Don Quichotte

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Jules Massenet, Don Quichotte 

Parigi, Opéra Bastille, 23 maggio 2024

★★★★★

(diretta streaming)

L’indicibile nostalgia del passato in uno spettacolo sconvolgente

Uscire dalla sala con le tasche piene di fazzoletti bagnati ed essere felici. E meno male che si trattava di una proiezione in un cinema buio, dove puoi nascondere la commozione e non doverti vergognare di piangere come un vitello. 

Nei cinema francesi si può vedere in diretta il Don Quichotte di Jules Massenet dall’Opéra Bastille di Parigi nella produzione di Damiano Michieletto con la direzione musicale di Patrick Fournillier. Un avvenimento che lascia il segno per la magia visiva messa in scena dal regista veneziano e dal suo magic team e dalla musica di un Jules Massenet che a 68 anni, ma a due dalla morte, firma la sua ultima grande opera. Sì, dopo verranno Roma, Panurge, Cléopatre e Amadis, queste ultime tre postume, ma il Don Quichotte è l’unica ancora nei cartelloni dei teatri. Opera molto particolare anche per Massenet, che nella sua carriera di compositore ha esplorato tutti i generi, ma questa è ancora diversa da tutte le altre, un raffinato exercise de styles, un equilibrio calibrato di stili diversi che includono anche il folclore spagnolo. E con una strumentazione ai limiti della rarefazione. Per raccontare che cosa? In Don Quichotte non accade quasi nulla, tutto è nella mente del «bon Chevalier de la longue figure» e quello che vediamo sono i suoi deliri, le sue farneticazioni. Su questo si gioca l’idea di Michieletto che cerca di rispondere a una semplice domanda: come si vive con un demente? Lo si compiace nelle sue fantasie, o si cerca di riportarlo alla realtà?

Nell’opera si parla molto di amore, di un amore talmente idealizzato – quello del protagonista per Dulcinea – da risultare irraggiungibile. L’unico amore vero, reale, tangibile è invece quello di Sancho per il suo amico/padrone. I due vivono insieme: uno è uno scrittore, un artista in crisi, perduto nella sua creazione e nella nostalgia di un amore sfortunato; l’altro è il compagno fedele che si prende cura di lui, gli prepara il pranzo, lo asseconda nei suoi deliri sperando di riportarlo ogni tanto alla realtà. Ma tutto è inutile: frutto dell’azione combinata di farmaci e alcol, le allucinazioni di Don Quichotte hanno il sopravvento, fino alla morte, un momento in cui diventano lancinanti i rimpianti della vita, come canta Dulcinea sul ritmo lamentoso di una danza lontana: «Lorsque le temps d’amour a fui, | que reste-t-il de nos bonheurs? | Et des étés, | lorsque la nuit dans ses voiles ensevelit | l’éclat des fleurs» (Quando il tempo degli amori è fuggito, cosa resta della nostra felicità? E delle estati, quando la notte col suo velo nasconde lo splendore dei fiori). E l’ultimo straziante abbraccio tra i due uomini è una di quelle scene davanti alle quali non si può non lasciare scorrere le lacrime.

Ma non è l’unico momento di uno spettacolo che rimarrà indelebile nella memoria. La figura di Dulcinea sul cavallo di una vecchia giostra è la sintesi di una drammaturgia poetica e surreale con cui Michieletto riesce a ricreare questa meditazione sulla nostalgia del passato. Un altro momento è l’inizio del quarto atto quando Don Quichotte ascolta rapito in cuffia la musica che noi stessi ascoltiamo, una musica sospesa ed evanescente, mentre sul fondo una coppia danza al rallentatore, come in un sogno. O ancora la scena dei mulini a vento, i giganti nella mente di Don Quichotte, qui figure nere senza volto che escono dalle pareti, da sotto il tappeto, dal divano. Mai a teatro una raffigurazione dei fantasmi che infestano una mente è stata così efficace.

Come può una scenografia ricreare questo mondo dove realtà, sogno e sogno della realtà si confondono? Il genio di Paolo Fantin riesce nell’impresa di rendere questi diversi piani: un ambiente domestico che si apre in una prospettiva di mise en abyme, come quando due specchi uno di fronte all’altro si rimandano all’infinito l’immagine intrappolata in mezzo. Il verde salvia delle pareti e dei mobili si stempera nei colori delle luci precise e magiche di Alessandro Carletti, i costumi anni ’50 di Agostino Cavalca danno il giusto tocco di nostalgia, le sobrie immagini video della rocafilm aggiungono l’elemento onirico e il risultato è uno degli spettacoli più riusciti degli ultimi anni.

Molte le sostituzioni nel cast ma, come nel caso dell’interprete del titolo – l’originariamente previsto Il’dar Abdrazakov non sembra più essere persona grata per il suo sostegno alla rielezione di Putin – non si riesce a immaginare un Don Chisciotte michielettesco (giovane e aitante) più vero di quello di Christian van Horn, basso-baritono americano tra i più raffinati e ammirato sia nel repertorio ottocentesco (magnifico Méphistophélès nel Faust di Kratzer a Parigi tre anni fa) sia in quello contemporaneo (il maggiordomo Julio in The Exterminating Angel, l’ultima opera di Thomas Adès). Una dizione talora non ineccepibile diventa un difetto del tutto trascurabile in una interpretazione così intensa e commovente come quella offerta sulle tavole dell’Opéra Bastille. Ineguagliabile anche il Sancho di Étienne Dupuis per carica umana, perfezione vocale e bellezza di timbro. Invece della prevista Marianne Crebassa a impersonare la sensualità e la giovinezza di Dulcinée è il mezzosoprano Gaëlle Arquez, cantante che con la sua raffinata linea di canto è a suo agio nelle agilità vocali come nei momenti più lirici. Di ottimo livello gli altri giovani comprimari: Emy Gazeilles (Pedro), Marine Chagnon (Garcias), Samy Camps (Rodriguez) e Nicholas Jones (Juan). Buona la prova fornita dal coro istruito da Ching-Lien Wu mentre alla direzione dell’orchestra del teatro Patrick Fournillier si rivela abile concertatore nelle pagine più vivaci come in quelle più liriche. Particolarmente apprezzabile il violoncellista solista nell’interludio al quinto atto, una pagina quasi allo stesso livello della “Méditation” della Thaïs di sedici anni prima.

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