Das Rheingold

Richard Wagner, Das Rheingold 

Zurigo, Opernhaus, 18 maggio 2024

★★★☆☆

(video streaming)

Un signore dell’anello molto domestico

Se il  recente Rheingold di Castellucci a Bruxelles era pieno zeppo di simboli, alcuni anche poco decifrabili, questo di Andreas Homoki a Zurigo solo apparentemente appartiene allo stesso mondo visivo, qui infatti la narrazione è del tutto lineare e le cose rappresentate sono didascalicamente quello che sono: l’oro del Reno è una pepita in una scatoletta portagioielli, l’anello è proprio un anello, il drago un mostro da cartoni animati che esce dall’armadio, il rospo un giocattolo di plastica. «Il Rheingold è stata una delle prime opere che ha ascoltato» confessa Homoki, che afferma «di non essersi soffermato sulle differenze di strati sociali, sulle teorie marxiste del capitalismo o sulle questioni femministe, che sono facilmente individuabili nell’opera; ho voluto semplicemente evidenziare le interazioni personali e l’azione, senza stravolgere la trama né dare nuove interpretazioni, ma cercare semplicemente di trasmettere il messaggio di fondo del lavoro wagneriano», che è quello di una vicenda molto borghese in cui le relazioni interpersonali di una famiglia “normalmente” disfunzionale.

Ecco allora che il letto del fiume – citato nel libretto quando nella prima scena Flosshilde rimprovera le sorelle con le parole «Des Goldes Schlaf | hütet ihr schlecht! | Besser bewacht | des schlummernden Bett» (Dell’oro il sonno mal custodite! Meglio vegliate del sonnecchiante il letto) –  lo troviamo nei tre i letti delle figlie del Reno della scenografia di Christian Schmidt formata da stanze bianche di una grande villa (forse la stessa in cui soggiornò Wagner a Zurigo nei mesi della stesura iniziale della partitura) su una struttura che ruota quasi continuamente. Una soluzione elegante – all’inizio il rotare degli ambienti richiama il lento flusso del grande fiume e il gioco a rimpiattino delle tre fanciulle con Alberich da una stanza all’altra è ben realizzato – ma alla lunga monotona: il fondo del fiume Reno, l’Asgard immerso nelle nuvole, il  Nibelheim e il Valhalla si svolgono tutti negli stesse interni e i grandi momenti di questo immenso dramma musicale si rivelano così piuttosto sotto tono con i passaggi da una scena all’altra affidati esclusivamente alla musica a sipario chiuso. 

Ironici i costumi dello stesso Schmidt: le tre figlie del Reno sono in bianchi pigiami di seta e parrucche platinate; Wotan e Fricka ricordano Wagner e consorte, lui in vestaglia da camera lei in abito verde; Froh e Donner due giocatori di cricket in giacca a righe e paglietta; i giganti Fasolt e Fafner due cacciatori bavaresi (sembra che alla prima assomigliassero a due ebrei ortodossi e il regista ne ha rapidamente cambiato il look). In questo ambiente borghesemente domestico l’outsider è Loge, un Jack Sparrow a piedi nudi. Nei costumi dei Nibelunghi domina il nero ovviamente e il bianco in quelli degli dèi. Come sempre appropriato è il gioco luci di Franck Evin. 

A parte i giochi di prestigio di Loge che fa apparire all’improvviso varie fiamme, non c’è mito o soprannaturale in questo Rheingold visto come un ambiente molto borghese con Freia indispettita per il comportamento dei maschi della famiglia, i due fratelli Donner e Froh bambini troppo cresciuti e Wotan un patriarca che si siede al lungo tavolo dorato che rappresenta il Walhalla con dei parenti scocciati. L’arcobaleno che doveva transitarli nel castello non c’è: le porte dell’armadio si aprono, ne esce una luce abbagliante, si chiude. Tutto qua. Perché il pubblico non creda troppo a quello che vede e non si immerga nella finzione, in diversi momenti quando Loge parla esce dal quadro in cui si immagina la vicenda le luci in sala si accendono.

Per questo ambizioso progetto di mettere in scena l’intero ciclo, alla guida della Philharmonia Zürich c’è il direttore musicale Gianandrea Noseda che debutta in questo Wagner dalle dinamiche non esasperate, dove sono i dettagli strumentali, ben ripresi dalla regia video, a fare la differenza. L’efficacia teatrale non ne risenti e assieme all’equilibrio con le voci in scena costituisce un punto di forza della sua concertazione travolgente ma ben calibrata e variegata nelle dinamiche.

Le voci sono di qualità discontinua. Tomasz Konieczny è un Wotan di grande personalità, grande proiezione vocale ma con salti di registro bruschi, una linea di canto aspra e un’intonazione traballante. Si salvano invece la presenza scenica e la convincente recitazione. Così succede anche con il dinoccolato Loge di Matthias Klink, dal parlato e dall’intonazione ancora più opinabili. Molto bene invece le donne, come l’inquieta Fricka di Patricia Bardon, la fresca Freia di Kiandra Howarth, la Erda di Anna Danik e le tre ondine Woglinde (Uliana Alexyuk), Wellgunde (Niamh O’Sullivan) e Flosshilde (Siena Licht Miller). Dei due giganti meglio il Fasolt di David Soar del fin troppo cavernoso Fafner di Oleg Davydof, accettabili il Donner di Jordan Shanahan e il Froh di Omer Kobiljak. L’eccellenza vocale la troviamo nei due Nibelunghi: Christopher Purves è un Alberich di grande intensità e grande attenzione alla parola, pur non essendo di madrelingua; Wolfgang Ablinger-Sperrhacke si dimostra invece un Mime quasi  insuperabile per varietà di colori ed espressioni.