Die sieben Todsünden / Mahagonny-Songspiel

Kurt Weill, Die sieben Todsünden / Mahagonny-Songspiel

★★★☆☆

Milano, Teatro alla Scala, 18 marzo 2021

(video streaming)

Sette + uno

Nel dicembre 1932 Kurt Weill a Parigi riceve l’incarico da Edward James, un facoltoso inglese, di scrivere un balletto che doveva includere due personaggi destinati alle rispettive consorti: una cantante (Lotte Lenya, la moglie di Weill) e una ballerina (Tilly Losch, la moglie di James). Da questa doppia personalità doveva nascere il libretto di Die sieben Todsünden (I sette peccati capitali) scritto da Bertolt Brecht. Sarebbe stato il loro ultimo sodalizio. Il 27 febbraio 1933 Hitler saliva al potere e l’ebreo Weill aveva compreso da tempo che era meglio lasciare la Germania. Da Berlino il compositore aveva raggiunto prima Parigi, poi Praga, quindi Vienna, Zurigo, Lugano e poi ancora Parigi. Sette città. Sette come le città del balet chanté che vide la prima al Théâtre des Champs-Élysées il 7 giugno del ’33 con la coreografia di Balanchine. In un prologo, sette scene e un epilogo veniva messo in scena il dramma di due donne e la loro odissea americana.

Die sieben Todsünden racconta la storia di due sorelle. Anna I, la cantante, è il ruolo vocale principale. Anna II, la ballerina, si sente solo di rado e si esprime in parlato. Il testo accenna alla possibilità che siano la stessa persona: Anna I è la componente cinica e con senso pratico, Anna II è la bellezza emotiva e impulsiva. La famiglia è un quartetto maschile e funge da coro greco nel commentare la vicenda. Le due donne si recano in sette diverse città americane per fare abbastanza soldi da costruire una casetta sulle rive del Mississippi. In ogni città incontrano un peccato mortale diverso e Anna I rimprovera Anna II per essersi impegnata in un comportamento peccaminoso, un comportamento che ostacola l’accumulo di ricchezza.

Epilogo. Anna I spiega il rapporto tra lei e Anna II e la loro ricerca e identifica il resto della famiglia: una madre, un padre e due fratelli. 1 Accidia. I genitori di Anna notano che è sempre stata pigra ma per altri versi è stata una bambina rispettosa, mentre i fratelli intonano: “L’ozio è la madre di tutti i vizi”. La Famiglia prega che Dio mantenga Anna sulla via che porta alla prosperità e alla felicità. 2 Orgoglio. Anna I e Anna II sono a Memphis. I nuovi vestiti di Anna II l’hanno fatta impazzire. Quando accetta un lavoro come ballerina esotica, cerca di trasformarlo in arte, con dispiacere dei clienti paganti. Anna I la rimprovera per il suo orgoglio e le ricorda che deve fare ciò che le viene richiesto. 3 Ira. La famiglia nota con dispiacere che le ragazze non hanno inviato abbastanza denaro. Sono a Los Angeles e le cose stanno andando abbastanza bene finché Anna II non assiste ad atti di crudeltà e si ribella all’ingiustizia. Anna I le ricorda che una tale rabbia la renderà inabile al lavoro e quindi inutile. 4 Gola. La famiglia ha ricevuto una lettera da Filadelfia. Stanno guadagnando bene, ma il contratto di Anna II specifica che non deve aumentare di peso, nemmeno un grammo. Ricordano che Anna II ama mangiare e riconoscono le sue difficoltà, ma si fidano di lei per ricordare che un contratto è un contratto. 5 Lussuria. A Boston, Anna II ha trovato un ricco amante, ma si innamora di un altro uomo, che è povero. Anna I fa notare che il ricco amante non tollera una lealtà divisa. Anna II si ribella, ma alla fine cede a malincuore e rinuncia al povero amante. 6 Cupidigia. La famiglia viene a sapere che sono a Baltimora. Gli uomini si stanno suicidando per Anna II, il che aumenta la sua capacità di guadagno, ma si teme che diventerà troppo avida. Sperano che sia moderata e non si renda troppo impopolare per guadagnare soldi. 7 Invidia. Da San Francisco Anna I racconta che Anna II è stanca e invidiosa di chi non deve faticare. Anna I predica della necessità di rinunciare ai piaceri del mondo e promette una ricompensa in arrivo. La famiglia le dà ragione, dicendo che il rigoroso autocontrollo è la via verso la gloria. Epilogo. Le ragazze tornano in Louisiana dopo sette anni. La casa è completa e si ricongiungono alla Famiglia.

Un’ottava città è quella di Mahagonny, la città in cui tutto è permesso grazie al denaro. Nel 1927 Weill aveva composto una cantata scenica per sei voci e dieci strumenti su cinque canzoni tratte dalla quarta “lezione” delle Hauspostille (Breviario domestico) che Bertolt Brecht aveva pubblicato l’anno precedente. Due dei testi erano in inglese: “Alabama Song” e “Benares Song”. Questa Piccola Mahagonny diventerà tre anni dopo Die Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny, l’opera in tre atti. Prodotto per il Festival di Baden Baden del luglio 1927, Mahagonny-Songspiel nel programma di sala fu presentato come «una breve pièce epica che trae spunto dall’irresistibile declino delle nostre classi sociali esistenti e si rivolge a un pubblico che va a teatro ingenuamente e per gioco». Nell’allestimento di Caspar Neher la scena rappresentava un ring di pugilato con uno schermo su cui venivano proiettati questi testi esplicativi:

1 Le grandi città dei nostri giorni sono piene di persone a cui non piacciono; 2 Scappa a Mahagonny, quindi, la città d’oro situata sulle rive della consolazione, lontana dalla frenesia del mondo; 3 Qui a Mahagonny la vita è meravigliosa; 4 Ma anche a Mahagonny ci sono momenti di nausea, impotenza e disperazione; 5 Si sentono gli uomini di Mahagonny rispondere alle domande di Dio sulla causa della loro vita peccaminosa; 6 L’adorabile Mahagonny si sgretola davanti ai tuoi occhi.

I due brevi lavori formano ora il terzo spettacolo della stagione scaligera in streaming. Questo dittico di Weill è stato allestito in poco tempo e con poche risorse, come racconta la regista Irina Brook che ha accettato di prendere in considerazione l’offerta con sole tre settimane di preavviso: «Oggetti, costumi, materiali, tutto è recuperato tra gli avanzi dei magazzini dell’Ansaldo. Debutto alla Scala con uno spettacolo bric-à-brac: un’isola immaginaria circondata da un mare di bottiglie di plastica, una pianta spennacchiata come palma, due tavole di legno per un bar scalcinato. Un non luogo, approdo di un gruppetto di sopravvissuti. Tutto è stato spazzato via da una catastrofe ecologica. Il mondo è finito, non c’è più futuro».

Gli spostamenti delle due ragazze, così come poi il viaggio dei cercatori d’oro di Mahagonny, avvengono girando in tondo a una piattaforma rialzata al centro e circondata appunto da bottiglie di plastica trasparente. Su uno schermo vengono proiettate immagini della squallida famiglia davanti a una lercia roulotte. A parte questo sembra un’esecuzione in forma concertistica tanto scarsi sono i movimenti. Anche il balletto si limita alla presenza di due ballerini e a due smilzi siparietti.

Chailly dirige l’orchestra della Scala in gran forma e dopo tante esecuzioni con compagini rabberciate – però anche più graffianti – questa permette di scoprire nella partitura del compositore “degenerato” gli influssi della musica del suo tempo, del jazz o di quella popolare, il tutto rimaneggiato dalla forte personalità del compositore tedesco che avrà una seconda carriera nel musical americano.

Dopo Lotte Lenya e Gisela May il ruolo di Anna I è stato sostenuto sia da cantanti d’opera (Anja Silja, Brigitte Fassbaender, Anne Sofie von Otter…) sia di musica leggera (Milva, Marianne Faithfull…). La scelta di Kate Lindsey qui alla Scala è stata quanto mai opportuna perché il mezzosoprano americano ha dimostrato di avere il carattere e il temperamento giusto per affrontare questo ruolo ibrido, oltre che la presenza scenica. Limitato all'”Alabama Song” è il ruolo di Lauren Michelle di voce tutt’altra che copiosa. Il quartetto maschile si appoggia sui due tenori Matthäus Schmidlechener (il padre e Charlie) e Michael Smallwood (un fratello e Billy), il basso Andrew Harris (la madre e Jimmy) e il baritono Elliott Carlton Hines (l’altro fratello e Bobby). Curiosa la scelta di terminare lo spettacolo con la ripresa dell'”Alabama Song” nella versione di Jim Morrison.

Novant’anni dopo il Weill di Irina Brook non scandalizza, neanche disturba. Diventa un po’ inutile. Brecht sarebbe stato deluso. Come noi.

 

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