Faust

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Charles Gounod, Faust

★★☆☆☆

Salisburgo, Felsenreitschule, 23 agosto 2016

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Palle, margherite e clown tristi

«Rien» (niente) recita l’insegna al neon che sovrasta un cumulo di fogli su cui vigilano neri corvi robotizzati. Ed è anche la prima parola cantata da Faust, «Rien! […] Je ne vois rien! Je ne sais rien! Rien! Rien!»: la conoscenza non gli ha apportato quell’appagamento che sperava, tanto che pensa di porre fine alla sua vita col veleno, «Salut! ô mon dernier matin!», per affermare fino all’ultimo di essere padrone del suo destino. Le voci di fuori lo fermano e Faust si lancia nell’invettiva verso quel dio che non gli può restituire la giovinezza e l’amore: è il momento giusto per l’ingresso di Mefistofele, che invece queste cose gliele può offrire. Così inizia il Faust di Gounod che debutta a Salisburgo. E qui nella Großes Festspielhaus è nel nuovo allestimento affidato allo scenografo Reinhard von der Thannen, per la prima volta alla regia. Quello che aveva ideato le scene del Lohengrin dei ratti di Bayreuth e lo stesso ambiente bianco e asettico di laboratorio illuminato da luci fredde fisse lo ritroviamo qui popolato di casettine su rotelle, margherite gigantesche, lettini da ospedale, sedie su cui crescono altre margherite, l’enorme scheletro senza un braccio (?), il cadaverino del neonato nel pacco regalo… Varie trovatine visive di un Regietheater che neanche scandalizza, purtroppo, e alla fine lo spettacolo «carino» riceve la sua dose di applausi.

I librettisti Barbier & Carré avevano sì fatto piazza pulita delle implicazioni filosofiche del testo di Goethe trasformando la vicenda nella solita storia d’amore in clima di grand-opéra, ma ci sono state letture che invece hanno dato un significato più profondo a questo Faust Second Empire. Non qui. Senza un’idea di fondo si susseguono i momenti deludenti del «fantôme adorable et charmant», della trasformazione di Faust in giovane (realizzata altrove con gusto più teatrale), del funereo valzer, per non parlare della notte di Walpurga, con sfere nere fatte rotolare da clown depressi. La vicenda mitica trasformata in un gioco per bambini o una triste fiaba sembrano la chiave di lettura voluta dal regista.

Per compensare le banali coreografie di Giorgio Madia, movimenti di danza sono affidati imprudentemente al coro con risultati imbarazzanti. Uno di questi è la scena dei soldati del quarto atto, quando sono tutti e sessanta schierati in proscenio come nolenti e impacciate ballerine di fila di un avanspettacolo triste. Anche vocalmente, invece del semi-improvvisato Philharmonia Chor, sarebbe stato meglio utilizzare quello dell’opera di Vienna per un lavoro in cui la parte corale è così importante.

Vocalmente generoso e spavaldo il Faust di Piotr Beczała ha un buon controllo dei fiati, grande sicurezza, ma sempre lo stesso volume e con una dizione francese affettata. Le mezzevoci il tenore polacco le lascia tutte alla nostra Maria Agresta che delinea invece una Marguerite di grande sensibilità e proprietà vocale e il cui personaggio cede solo davanti a una irresistibile sciarpa tutta luccicante di cristallli (la sede di Swarovski è a poca distanza da Salisburgo).

Il Mefistofele di Gounod è differente da quello di Boito e là Il’dar Abdrazakov rendeva meglio, qui la voce risulta talora velata, gli acuti poco sonori. Dal punto di vista scenico si ammira l’impegno del basso russo a ravvivare l’atmosfera che rimane però glaciale.

Nonostante la barba posticcia non è certo il physique du rôle e il terribile costume che si ammirano nel Siébel di Tara Erraught per il quale è stata ripristinata la seconda aria del quarto atto. Ottimamente reso il Valentin di Alekseij Markov, baritono vocalmente di tutto rispetto che, pugnalato a più riprese sia da Mefistofele sia da Faust, rimane in piedi per un buon quarto d’ora a porgere le sue maledizioni alla sorella prima di morire. Efficace la Marthe di Marie-Ange Todorovitch, unica francese del cast, dal caldo timbro di mezzo-soprano e dalla ironica presenza.

L’argentino Alejo Pérez alla testa della Filarmonica di Vienna è attento alle dinamiche, ma senza quegli slanci passionali che rendono godibile il grand-opéra: il duetto finale di Faust e Margherita non decolla mai e altri punti dell’opera risultano desolatamente piatti.

Nell’ultima scena sulla morte e redenzione di Marguerite ridiscende l’insegna «Rien», chiaro suggello a questo spettacolo latitante di idee.

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