L’Orfeo

 

Claudio Monteverdi, L’Orfeo

★★☆☆☆

Torino, Teatro Regio, 13 marzo 2018

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L’Orfeo del Regio non ascende al cielo

I teatri sono delle macchine del tempo talora, nel senso che ci possono trasportare indietro nel passato. È il caso ad esempio di questa produzione de L’Orfeo di Monteverdi del Teatro Regio di Torino. Ma non per i 411 anni che ci separano dal debutto del primo capolavoro di un nuovo genere, il melodramma, bensì per il passato da cui sembra uscire questo allestimento nato già vecchio.

In controtendenza alle letture che hanno analizzato in modi diversi il mito anche decontestualizzandolo – vengono alla mente i nomi di Jean-Pierre Ponnelle, Pier Luigi Pizzi, Luca Ronconi, Robert Wilson e più recentemente di Trisha Brown, Claus Guth e Barrie Kosky, per citarne solo alcuni – nell’allestimento del regista Alessio Pizzech abbiamo uno spettacolo improntato alla mera illustrazione di quanto suggerisce il testo. La vicenda viene rappresentata in maniera piattamente lineare senza affrontare gli spunti che un lavoro di quattro secoli fa potrebbe suggerire a noi moderni. Qui le ninfe sono vestite di fiori, i pastori sono saltellanti, Orfeo non si separa mai dalla sua lira di plastica dorata (quella di Apollo avrà in più l’illuminazione a led!), a Euridice non manca il velo bianco e se si parla di «face ardente» ecco che un ballerino entra in scena con una fiaccola accesa. Tutto secondo copione. Ma dov’è la magia del teatro?

La scenografia di Davide Amadei presenta un piano inclinato messo in diagonale, un pavimento in parquet tagliato a metà in verticale che funge da sipario e che quando si alza svela un ambiente circondato da pareti che riprendono un soffitto ligneo a cassettoni dall’aspetto decisamente opprimente. Talora le pareti si aprono per mostrare un fondo grigio, nella scena degli inferi, o luminoso nel finale in cui Orfeo dovrebbe ascendere al cielo assieme al padre Apollo, ma che qui invece continuano a passeggiare in scena.

I costumi sono abiti da sera per i personaggi femminili mentre Orfeo è in completo bianco ma scalzo e Apollo in un outfit dorato. Ancora più strampalati quelli di Caronte e Plutone. Nella scelta registica di Pizzech mancano completamente di impatto gli ingressi sia della Musica sia della Messaggera e la barca di Caronte va avanti e indietro di pochi metri per traghettare anime riottose che con il loro scalmanarsi distolgono l’attenzione dal canto di Orfeo che cerca di addolcire il traghettatore dell’Ade. La stessa cosa avviene durante il sublime canto della Messaggera il cui intervento è disturbato dal fastidioso fruscio dei prati di plastica trascinati fuori dal palcoscenico.

Se non la prima opera, L’Orfeo è il primo lavoro a contenere in sé, sia musicalmente sia drammaturgicamente quella che sarà poi lo spettacolo lirico: una gamma completa di modalità espressive qui evidenziate da una ricchezza timbrica, strumentale e vocale che rendono quest’opera di Monteverdi un capolavoro ancora oggi pienamente apprezzabile.

Questa ricchezza timbrica è solo in parte presente nella direzione di Antonio Florio. Esperto di musica barocca, musicologo e fondatore dell’ensemble Cappella della Pietà de’ Turchini con cui ha esplorato la musica del Seicento e Settecento napoletano, affronta qui per la prima volta il lavoro di Monteverdi e come intimorito offre un’esecuzione sapiente ma che smorza i contrasti dinamici e sonori con tempi rilassati e colori spenti. La concertazione è sapiente e accurata ma si dimostra talora come intimorita dallo smalto sonoro potenzialmente esprimibile dalla partitura. Non sempre si percepisce lo splendore strumentale di una partitura che mette in campo un organico strumentale stupefacente per l’epoca: oltre agli archi nella buca orchestrale troviamo due flauti, cinque tromboni, due cornetti, tromba, timpani e percussione. E per l’esecuzione del basso continuo sono impiegati ben due clavicembali, un organo positivo, un regale, tre liuti, arpa, violoncello e violone.

Anche in scena abbondano interpreti esperti di musica barocca a cui però è assegnata una gesticolazione artificiosa ed eccessiva. È il caso ad esempio della Messaggera/Speranza di Monica Bacelli qui più manierata ancora del solito e se non fosse per la correttezza dell’emissione vocale sarebbe scenicamente insopportabile. Roberta Invernizzi è la sontuosa Musica del prologo e in seguito una passionata Proserpina. L’Euridice di Francesca Boncompagni ha poco da cantare e forse per questo sembra presa dalle convulsioni quando è tratta fuori dall’Ade. Gli eccessi di espressione sembrano voler caratterizzare questo allestimento anche nel caricato Caronte di Luigi De Donato e nel Plutone di Luca Tittoto, entrambi efficaci dèi degli inferi, e nella Ninfa esagitata di Leslie Visco. Nel ruolo titolare Marco Borgioni, baritono, sfoggia un bel timbro, ma le fioriture sono realizzate in maniera un po’ accademica e la dizione ha un che di artificiale. La presenza scenica un po’ impacciata non lo ha aiutato a delineare drammaticamente il personaggio. Modesto il Pastore/Apollo di Fernando Guimarães, mentre ottima prova ha dato il coro sia come garrula folla di pastori e ninfe, sia soprattutto nel coro degli spiriti dove ha splendidamente realizzato la solenne polifonia del pezzo che conclude il quarto atto.

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