buffe vicende di coppia: Un mari qui prend du ventre (1854), Les cheveux de ma femme (1856), Le clou aux maris (1858)… È una satira della morale della società del tempo, perbenista fino all’ipocrisia, e soprattutto del matrimonio, massimo esempio di convenzione borghese.

Qui la situazione ha quasi del surreale: inizia con un uomo, Florestan Ducroquet, che salta fuori dal camino per ritrovarsi in un boudoir elegantemente arredato («Oú diable suis-je? Ahhhh! Parfum de boudoir… Je suis chez une femme… une jolie femme peut-être…»). Musicista spiantato e libertino il venticinquenne bellimbusto è in fuga da un marito geloso e dai creditori, in particolare da un ufficiale giudiziario che si rivelerà il padrone di casa. L’uomo si nasconde all’arrivo di due donne, Suzanne, novella sposa, e l’amica Rosita. In lite col marito Henri per futili motivi, Suzanne vuole lasciarlo fuori della porta per punizione, ma si vede costretta a farlo soprattutto per salvare l’onore, per non essere scoperta in camera con uno sconosciuto appena uscito dall’armadio. L’atteggiamento inizialmente incredulo e divertito del marito che non crede alla presenza di un uomo nella sua camera si trasforma poi in vera gelosia e come il Conte de Le nozze di Figaro lo sposo minaccia di buttare giù la porta con mezzi pesanti. Ma una corda, che appare come deus ex machina e che permette a Florestan di porsi in salvo, e una chiave recuperata in giardino portano allo scioglimento dell’impiccio con sollievo di tutti quanti.

La partitura di Un mari à la porte è andata perduta: si ha soltanto lo spartito per canto e pianoforte sul quale viene ogni volta costruita l’orchestrazione, qui affidata ad Alessandro Palumbo. Riccardo Bisatti dirige l’orchestra del Teatro Regio ridotta a una smilza compagine di 19 strumentisti – flauto, oboe, clarinetto, fagotto, due corni, percussioni e archi. Le dimensioni raccolte della sala e dell’orchestra sono ideali per ricreare l’atmosfera che si respirava ai Bouffes-Parisiens, ma la buona volontà e la dedizione del giovane maestro concertatore non fanno il miracolo e l’esecuzione è corretta e gustosa ma manca quel quid che rende unici per la loro strampalata comicità (i francesi la chiamerebbero cocasserie) le partiture del compositore franco-tedesco. L’orchestrazione non si fa notare per particolare brillantezza e gli interventi degli strumenti a fiato non risultano molto incisivi, più convincenti gli archi nei trascinanti ritmi di danza. Valzer e mazurke vengono infatti a interrompere i dialoghi recitati.

Il ridotto cast è costituito da alcuni dei giovani interpreti del Regio Ensemble come il mezzosoprano Xenia Chubunova, una moglie rassegnata con ancora l’abito da sposa. Il timbro è caldo ma la dizione poco chiara e non sempre è a suo agio nelle parti recitate. Il tenore Paweł Żak, un Florestan scenicamente vivace ma affetto da una pronuncia inaccettabile del francese, ha a disposizione uno dei sei momenti musicali dell’opera, quella “lamentation de Florestan” in cui Offenbach prende in giro il grand-opéra con la sua esagerata drammaticità. Il baritono Matteo Mollica, il marito fuori della porta, ha un ruolo piuttosto ridotto che non mette in risalto le qualità dell’interprete: si limita a poche frasi e solo nel finale si unisce a tutti gli altri per riprendere il refrain «Tu l’as voulu, Georges Dandin», riferimento al personaggio della comédie-balet di Molière e Lully, dove un ricco contadino in cambio della sua fortuna acquisisce un titolo nobiliare, un rango e una moglie che però si rivela ribelle.

Resta il personaggio di Rosita a cui Offenbach ha conferito la parte più brillante e il solo numero musicale solistico dell’operetta, ma il soprano Amélie Hois, l’unica di madrelingua e ascoltata con piacere come Papagena e in Powder her Face, pur indisposta accetta generosamente di cantare lo stesso ma ne risente la brillantezza dei suoi interventi e purtroppo vengono a mancare le acrobazie vocali della sua “valse tyrolienne”, risolte all’ottava inferiore.

La regia dello spettacolo è affidata ad Anna Maria Bruzzese, la coreografa de Il paese dei campanelli visto a Martina Franca e a Novara, la quale riesce a gestire con efficacia l’andirivieni dei personaggi sul minuscolo palcoscenico ma senza particolari guizzi di lettura. Neppure l’impianto strettamente realistico della scenografa Claudia Boasso tenta qualcosa di nuovo con il suo boudoir meticolosamente riprodotto secondo il gusto di metà Ottocento, dove una tavola è già approntata per una romantica cenetta tête-à-tête ma l’impressione è quella claustrofobica di una gabbia dorata in cui richiudere la condizione femminile del tempo. Coerenti sono gli elaborati costumi di Laura Viglione, colonna portante della sartoria del Teatro Regio mentre Andrea Rizzitelli si occupa del gioco luci i cui cambiamenti di colori sottolineano i momenti clou della vicenda, come quando l’ambiente si tinge di verde allorché i tre gaudenti sentono l’effetto inebriante dell’assenzio che hanno appena tracannato.

Si è trattato dunque della lodevole proposta di un titolo poco frequentato – l’ultima delle scarse rappresentazioni in Italia è stata quella fiorentina del 2019, bicentenario della nascita di Offenbach – e dopo l’opulenza de La Juive inaugurale era giusto puntare su un modello di teatro in musica totalmente differente. Che però ha dimostrato come sia arduo ricreare lo spirito di un genere che è molto difficile rappresentare al di fuori della Francia per il problema della lingua nelle parti recitate. Il pubblico ha comunque gradito ed apprezzato lo sforzo dei giovani artisti rispondendo con generosi applausi.

Carmen

Georges Bizet, Carmen

Rouen, Théâtre des Arts, 30 settembre 2023

(diretta streaming)

Una sera al museo

Il 3 marzo 1875, al Théâtre National de l’Opéra-Comique, il pubblico parigino veniva sconvolto da un’opera che poi sarebbe diventata il titolo francese più eseguito nel mondo, ma intanto che scandalo aveva provocato Carmen, con quella musica dai colori abbaglianti, quella storia cruda, quei caratteri sanguigni, e soprattutto quella donna…

Centocinquant’anni dopo come far rivivere al pubblico di oggi l’emozione di quella sera? Utilizzando un’estetica più vicina ai nostri tempi, come ha fatto egregiamente Calixto Bieito oltre dieci anni fa con la sua fortunata produzione che continua a essere presentata sui palcoscenici dei maggiori teatri. Certo non proponendo con la maggior fedeltà possibile lo spettacolo del 1875, come ha fatto la coproduzione Palazzetto Bru Zane France–Centre de musique romantique française, l’Opéra di Rouen Normandie e l’Opéra Royal–Château de Versailles Spectacles, quasi a voler replicare alla recente polemica che oppone i difensori del Regietheater ai partigiani della tradizione assoluta, quelli cioè che deplorano il fatto che il pubblico popolare stia perdendo interesse per la lirica e rimpiangono l’epoca d’oro in cui le opere del repertorio erano rappresentate in ambienti figurativi che rispettavano il tempo e il luogo delle trame, per quanto assurde. Per queste persone, l’opera è puro intrattenimento, che racconta belle storie in bei costumi. Il dibattito che sta attraversando il mondo dei melomani ha probabilmente molto da imparare dalla Carmen di Rouen. Questo spettacolo non li mette certo d’accordo ma serve soprattutto a confrontare per liberare dalla polvere le messe in scene tradizionali che ancora – giustamente – si vedono in giro.

Affidata al giovane regista Romain Gilbert, questa Carmen è innanzitutto un’impresa, senza precedenti a questo livello,  di “archeologia operistica” con cui si è voluto ricostruire, nel modo più rigoroso possibile, quello che vide il pubblico parigino presente all’Opéra-Comique la sera della prima del capolavoro di Georges Bizet. Il corpus documentale pazientemente assemblato in due anni da Alexandre Dratwicki e dai musicologi del Palazzetto Bru Zane è stato fornito dai taccuini degli allestimenti, i livret de mise en scène,  conservati nella biblioteca dell’Opéra national de Paris. Sono stati analizzati brandelli di stoffa dei costumi originali e studiate le incisioni e le foto delle rappresentazioni  della sua prima trionfale tournée mondiale. M uno degli scopi di questa produzione è stato quello di valorizzare gli antichi mestieri ora minacciati di estinzione dai moderni allestimenti, quelli di modiste, parrucchieri e pittori di scene a tempera, che qui hanno potuto veder onorata le loro abilità. Costumisti e disegnatori di oggetti di scena sono riusciti a illustrare ogni parola del libretto: nel secondo atto lo shako, la sciabola e la giberna elencati da Meilhac e Halévy sono effettivamente presenti in scena; le carte con cui le zingare prevedono il futuro sono autentiche come autentiche sono le navajas usate nel duello del terzo atto, veri coltelli spagnoli con il manico inciso e prima della corrida i venditori ambulanti hanno realmente nei loro cesti di vimini i ventagli «pour s’éventer», le arance «pour grignoter», il programma «avec les détails», vino, acqua, sigarette. Partendo dalle incisioni ottocentesche Christian Lacroix ha poi disegnato i costumi con una cura meticolosa per l’autenticità di fogge, dettagli, tessuti e colori – e le giacche gialle dei soldati finalmente giustificano l’epiteto ingiurioso di “canarino” che una furiosa Carmen lancia a Don José: «Tu es un vrai canari, d’habitat e de caractère»! 

E poi ci sono le scenografie meticolosamente ricreate da Antoine Fontaine con un occhio all’autenticità storica: realizzate nei laboratori dell’Opéra di Rouen da scenografi che proseguono la tradizione della tempera all’italiana, le immense tele dipinte e gli scorci architettonici dei quattro atti suscitano l’ammirazione nel pubblico a ogni apertura di sipario. Molto meno per lo spettatore della ripresa televisiva, con l’obiettivo che oltre ai primi piani dei protagonisti svela l’effetto sfocato delle pitture, efficaci solo se viste da lontano, dal pubblico in sala. Hervé Gary col suo disegno di luci calde e soffuse ricrea l’effetto dell’illuminazione a gas originale.

A questo punto ci si chiede quali margini di libertà siano rimasti al regista di uno spettacolo così strettamente codificato. In un’intervista, il metteur en scène Romain Gilbert ha affermato che i taccuini portati alla luce dagli archivi dell’Opéra di Parigi, che contengono anche le indicazioni dei movimenti e delle posizioni in scena del coro e dei cantanti, costituiscano solo il 40% del suo lavoro. Nel 60% disponibile Gilbert replica gli atteggiamenti stereotipati dei tableaux d’insieme, con il coro posizionato convenzionalmente ad arco dietro i solisti che cantano rivolti verso il pubblico. Il cambio della guardia, la lotta delle sigaraie e la sfilata della quadriglia – finalmente si capisce che cosa sono gli alguazil, i chulos, i chubs, i banderilleros e i picadors! – sono comunque tutti coreografati con precisione. Qui viene ripristinata anche la pantomima del vecchio marito geloso all’inizio del primo atto, che oltre a rimpinguare la parte cantata da Morales, ci fa riscoprire uno stile recitativo certamente superato, ma che era molto in voga e apprezzato dal pubblico del XIX secolo. Il regista ci mette del suo nei tocchi psicologici dei personaggi, soprattutto di quel mammone di Don José che oscilla patologicamente tra brutalità e tenerezza e i cui tormenti edipici sono delicatamente suggeriti in due momenti: nel primo atto, quando José chiede di sua madre a Micaëla e si siede ai piedi della fidanzata appoggiando la testa sul suo grembo, nell’atteggiamento di un bambino che cerca il conforto della mamma. Nell’atto successivo, alla fine di «La fleur que tu m’avais jetée», José si inginocchia nuovamente ai piedi di Carmen, appoggiando la testa sul suo grembo e invitandola ad accarezzargli i capelli con la mano. Qualunque sia la donna che ama, José cerca una figura materna, fino a diventare violento, come un bambino a cui viene negato un capriccio.  La sua psiche fragile si evidenzia di nuovo alle porte dell’arena: abbandonato da Carmen, José prima volge il coltello su sé stesso in un ricatto che non smuove la zingara, poi la uccide mentre lei gli volta le spalle, non osando  più affrontarne lo sguardo.

Il teatro di Rouen è riuscito a riunire sul suo palcoscenico un cast di giovani cantanti quasi tutti al debutto nelle rispettive parti, una scelta saggia, perché gli artisti dovevano essere liberi da qualsiasi idea preconcetta o tic recitativo che avrebbe potuto interferire con il tentativo di autenticità dello spettacolo. Così è infatti per Deepa Johnny, mezzosoprano omanita-canadese, Carmen dal timbro di colore magnifico, sensuale, dal bel fraseggio e dalla magnetica presenza scenica. Si fatica a credere che la sua sia una prise de rôle tale è la sicurezza, la bellezza della dizione, la facilità nel gestire le esigenze vocali. Stanislas de Barbeyrac, che dopo la prima ha sostituito Thomas Atkins, è un Don José che nasconde sotto un fare manesco la sua fragilità.  Mozartiano nell’anima, il tenore francese porta nella sua performance eleganza e  sobrietà rispettando fedelmente l’agogica prevista dalla partitura. Il soprano rumeno Iulia Maria Dan ha già cantato Micaëla e ne conserva qui il candore e la purezza della linea di canto. Una vera delusione è invece Nicolas Courjal, basso grandemente ammirato in tutte le sue prestazioni precedenti, qui come Escamillo mostra la corda di una voce tesa in modo innaturale, i suoni sono eccessivamente vibrati e malgrado la perfetta dizione la dimensione smargiassa del personaggio non esce fuori. Davvero un peccato. Di ottimo livello l’aitante Morales di Yoann Dubruque, la Frasquita di Faustine de Monès, la  Mercédès di Floriane Hasler, lo Zuniga di Nicolas Brooymans e il duo particolarmente buffo del Remendado (Thomas Morris) e del Dancaïre (Florent Karrer). Bene anche i cori, Accentus e del teatro, diretti da Christophe Grapperon e le voci bianche istruite da Pascal Hellot.

Ben Glassberg, direttore stabile dell’Opéra de Rouen, fornisce una lettura ritmicamente esaltante della partitura nella versione Choudens con i recitativi cantati di Giraud. Non era il caso invece di mantenere quelli parlati dell’originale in questo allestimento storico?

Il trovatore

foto © Roberto Ricci

Giuseppe Verdi, Il trovatore

Parma, Teatro Regio, 24 settembre 2023

★★★☆☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Un Trovatore di luci e ombre al Festival Verdi di Parma

Dopo l’interruzione degli anni ’90, il Festival Verdi è stato reintrodotto nel 2001 in occasione delle celebrazioni del centenario della morte del compositore e da allora ha proposto cinque diverse produzioni de Il trovatore, l’ultima nel 2018 con la versione francese (Le trouvère) diretta da Roberto Abbado e con la regia di Bob Wilson. Mettere in scena quest’opera a Parma è una bella sfida: qui ognuno si sente il depositario dell’eredità di Verdi e poche produzioni sono uscite indenni dalle intemperanze del temuto loggione

Complice un budget ridotto che ha tarpato le ali al metteur en scène e le sostituzioni rispetto al cast inizialmente previsto, il dramma spagnolo di García Gutiérrez – «bellissimo, immaginoso e con situazioni potenti», scriveva il musicista a Cammarano, il librettista e seconda proposta del Festival Verdi 2023 – non ha convinto il pubblico, che ha sì applaudito ma non con l’entusiasmo con cui quest’opera così esaltante viene generalmente accolta, e ha suscitato anche qualche contestazione.

Nei consueti spazi del Teatro Regio, Francesco Ivan Ciampa dirige con passione ma attenzione verso i cantanti una delle partiture più trascinanti del teatro dell’Ottocento, un’opera fatta quasi tutta di numeri chiusi, la maggior parte forniti di cabaletta, un ritorno alla tradizione dopo l'”esperimento” del Rigoletto. Il trovatore è un’opera scura, notturna: «Allor mezzanotte appunto suonava», racconta Ferrando nella prima scena de “Il duello”, la prima delle quattro parti in cui è suddivisa l’opera; «Tacea la notte placida», canta Leonora nella seconda; «Tace la notte! Immersa | nel sonno, è certo la regal signora» dice il Conte di Luna nella terza; è notte quando il Conte e i suoi seguaci si apprestano a rapire la fanciulla nella scena terza de “La gitana”; è notte oscura all’inizio de “Il supplizio” nella torre del palazzo di Aliaferia (scena prima) e poi nell’«orrido carcere» (scena terza).

Bandita quella del sole, l’unica luce è il fuoco della tremolante lanterna di Leonora, della «perigliosa fiamma» paventata da Ines, della «terribil vampa» di Azucena, della pira evocata da Manrico, del rogo minacciato dal Conte («Come albeggi | la scure al figlio, ed alla madre il rogo!») passando per le braci raccontate da Ferrando. E la musica di Verdi è tutto un baluginare di lampi nell’oscurità che il Maestro Ciampa realizza con vivezza e con tempi che però talora possono mettere in difficoltà qualche strumentista dell’Orchestra del Comunale di Bologna. La sua lettura è trascinante, impetuosa, piena di contrasti, molto teatrale. Ciampa utilizza l’edizione critica di David Lawton che ripulisce la partitura di certe libertà “di tradizione” restituendone una versione più prossima all’originale.

S’è detto delle sostituzioni di ben tre cantanti (gli interpreti di Eleonora, del Conte di Luna e di Ferrando), cosa che non ha ben predisposto parte del pubblico che è sembrato prevenuto e pronto alla contestazione. Franco Vassallo, che ha sostituito l’inizialmente previsto Markus Werba, è ritornato nelle vesti del Conte dopo la versione francese vista qui al Teatro Farnese e ha confermato la grande proiezione vocale e l’intensità di espressione, a scapito talora dell’eleganza e nobiltà del personaggio, là con Bob Wilson più opportunamente stilizzato, qui leggermente sopra le righe. Però «Il balen del suo sorriso», vigorosamente intonato e con ben realizzati colori, è stato salutato da grandi applausi a scena aperta. Al posto di Eleonora Buratto, Francesca Dotto ha delineato una Leonora certamente corretta ma dalla voce un po’ sottile e poco timbrata. I momenti migliori sono risultati quelli più lirici dove legati e mezze voci hanno convinto comunque il pubblico, specialmente nell’aria «Tu vedrai che amore in terra» con cabaletta ripetuta, quando il regista isola l’azione e ne sottolinea l’aspetto melodrammatico accendendo le luci in platea e facendo scendere uno specchio incorniciato da un sipario drappeggiato, un effetto volutamente teatrale ma né originale né molto necessario. Terza sostituzione, stavolta di lusso, è quella di Ferrando: Marco Spotti, ammalatosi durante le prove, qui trova in Roberto Tagliavini un ammirevole sostituto che rende avvincente il lungo racconto iniziale.

Il trittico popolare di Verdi è centrato su tre figure di emarginati della società: la prostituta Violetta, il gobbo Rigoletto e l’«abietta zingara» Azucena, la quale nelle prime intenzioni dell’autore doveva dare il titolo all’opera. Si capisce quindi l’importanza della parte che alla prima romana del 1853 fu affidata a Emilia Goggi-Marcovaldi, grande cantante belliniana scomparsa precocemente all’età di 39 anni nel 1857. «Dopo quella della Malibran […] la più bella voce che ci sia occorso sentire» scriveva la Rivista musicale il 1 luglio 1840. Qui veste i panni della «fosca vegliarda» Clémentine Margaine, l’Amneris dell’Aida di Michieletto di Monaco, che è risultata l’interprete più apprezzata per la sua emissione sicura, il timbro particolare, il grande temperamento e l’equilibrio tra belcanto ed espressione drammatica. E infine Manrico, per interpretare il quale è stato chiamato il giovane Riccardo Massi, dotato di statura imponente e voce importante, ma l’interpretazione non convince, il tono è o stentoreo o lamentevole, l’articolazione della parola non incisiva, il fraseggio un po’ piatto e non bastano i do di «Di quella pira» a salvare una performance che non ha suscitato maggiori contestazioni solo perché queste si sono concentrate sul regista.

Davide Livermore è risultato troppo trasgressivo per una parte del pubblico, troppo tradizionale per l’altra! Sì, questo può succedere per una personalità come quella del regista torinese che ormai ha definito un suo stile che talvolta diventa stilema, come in questa produzione che non sembra comunque delle sue migliori. Abituato alle prime della Scala, il budget più contenuto del festival parmense ha un po’ compromesso la sua ispirazione, qui più sobria ma meno convincente del solito. Ambientato nell’ormai solito universo distopico di un paesaggio urbano devastato dalla guerra civile, i due mondi del Conte e Leonora e quello degli emarginati Manrico e Azucena sono nettamente distinti: grattacieli luccicanti formano quello dei nobili, un ambiente circense inquietante come il film Freaks quello degli zingari. La costumista Anna Verde disegna completi scuri e divise militari per il primo, sgargianti ma stracciati i costumi per i giocolieri e clown del secondo – tra i quali un mangiafuoco che aggiunge la sua dose di fiamme a quelle già previste dal libretto. Sul led wall del fondo si vedono le immagini digitalizzate della D-Wok: una gigantesca Luna, l’interno del tendone che prima si vedeva in lontananza nella periferia, un cavalcavia, un ponte in fiamme, l’interno di un ospedale allestito in una fabbrica abbandonata, l’esterno di un edificio carcerario, l’interno del carcere medesimo. E poi il cielo sempre minaccioso, con nubi nere come il fumo, pioggia di lapilli o cenere postnucleare, fiamme e magma incandescente. Nella scenografia di Giò Forma l’unico elemento reale è un imponente traliccio il cui utilizzo si rivela poco necessario ma il cui spostamento tra una scena e l’altra costringe a lunghi minuti di attesa a sipario abbassato che diluiscono la tensione e che aumentano di quasi mezz’ora la lunghezza dello spettacolo.

In definitiva si tratta di una lettura piuttosto tradizionale nella drammaturgia e nella gestione dei personaggi, che non guadagnano maggiore spessore psicologico nella attualizzazione, ma urta il pubblico per gli elementi contemporanei dei fucili, delle pistole, dei telefonini e delle sigarette, non tanto perché incongrui con l’ambientazione originale, ma perché diventati dei cliché di cui si può fare onestamente a meno.

La Juive

foto © Andrea Macchia – Teatro Regio Torino

Fromental Halévy, La Juive

Torino, Teatro Regio, 21 settembre 2023

★★★

Apertura di stagione con il grand opéra a Torino

Con tredici titoli, di cui ben sette pucciniani, la stagione del Regio, intitolata “Amour toujours”, inizia con un’opera in cui di amore ce n’è ben poco, solo odio e desiderio di vendetta. Lavoro molto popolare nel passato – è con La Juive (L’ebrea) che Enrico Caruso terminò la sua carriera al Metropolitan di New York nel 1920, otto mesi prima di morire, e fu proprio l’aria dal IV atto «Rachel quand du Seigneur» la sua ultima registrazione discografica – da qualche anno La Juive sta risalendo la china dall’oblio in cui era scivolata ed è tornata in auge grazie a diverse pregevoli produzioni come quella che aveva inaugurato l’anno scorso la stagione del Grand Théâtre di Ginevra o quella del 2019 diretta da Antonino Fogliani e allestita da Peter Konwitschny ad Anversa.

Salvo errore, in Italia l’ultima volta La Juive è stata data nel 2005 alla Fenice. A Torino mancava dal 1885!

Daniel Oren ha dichiarato di essere un grande estimatore dell’opera, che ha già diretto due volte. Essendo israeliano poi si capisce come sia sensibile all’argomento del lavoro di Halévy che infatti affronta con solennità liturgica, soprattutto nella scena prima dell’atto secondo, quella della Pesach. Ma anche negli altri momenti Oren adotta tempi estremamente dilatati che, nonostante i numerosi tagli, hanno portato l’esecuzione a superare le quattro ore. La grandiosità e la tensione del lavoro si sono così persi in una lettura analitica che ha sfiorato la decostruzione della partitura e il grand opéra è diventato un rito di estenuata lentezza dove ogni battuta viene centellinata, ogni intervento solistico strumentale assaporato, i recitativi si perdono nella lunghezza, pause eterne sfilacciano il discorso musicale fino allo stremo e per i cantanti è come se dovessero cantare due volte visto che ogni nota viene allungata del doppio. Ma per fortuna che in scena ci sono interpreti come Gregory Kunde, debuttante nella parte, che opera il miracolo con uno strumento vocale che non conosce usura e viene piegato con estrema intelligenza per delineare quell’immenso e tragico personaggio che è Éléazar. L’atteso momento dell’aria «Rachel quand du Seigneur la grâce tutélaire» (che nella lettura di Oren supera i sette minuti contro i cinque-sei di molte esecuzioni) e della successiva cabaletta – cantata “avec exaltation” prescrive il libretto – «Dieu m’éclaire» sono risolte con un’eleganza, un’espressività e un controllo dei fiati e una facilità degli acuti stupefacenti e se si pensa che questo avviene a mezzanotte passata, dopo quattro ore estenuanti, si rimane senza parole per la resistenza e l’inossidabilità di una voce non più verdissima. Eppure, è proprio il confronto con l’altro tenore, il giovane rumeno Ioan Hotea già sentito come Léopold a Ginevra, a esaltare la qualità della performance del quasi settantenne cantante dell’Illinois che riprende la parte che fu scritta per Adolphe Nourrit, forse il più grande tenore dell’Ottocento. 

Per un’altra star di quel secolo, Marie-Cornélie Falcon, fu invece creata la parte di Rachel, qui affidata a Mariangela Sicilia giunta a un punto luminoso della sua fulgente carriera. Con sicurezza e grande sensibilità il soprano calabrese dà il meglio di sé oltre che nei tanti ensemble nel momento solistico della trepidante romanza «Il va venir» del secondo atto con bellissimi pianissimi e smorzandi.

Il secondo soprano, che alla Salle Le Peletier il 23 febbraio 1835 fu Julie-Aimée-Josèphe Dorus-Gras, qui è Martina Russomanno, cantante la cui biografia precisa che ha iniziato la carriera artistica come cantante pop a 11 anni e sarà per questo che esibisce una sicura presenza scenica e doti vocali che le permettono di eccellere nella virtuosistica parte della principessa Eudoxie. Assieme le due cantanti evidenziano al meglio le differenti personalità e i caratteri decisamente differenziati dei due ruoli: in Rachel il registro grave (che da allora viene definito proprio come “Falcon”), in Eudoxie la brillantezza del registro acuto e le agilità belcantistiche.

Due tenori, due soprani, due baritoni e un basso: la figura del cardinale Brogni è interpretata senza particolare rilevanza da Riccardo Zanellato le cui note gravi sono talora troppo piene d’aria e poco sonore, Gordon Bintner e Daniele Terenzi invece si suddividono le parti di Ruggiero, il gran prevosto della città di Costanza, e Albert, il sergente d’armi. Il coro del teatro è alle prese con la lingua francese, stavolta resa meglio del solito – grazie forse alla nazionalità del sovrintendente… – e con un ruolo decisivo in quest’opera, ora come insieme di fedeli, ora come folla festante, ora cortigiani, ora popolani. È lo stesso coro che, sotto la guida del Maestro Ulisse Trabacchin, neanche due settimane fa si era esibito swingando nel musical di Leonard Bernstein eseguito per MITO Settembre Musica. Ma è un peccato che qui con i tagli venga a mancare il coro iniziale del quinto atto dove si possono ascoltare gli ineffabili versi della versione italiana: «O che gioia, o che piacer, | gl’infedeli, i traditor | dalle fiamme arsi veder! […] Oh, davvero spettacol piacente | fra non molto da noi si vedrà! | A morire nell’acqua bollente | ogni ebreo condannato sarà»…

L’allestimento è affidato a quell’artista visivo che è Stefano Poda, personaggio tuttofare che non si deve confrontare con altri: un regista normalmente deve discutere con scenografo, costumista, coreografo, esperto luci e quant’altri fanno nascere uno spettacolo. Quelli di Poda sono invece parti in solitaria, che portano la firma riconoscibilissima del loro creatore unico, rivelano un’indubbia coerenza visiva, ma proprio in questo hanno la loro debolezza: si capisce che non sono il risultato di un confronto di idee, discussioni: sono installazioni, più o meno riuscite, che hanno alla base un’idea, anche geniale, perché no, che però non è passata attraverso l’elaborazione che comunemente subisce nella creazione di uno spettacolo teatrale che vive di interventi diversi. Da qui anche la ripetitività degli spettacoli di Poda, che ricrea il suo mondo in un linguaggio fatto di stilemi riproposti ogni volta. E può essere divertente scoprire gli scampoli delle sue produzioni del passato: la croce tagliata nel fondale (La forza del destino, Parma 2012), i gessi delle figure umane (Thaïs, Torino 2008; Eduardo e Cristina, Pesaro 2023), le sfilate al rallentatore con lunghe palandrane (Thaïs), i mimi/danzatori che formano un grappolo umano attorno ai personaggi (Aida, Verona 2023; Eduardo e Cristina) e così via. Questa volta Poda ci risparmia i baluginii e gli specchietti della sua Turandot (Torino 2018) e della Aida, essendo qui luccicanti solo il Grande Prevosto e la collana di Costantino.

L’idea di base della sua lettura è l’oppressione e intolleranza della chiesa, ma soprattutto la religione che ha potuto portare a tante scelleratezze: “Tantum religio potuit suadere malorum” è infatti la frase che campeggia sulla struttura predisposta da Stefano Poda. È il verso del primo libro del De rerum natura con cui Lucrezio conclude l’episodio di Ifigenia sacrificata dal padre Agamennone: “hostia concideret mactatu maesta parentis” (perché dolente vittima cadesse  d’un sacrificio paterno). Un evidente parallelo con la figura di Rachel sacrificata dal “padre” Éléazar. Poda guarda dunque al passato, al mito greco, piuttosto che al grand opéra, ma il suo allestimento ha comunque una evidente grandiosità nella scelta di utilizzare il palcoscenico del Regio in tutta la sua profondità e con tutti i suoi marchingegni tecnologici: ponti mobili che si spostano avanti e indietro, si alzano, spariscono in basso, piattaforme rotanti. Assieme alla iperattività dei suoi danzatori costituiscono gli unici elementi in movimento di una mise en espace che ha la staticità di una esecuzione oratoriale, con i cantanti schierati in proscenio rivolti al pubblico e il coro sullo sfondo. Lo horror vacui visivo di Poda si esprime in innumerevoli simboli e scene multiple dove alla cena pasquale degli ebrei corrisponde in alto il tableau vivant dell’Ultima Cena, o il lento procedere di una figura che rappresenta il Cristo, o dell’iterazione della salita al calvario e altre pantomime cristologiche. Inspiegabili sono invece alcune cadute di gusto come il principe Léopold che si nasconde sotto il tavolo all’arrivo della Principessa, o l’outfit della Principessa stessa che sembra pronta per una scena di bondage sex. I bozzetti originali facevano prevedere una scenografia più ricca di quella effettivamente realizzata, ma anche così la presenza di una struttura metallica a forma di astrolabio che scende dal soffitto e poi risale rimane inconcludente e misteriosa. Privo di tensione è il finale, il vero climax di questo grand opéra,  quando Rachel sale al patibolo ed Éléazar svela a Brogni la tremenda verità, ossia che quella appena sacrificata è sua figlia. Qui Mariangela Sicilia si avvicina verso il fondo del palcoscenico e poi si gira verso il pubblico: che sia il coup de théâtre definitivo ce lo dice solo la musica, non quello che vediamo.

Lo spettacolo finisce ben dopo la mezzanotte e questo in una città dove i trasporti pubblici, già poco efficienti di giorno, si diradano ancora di più la sera. Invece di iniziare alle 20 non si poteva iniziare prima? A Ginevra il Don Carlos di Verdi, altrettanto lungo, era alle 18 e a Venezia si entra alle 19 alla Fenice. Dopo l’intervallo ci sono infatti alcune defezioni, ma il pubblico rimasto tributa caldi applausi agli artefici dello spettacolo con vere e proprie ovazioni per i due interpreti principali. Chiari invece sono alcuni segni di dissenso nei confronti del regista.