Bertolt Brecht

The Decision

Hanns Eisler, The Decision (Die Maßnahme)

Birmingham, Great Hampton Works, 5 marzo 2023

★★★☆☆

(video streaming)

L’eredità di Graham Vick nel Lehrstück di Brecht

Die Maßnahme (Il provvedimento) è un Lehrstück (pezzo didattico), una cantata agitprop di Bertolt Brecht creata in collaborazione con il compositore Hanns Eisler. Si compone di otto sezioni in prosa e versi liberi, con sei canzoni. Una nota al testo, redatta da tutti e tre i collaboratori, lo descrive come un «tentativo di utilizzare un Lehrstück per rendere familiare un atteggiamento di intervento positivo».

Quattro agitatori di Mosca tornano da una missione di successo in Cina e un comitato centrale (chiamato Il Coro di Controllo) si congratula per i loro risultati. I quattro agitatori, tuttavia, informano il comitato che durante la loro missione sono stati costretti a uccidere un giovane compagno perché la loro missione avesse successo. Chiedono il giudizio del comitato sulle loro azioni. Il comitato rinvia il suo verdetto fino a quando i quattro agitatori non avranno rievocato gli eventi che hanno portato alla morte del giovane compagno e allora essi raccontano di essere stati inviati in missione per educare e aiutare a organizzare i lavoratori in Cina. In una casa di partito (l’ultima prima di raggiungere le frontiere della Cina) incontrano un giovane compagno entusiasta, che si offre di unirsi a loro come guida. Gli agitatori devono nascondere la loro identità perché educare e organizzare i lavoratori in Cina è illegale. Il direttore della casa del partito aiuta i quattro agitatori e il giovane compagno a cancellare le loro vere identità. Tutti indossano delle maschere per apparire come cinesi. Viene detto loro di tenere nascosto che sono comunisti. La loro missione deve rimanere segreta. Se dovessero essere scoperti, le autorità attaccheranno l’organizzazione e l’intero movimento e non solo le vite dei quattro agitatori e del giovane compagno saranno messe in pericolo. Gli agitatori e il giovane compagno accettano tutti queste condizioni. Tuttavia, una volta in Cina, la vista dell’ingiustizia e dell’oppressione fa infuriare il giovane compagno che non riesce a contenere la sua passione e agisce immediatamente per correggere i torti che vede intorno a sé. Non mostra discrezione nell’insegnare agli oppressi come aiutarsi da soli e non ha tatto nel trattare con i piccoli oppressori per aiutare il bene superiore della rivoluzione. Di conseguenza, alla fine espone sé stesso e i quattro agitatori strappandosi la maschera e proclamando gli insegnamenti del partito. Viene identificato, smascherato, proprio mentre scoppiano i disordini e inizia una rivolta rivoluzionaria tra gli operai. Le autorità inseguono il giovane compagno e i suoi amici. Continuando a gridare contro il partito, il giovane compagno viene colpito alla testa da uno degli agitatori, che lo portano il più lontano possibile, fino alle vicine cave di calce. Lì gli agitatori discutono su cosa fare di lui. Se lo aiutano a fuggire non potranno aiutare la rivolta, e comunque la fuga è quasi impossibile dalla loro posizione attuale. Se viene lasciato indietro e catturato, la sua sola identità tradirà involontariamente il movimento. I quattro agitatori si rendono conto che deve sparire. Per salvare il movimento, concludono che l’unica soluzione è che il giovane compagno muoia e venga gettato nelle fosse di calce dove verrà bruciato e diventerà irriconoscibile. Gli chiedono il suo consenso. Il giovane compagno accetta il suo destino nell’interesse della rivoluzione mondiale e del comunismo. Chiede ai quattro agitatori di aiutarlo a morire. Gli sparano e gettano il suo corpo nella fossa della calce. Il comitato centrale, a cui i quattro agitatori hanno raccontato la loro storia, è d’accordo con le loro azioni e li rassicura di aver preso la decisione giusta. «Avete contribuito a diffondere gli insegnamenti del marxismo e l’ABC del comunismo», assicurano i quattro agitatori. Ma sottolineano anche il sacrificio e il costo che il successo più ampio ha comportato: «Allo stesso tempo il vostro rapporto mostra quanto sia necessario per modificare il nostro mondo».

Die Maßnahme doveva essere eseguita al Neue Musik Festival di Berlino nell’estate del 1930. La direzione del festival (composta tra gli altri da Paul Hindemith) chiese a Brecht di sottoporre il testo a un controllo, preoccupata per il suo argomento radicalmente politico. Brecht rifiutò e suggerì a Hindemith di dimettersi, protestando per la censura e il pezzo fu rifiutato per «la mediocrità artistica del testo». Brecht e Eisler scrissero una lettera aperta ai direttori del festival in cui proponevano un luogo alternativo per il loro nuovo lavoro e la cantata ebbe quindi la sua prima rappresentazione teatrale al Großes Schauspielhaus di Berlino il 10 dicembre di quello stesso anno e lo spettacolo fu diretto dal regista bulgaro Slatan Dudow. L’opera fu prodotta anche a Mosca intorno nel 1934.

Alcuni critici hanno visto l’opera come un’apologia del totalitarismo e dell’omicidio di massa, mentre altri hanno sottolineato che si tratta di un’opera sulle tattiche e sulle tecniche di agitazione clandestina. Nei suoi diari tuttavia Brecht racconta come avesse respinto esplicitamente tale interpretazione, rimandando gli accusatori a un esame più attento del testo vero e proprio: «respingo l’interpretazione che il soggetto sia l’omicidio disciplinare» ma sta di fatto che l’opera sia stata lodata come fonte di ispirazione da Ulrike Meinhof, una delle leader dell’organizzazione terroristica tedesca di sinistra Rote Armee Fraktion e ne citava spesso uno dei passaggi che, a suo parere, serviva da giustificazione per gli atti di violenza: «È una cosa terribile uccidere. Ma non uccideremo solo gli altri, ma anche noi stessi, se necessario, perché solo la forza può modificare questo mondo assassino, come sa ogni creatura vivente lo sa».

Brecht si dovette presentare davanti alla Commissione per le Attività Antiamericane il 30 ottobre 1947. Non volle un avvocato e si dimostrò apparentemente collaborativo. La commissione cercò di ingannarlo leggendogli alcune delle sue opere teatrali e poesie più rivoluzionarie, ma lui riuscì a respingere le domande dicendo che si trattava di cattive traduzioni. Alcune delle sue risposte furono abilmente evasive, come quando gli fu chiesto dell’agente del Comintern Grigory Kheifets. A un certo punto, dichiarò di non essersi mai iscritto al partito comunista: nonostante l’ampio sostegno di Brecht al comunismo, infatti, in realtà non aderì mai ufficialmente al partito. Quando gli furono poste domande specifiche su Die Maßnahme disse che si trattava di un adattamento di un antico dramma religioso giapponese. Quando gli fu chiesto se il dramma riguardasse l’omicidio di un membro del partito comunista da parte dei suoi compagni «perché era nell’interesse del partito comunista», rispose che ciò non era del tutto corretto, sottolineando che la morte del membro è volontaria, quindi si trattava sostanzialmente di un suicidio assistito piuttosto che di un omicidio, un tradizionale hara-kiri: «Questo lavoro è l’adattamento di un’antica opera del teatro Nō giapponese e segue molto da vicino questa vecchia storia che mostra la devozione per un ideale fino alla morte. 

Brecht obiettò anche al titolo inglese – l’FBI l’aveva tradotto col titolo The Disciplinary Measure descrivendolo come un’opera che promuoveva «la rivoluzione mondiale comunista con mezzi violenti» – sostenendo che una traduzione più corretta sarebbe stata Steps to Be Taken (Passi da compiere). Il giorno dopo, lo scrittore lasciò definitivamente gli Stati Uniti e tornò in Europa, per poi stabilirsi nella Germania dell’Est.

Brecht e la sua famiglia vietarono la rappresentazione pubblica di Die Maßnahme, ma in realtà il governo sovietico non gradì l’opera e anche altri governi la vietarono. Le rappresentazioni furono riprese solo nel 1997 (41 anni dopo la morte del suo autore) con la messa in scena storicamente rigorosa di Klaus Emmerich al Berliner Ensemble.

La Birmingham Opera Company, orfana del suo creatore Graham Vick, continua la sua missione per creare da oltre un ventennio un memorabile teatro musicale – con dilettanti e senza un teatro d’opera! – con questa produzione della cantata di Brecht/Eisler. Nella traduzione inglese di John Willett diventa The Decision e viene messa in scena da Anthony Almeida in uno dei malandati spazi post-industriali di cui la città inglese abbonda. All’ingresso al pubblico vengono offerti berretti, sciarpe e giacche rosse per dimostrare la loro adesione al “Partito” di cui stanno per varcare i quartieri generali. Lo spettacolo è inquadrato come la ripresa televisiva del comitato politico per festeggiare i quattro protagonisti al loro ritorno dalla Cina. La messa in scena di Almeida porta il pubblico direttamente nell’azione attorno a pedane mobili. Il coro di 60 elementi allineati sulla galleria in alto riflette lo spettro dei partecipanti mentre altri in basso reagiscono e coinvolgono i presenti. I quattro protagonisti principali sono qui interpretati dal mezzosoprano Wendy Dawn Thompson e tre attrici con una recitazione naturalistica. Alpesh Chauhan alla testa della smilza orchestra di ottoni e pianoforte rende la sonora e ritmica partitura di Eisler senza particolari raffinatezze.

Il pubblico presente partecipa con convinzione, ma visto su schermo il lavoro ha dimostrato le sue debolezze di pezzo didattico che manca di una drammaturgia coinvolgente, cosa che era avvenuta invece con le altre produzioni della BOC. Resta comunque l’entusiasmo dei partecipanti e l’importanza di tale realtà per la città di Birmingham.

 ⸪

Pubblicità

Austieg und Fall der Stadt Mahagonny

 

Kurt Weill, Ascesa e caduta della città Mahagonny

★★★★☆

Berlino, Komische Oper, 2 ottobre 2021

(registrazione video)

«Es gibt keine Wiederkehr»: Mahagonny, operetta senza speranza

Non sceglie la via facile Barrie Kosky per mettere in scena Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny. Nelle sue mani diventa un moderno morality play, come il secondo atto di Moses und Aron, l’opera incompiuta di Schönberg che veniva composta in quegli stessi anni, con gli ebrei nel deserto che costruiscono una città dove alcol e sesso sono a buon prezzo. Sono infatti un rabbino e un prete i compari della vedova Begbick che in una landa desolata fondano questa moderna versione di Sodoma e Gomorra. Le allusioni all’America del libretto di Brecht qui non hanno riscontro: in scena c’è uno spazio astratto, un cuneo definito dalla scenografia di Klaus Grünberg, le cui pareti sono inizialmente coperte da tende a rete che lasciano il posto a specchi trasformando il palcoscenico in una specie di caleidoscopio.

Kosky fa notare come Bach, Mozart e Mahler siano presenti nella partitura di quest’opera con grande orchestra e coro, un’opera che guarda al futuro per le invenzioni armoniche e dove i duetti di Jenny e Jim potrebbero stare alla pari con quelli di Wozzeck e Marie, con quelle frasi parallele senza mai un momento di contatto, a significare la solitudine irrimediabile dei personaggi. Ma è la parola che è sempre in primo piano con grande attenzione alle parole di Brecht. Ci mancherebbe, si potrebbe dire, ma quante volte il testo è stato solo funzionale alle melodie e ai temi canticchiabili qui ossessivamente ripetuti.

L’approccio del regista è del tutto opposto alla tradizione con cui è sempre rappresentato il teatro di Brecht/Weill, quella che Kosky chiama «park, bark and snark»: piazzati al centro della scena, canta tutto fortissimo e con tono sarcastico, con un certo disprezzo verso gli spettatori. Nel suo caso le immagini hanno una forza straordinaria, quasi terribile: la scena del sesso multiplo con Jenny è straziante proprio perché non vediamo nulla giacché avviene in una buca, come il combattimento di boxe. Nella prima parte i costumi sono i vestiti di tutti i giorni, nella seconda è come se Mahagonny diventasse Las Vegas, con tutti quanti in nero e lustrini, eccetto Jim, il quale attraversa una vera e propria passione: prima è giudicato da un tribunale corrotto, incarcerato, poi gli vengono cavati gli occhi e alla fine giustiziato, pugnalato da tutti quanti, ma non da Jenny. Il finale è spettrale: una scimmia-robot telecomandata, un Golem meccanico, attraversando la scena perde anche lui la lettera aleph delle tre (tav, mem, aleph) che formano la parola “verità” diventando così “morte”. Gli specchi riflettono il cadavere di Jimmy mentre le voci, invisibili e fuori scena, cantano l’ultimo corale.

A capo di una vera orchestra – non quella ridotta dell’Opera da tre soldi – nella sua lettura Ainārs Rubiķis evidenzia la modernità della partitura, un misto di opera seria, canzoni, musica da circo e oratorio, fino ai toni mahleriani del finale. Nadja Mchantaf, la Jenny che offre il sesso con candida innocenza, non ha la voce roca di Lotte Lenya, la prima interprete, ma esibisce al contrario una voce educata che esalta la fredda ingenuità del personaggio. Nessun personaggio è senza colpa in Mahagonny, ma di certo il trio dei fondatori è tra i peggiori moralmente. Ivan Turšić (Fatty) e Jens Larsen (Trinity Moses) non sono un esempio di bel canto e Nadine Weissmann, una spietata vedova Begbick, è spesso sfiatata ma scenicamente efficace. E poi c’è il Jim Mahoney di Allan Clayton, voce bellissima e luminosa in questo scuro inferno. Kosky ne fa il personaggio principale e l’ex corista inglese aggiunge un’altra grande performance alla sua bella carriera.


Austieg und Fall der Stadt Mahagonny

 

Kurt Weill, Ascesa e caduta della città Mahagonny

Parma, Teatro Regio, 26 aprile 2022

★★★☆☆

(video streaming)

Riproporre oggi Mahagonny in provincia

92 anni dopo ha mantenuto la sua carica eversiva il teatro di Brecht/Weill? Quel teatro che doveva “épater les bourgeois” non ha perso infatti il suo obiettivo? I borghesi non esistono più e il pubblico che dovrebbe  scandalizzarsi ora è assuefatto ad ogni provocazione – anche se il tema dell’avidità e dell’idolatria del dio denaro non si può certo dire che manchi di attualità. Come si può dunque mettere in scena oggi un lavoro come Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny (Ascesa e caduta della città di Mahagonny), la seconda collaborazione del drammaturgo tedesco col compositore di Dessau pochi anni prima della sua fuga dalla Germania nazista?

Henning Brockhaus sceglie di restare fedele allo spirito dell’opera utilizzando un campionario visivo in parte prevedibile ma di indubbia efficacia teatrale. Ma non bastano quattro ballerine con le parrucche e i capezzoli colorati a rendere trasgressivo uno spettacolo che non turba il pubblico di una città di provincia che incontra Weill per la prima volta. Soprattutto con le coreografie innocue di Valentina Escobar. Lo spettacolo era nato nel 2021 per celebrare Parma capitale della cultura, ma le vicende legate alla pandemia ne hanno ritardato ad oggi il debutto.

Le scene semplici ma efficaci sono di Margherita Palli, praticamente dei praticabili che si adattano alle varie situazioni, i congrui costumi anni ’30 di Giancarlo Colis, le luci di Pasquale Mari, i video un po’ miserini di Mario Spinaci. Non manca la passerella da varietà tra l’orchestra e il pubblico, i visi sono dipinti di biacca, il luogo è indeterminato, ma neanche il libretto è decisivo al proposito con tutti quei nomi geografici: Alabama, Oklahoma, Pensacola, ma anche Benares, Mandalay. Un indizio, a parte i tifoni e il deserto, è il fatto che da lì si può arrivare in barca in Alaska, ecco allora che viene in mente la California della corsa all’oro.

Mangiare, fare all’amore, fare a cazzotti e bere: questi sono i quattro comandamenti della Netzestadt Mahagonny, la città trappola. Quattro come i taglialegna arrivati dall’Alaska: Jach, Joe, Jim e Bill. Faranno una brutta fine: prima Jack che scoppia per il troppo mangiare, poi Joe che stramazza sul ring, poi Jim giustiziato per debiti – il comandamento principale è infatti avere soldi da spendere, altrimenti si finisce sul patibolo per aver infranto l’unica legge che conta. Bill è quello che si è meglio adattato, infatti si rifiuta di aiutare l’amico: «Jim, du stehst mir menschlich nah, aber Geld ist eine andre Sache» (Jim, mi sei vicino come essere umano, ma il denaro è un’altra cosa). Non potrebbe essere più chiaro di così il messaggio che Brecht e Weill confidano alla loro opera.

Opera a tutti gli effetti: dopo la suite di songs dell’Opera da tre soldi, con i suoi concertati, cori, arie solistiche, duetti, fugati, Mahagonny è una corrosiva presa in giro dell’opera, con le sue frasi ripetute e i continui ritorni del tema che si fanno beffa dei Leitmotive wagneriani. La partitura è complessa, sofisticata, eclettica, inserisce musica popolare e swing americano. Grande orchestra, classica ma con l’aggiunta di bandoneon, chitarra, banjo, mandolino, harmonium, un pianoforte in buca e uno scordato in scena. Christopher Franklin ne fornisce una lettura corretta senza spingere sul tasto dell’espressionismo e con un ritmo non sempre trascinante. Buona comunque la risposta di un’orchestra tutt’altro che avvezza a questo repertorio. Un narratore, l’attore Filippo Lanzi, cuce i vari momenti dello spettacolo con i suoi annunci al megafono in perfetto stile brechtiano.

La distribuzione vocale ha risentito molto della situazione sanitaria e ben quattro interpreti che hanno  sostituito all’ultimo momento quelli previsti, come il soprano Nadja Mchantaf che ha affrontato però la parte di Jenny con grande sicurezza. La voce è minuta, come la figura, ma così rende ancora più fragile il personaggio con la sua sensualità, le sue contraddizioni, la sua umanità insomma. Leokadja Begbick trova nel mezzosoprano Alisa Kolosova che debutta nella parte, una solida cantante/attrice così come Zoltán Nagy delinea un crudele Fatty. Chris Merritt (Dreieinigkeitsmoses) è in condizioni vocali imbarazzanti probabilmente dovute a un’indisposizione, infatti il cantante è stato sostituito dopo la prima. Particolari il timbro e l’espressione di Tobias Hächler, tenore di Basilea che qui debutta con efficacia come Jim. Di buon livello gli altri interpreti. Il coro del teatro è talora un po’ allo sbando ma il suo ruolo è impegnativo ed è richiesta una assidua presenza scenica.

Pessima ripresa video, che si perde in dettagli che fanno perdere la visione d’insieme con primissimi piani impietosi delle dentature e delle imperfezioni cutanee dei cantanti.

Die sieben Todsünden / Mahagonny-Songspiel

Kurt Weill, Die sieben Todsünden / Mahagonny-Songspiel

★★★☆☆

Milano, Teatro alla Scala, 18 marzo 2021

(video streaming)

Sette + uno

Nel dicembre 1932 Kurt Weill a Parigi riceve l’incarico da Edward James, un facoltoso inglese, di scrivere un balletto che doveva includere due personaggi destinati alle rispettive consorti: una cantante (Lotte Lenya, la moglie di Weill) e una ballerina (Tilly Losch, la moglie di James). Da questa doppia personalità doveva nascere il libretto di Die sieben Todsünden (I sette peccati capitali) scritto da Bertolt Brecht. Sarebbe stato il loro ultimo sodalizio. Il 27 febbraio 1933 Hitler saliva al potere e l’ebreo Weill aveva compreso da tempo che era meglio lasciare la Germania. Da Berlino il compositore aveva raggiunto prima Parigi, poi Praga, quindi Vienna, Zurigo, Lugano e poi ancora Parigi. Sette città. Sette come le città del balet chanté che vide la prima al Théâtre des Champs-Élysées il 7 giugno del ’33 con la coreografia di Balanchine. In un prologo, sette scene e un epilogo veniva messo in scena il dramma di due donne e la loro odissea americana.

Die sieben Todsünden racconta la storia di due sorelle. Anna I, la cantante, è il ruolo vocale principale. Anna II, la ballerina, si sente solo di rado e si esprime in parlato. Il testo accenna alla possibilità che siano la stessa persona: Anna I è la componente cinica e con senso pratico, Anna II è la bellezza emotiva e impulsiva. La famiglia è un quartetto maschile e funge da coro greco nel commentare la vicenda. Le due donne si recano in sette diverse città americane per fare abbastanza soldi da costruire una casetta sulle rive del Mississippi. In ogni città incontrano un peccato mortale diverso e Anna I rimprovera Anna II per essersi impegnata in un comportamento peccaminoso, un comportamento che ostacola l’accumulo di ricchezza.

Epilogo. Anna I spiega il rapporto tra lei e Anna II e la loro ricerca e identifica il resto della famiglia: una madre, un padre e due fratelli. 1 Accidia. I genitori di Anna notano che è sempre stata pigra ma per altri versi è stata una bambina rispettosa, mentre i fratelli intonano: “L’ozio è la madre di tutti i vizi”. La Famiglia prega che Dio mantenga Anna sulla via che porta alla prosperità e alla felicità. 2 Orgoglio. Anna I e Anna II sono a Memphis. I nuovi vestiti di Anna II l’hanno fatta impazzire. Quando accetta un lavoro come ballerina esotica, cerca di trasformarlo in arte, con dispiacere dei clienti paganti. Anna I la rimprovera per il suo orgoglio e le ricorda che deve fare ciò che le viene richiesto. 3 Ira. La famiglia nota con dispiacere che le ragazze non hanno inviato abbastanza denaro. Sono a Los Angeles e le cose stanno andando abbastanza bene finché Anna II non assiste ad atti di crudeltà e si ribella all’ingiustizia. Anna I le ricorda che una tale rabbia la renderà inabile al lavoro e quindi inutile. 4 Gola. La famiglia ha ricevuto una lettera da Filadelfia. Stanno guadagnando bene, ma il contratto di Anna II specifica che non deve aumentare di peso, nemmeno un grammo. Ricordano che Anna II ama mangiare e riconoscono le sue difficoltà, ma si fidano di lei per ricordare che un contratto è un contratto. 5 Lussuria. A Boston, Anna II ha trovato un ricco amante, ma si innamora di un altro uomo, che è povero. Anna I fa notare che il ricco amante non tollera una lealtà divisa. Anna II si ribella, ma alla fine cede a malincuore e rinuncia al povero amante. 6 Cupidigia. La famiglia viene a sapere che sono a Baltimora. Gli uomini si stanno suicidando per Anna II, il che aumenta la sua capacità di guadagno, ma si teme che diventerà troppo avida. Sperano che sia moderata e non si renda troppo impopolare per guadagnare soldi. 7 Invidia. Da San Francisco Anna I racconta che Anna II è stanca e invidiosa di chi non deve faticare. Anna I predica della necessità di rinunciare ai piaceri del mondo e promette una ricompensa in arrivo. La famiglia le dà ragione, dicendo che il rigoroso autocontrollo è la via verso la gloria. Epilogo. Le ragazze tornano in Louisiana dopo sette anni. La casa è completa e si ricongiungono alla Famiglia.

Un’ottava città è quella di Mahagonny, la città in cui tutto è permesso grazie al denaro. Nel 1927 Weill aveva composto una cantata scenica per sei voci e dieci strumenti su cinque canzoni tratte dalla quarta “lezione” delle Hauspostille (Breviario domestico) che Bertolt Brecht aveva pubblicato l’anno precedente. Due dei testi erano in inglese: “Alabama Song” e “Benares Song”. Questa Piccola Mahagonny diventerà tre anni dopo Die Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny, l’opera in tre atti. Prodotto per il Festival di Baden Baden del luglio 1927, Mahagonny-Songspiel nel programma di sala fu presentato come «una breve pièce epica che trae spunto dall’irresistibile declino delle nostre classi sociali esistenti e si rivolge a un pubblico che va a teatro ingenuamente e per gioco». Nell’allestimento di Caspar Neher la scena rappresentava un ring di pugilato con uno schermo su cui venivano proiettati questi testi esplicativi:

1 Le grandi città dei nostri giorni sono piene di persone a cui non piacciono; 2 Scappa a Mahagonny, quindi, la città d’oro situata sulle rive della consolazione, lontana dalla frenesia del mondo; 3 Qui a Mahagonny la vita è meravigliosa; 4 Ma anche a Mahagonny ci sono momenti di nausea, impotenza e disperazione; 5 Si sentono gli uomini di Mahagonny rispondere alle domande di Dio sulla causa della loro vita peccaminosa; 6 L’adorabile Mahagonny si sgretola davanti ai tuoi occhi.

I due brevi lavori formano ora il terzo spettacolo della stagione scaligera in streaming. Questo dittico di Weill è stato allestito in poco tempo e con poche risorse, come racconta la regista Irina Brook che ha accettato di prendere in considerazione l’offerta con sole tre settimane di preavviso: «Oggetti, costumi, materiali, tutto è recuperato tra gli avanzi dei magazzini dell’Ansaldo. Debutto alla Scala con uno spettacolo bric-à-brac: un’isola immaginaria circondata da un mare di bottiglie di plastica, una pianta spennacchiata come palma, due tavole di legno per un bar scalcinato. Un non luogo, approdo di un gruppetto di sopravvissuti. Tutto è stato spazzato via da una catastrofe ecologica. Il mondo è finito, non c’è più futuro».

Gli spostamenti delle due ragazze, così come poi il viaggio dei cercatori d’oro di Mahagonny, avvengono girando in tondo a una piattaforma rialzata al centro e circondata appunto da bottiglie di plastica trasparente. Su uno schermo vengono proiettate immagini della squallida famiglia davanti a una lercia roulotte. A parte questo sembra un’esecuzione in forma concertistica tanto scarsi sono i movimenti. Anche il balletto si limita alla presenza di due ballerini e a due smilzi siparietti.

Chailly dirige l’orchestra della Scala in gran forma e dopo tante esecuzioni con compagini rabberciate – però anche più graffianti – questa permette di scoprire nella partitura del compositore “degenerato” gli influssi della musica del suo tempo, del jazz o di quella popolare, il tutto rimaneggiato dalla forte personalità del compositore tedesco che avrà una seconda carriera nel musical americano.

Dopo Lotte Lenya e Gisela May il ruolo di Anna I è stato sostenuto sia da cantanti d’opera (Anja Silja, Brigitte Fassbaender, Anne Sofie von Otter…) sia di musica leggera (Milva, Marianne Faithfull…). La scelta di Kate Lindsey qui alla Scala è stata quanto mai opportuna perché il mezzosoprano americano ha dimostrato di avere il carattere e il temperamento giusto per affrontare questo ruolo ibrido, oltre che la presenza scenica. Limitato all'”Alabama Song” è il ruolo di Lauren Michelle di voce tutt’altra che copiosa. Il quartetto maschile si appoggia sui due tenori Matthäus Schmidlechener (il padre e Charlie) e Michael Smallwood (un fratello e Billy), il basso Andrew Harris (la madre e Jimmy) e il baritono Elliott Carlton Hines (l’altro fratello e Bobby). Curiosa la scelta di terminare lo spettacolo con la ripresa dell'”Alabama Song” nella versione di Jim Morrison.

Novant’anni dopo il Weill di Irina Brook non scandalizza, neanche disturba. Diventa un po’ inutile. Brecht sarebbe stato deluso. Come noi.

 

Die Dreigroschenoper

Kurt Weill, Die Dreigroschenoper (L’opera da tre soldi)

Amburgo, St. Pauli-Theater, 8 gennaio 2004

(registrazione televisiva)

Brecht a St. Pauli

Il testo di Bertolt Brecht Die Dreigroschenoper è del 1928 e si ispira a The Beggar’s Opera (L’opera del mendicante) che il drammaturgo e poeta John Gay aveva scritto nel 1728 e rappresentato con le musiche di Johann Christoph Pepusch. Nei tre atti si sviluppa la vicenda dei membri della famiglia Peachum, “imprenditori” del malaffare a Londra: ladri, prostitute, ma anche mendicanti devono dare una percentuale dei loro guadagni a Mr. Peachum, che quando non ha più bisogno dei loro servizi li consegna alla polizia ricavandoci ancora soldi per la ricompensa.

Prologo. Un cantore (aggiornamento novecentesco del menestrello) intona a mo’ di presentazione la Ballata di Macheath.
Atto primo. Peachum, organizzatore di una vasta rete di finti accattoni londinesi, viene a scoprire la relazione che lega la figlia Polly a Macheath (detto Mackie Messer) e monta su tutte le furie; ciò non impedisce ai due di sposarsi ugualmente e di meditare sul futuro della banda, di cui Mackie non pare molto soddisfatto. Tra gli invitati giunti a congratularsi c’è anche Brown, il capo della polizia, impegnato nei preparativi per la festa imminente dell’incoronazione; la scena termina con il duetto d’amore di Polly e Mackie rimasti soli mentre cala la notte.
Atto secondo. Intanto Peachum è deciso a eliminare l’indesiderato genero con mezzi legali, ossia denunciandolo; sua moglie sospetta che se ne stia nascosto e protetto presso alcune prostitute di antica conoscenza; Polly avvisa Macheath del pericolo e lo esorta a fuggire, impegnandosi a guidare personalmente la banda; tradito da Jenny, Macheath finisce ugualmente in cella, dove non si perde d’animo, sicuro com’è che qualche donna certamente lo aiuterà a tornare libero. Si presentano davanti alla prigione Polly e Lucy, quest’ultima (figlia di Brown) a sua volta segretamente sposata al fedifrago recluso, che ispira alle due donne uno sfogo di gelosia. Polly viene poi allontanata a viva forza dalla prigione per intervento della madre, inopinatamente ricomparsa; rimasta sola, Lucy riesce a far evadere Macheath.
Atto terzo. Peachum passa al contrattacco e predispone un piano con cui sabotare il regolare svolgimento della festa dell’incoronazione intrecciandovi una controproducente sfilata di (finti) accattoni; arrestato da Brown, lo minaccia di rivelare i loschi legami che lo vincolano al bandito; messo in tal modo con le spalle al muro, Brown fa ricercare Macheath (è Peachum stesso a fornirgli tutte le indicazioni necessarie) e lo fa arrestare. Il malvivente aspetta ormai l’esecuzione della condanna capitale; suonano le campane di Westminster e Macheath viene portato via; ma invece della notizia della sua morte arriva quella della sopravvenuta grazia, corredata per graziosa intercessione della regina della donazione di un castello e di un titolo nobiliare; ma l’ultima parola spetta a Peachum, che invita a non prestar fede al lieto fine, perché nella realtà le grazie arrivano molto raramente, soprattutto se a ribellarsi sono i deboli.

«Die Dreigroschenoper racchiudeva, al suo apparire, una carica provocatoria dirompente, ben avvertibile proprio attraverso il suo rapporto con l’originale, mantenuto su termini che smentivano la benché minima intenzione ‘neoclassica’; la cantabilità apparentemente corriva maschera un’aggressività neanche troppo latente e l’abbordabilità dei temi ridipinge con la vernice illusoria della rispettabilità le infami malizie dei protagonisti, inquietanti proprio per la loro scaltrita arte di dissimulazione. Theodor Wiesengrund Adorno ebbe a mettere in guardia contro un’interpretazione in chiave ‘operettistica’ della Dreigroschenoper; infatti per Weill la canzonetta ha un valore puramente funzionale, che non basta in alcun modo a relegare il lavoro nei ranghi del teatro leggero. Abbandonare il consueto pathos operistico in favore del ‘banale’, oppure abdicare alle arie canoniche per confezionare perfette imitazioni di musichette da cabaret, comportava essenzialmente una liberazione dal coinvolgimento psicologico tipico del teatro tradizionale, per l’artista come per l’ascoltatore. Ma il fine di questo anomalo Songspiel (così era stato battezzato il precedente Mahagonny, concepito anch’esso, nella versione originale, come sequenza di canzoni) non era certo solo quello di sconcertare il pubblico; il fatto è che sotto la dolcezza accattivante delle ariette si celano i malefici tranelli di Macheath e di Peachum, sotto l’apparente stupidità vengono occultate le malizie più proditorie. Le canzoni, che obbediscono a un calco stilistico magistralmente ‘reinventato’ da Weill e non sono quindi basate su temi preesistenti, assolvono a una funzione di ‘schermo’, celando dietro la loro benevola superficie l’ipocrisia reale dei protagonisti e della società che in esse viene adombrata». (Elisabetta Fava)

Se Pepusch aveva orchestrato delle ballad popolari per l’opera di Gay, qui è Kurt Weill a scrivere delle canzoni per il Theaterstück di Brecht. Attingendo al repertorio della musica del cabaret tedesco del tempo, le melodie di Weill hanno varcato la soglia dei teatri per diventare degli standard della musica popolare. Una per tutte la “Canzone dei Pirati” di Jenny, che è stata interpretata, fra le tante, da Lotte Lenya, Milly, Milva, Ute Lemper e Nina Simone.

Nel 2004 il lavoro di Brecht/Weill viene messo in scena ad Amburgo, al St. Pauli. Nel quartiere dietro al teatro fiorisce il più antico commercio del mondo nelle sale da gioco d’azzardo, negozi di erotismo, pub e club. Povera gente, violenza, dirigenti corrotti, riciclaggio di denaro sporco, crisi economica: il libretto di Brecht non è mai stato tanto attuale, tuttavia, il regista Ulrich Waller resiste alla tentazione di adattare lo spettacolo al quartiere di Amburgo, di modernizzarlo. […] L’ex regista di Kammerspiele presenta lo spettacolo davanti a scenografie scarne e in costumi tradizionali. Si fida dell’attualità ininterrotta del testo di Brecht, vecchio di 75 anni, e si affida soprattutto, giustamente, ai suoi grandi attori: Christian Redl ed Eva Mattes incarnano la coppia Peachum con grande arguzia; Ulrich Tukur interpreta Mackie Messer nei panni di un elegante teppista dai tratti leggermente chapliniani e si sente visibilmente a suo agio in questo ruolo; Stefanie Stappenbeck è convincente nel ruolo dell’ingenua Polly Peachum; Maria Bill si diletta nel ruolo di Jenny, soprattutto con il suo canto, e il capo della polizia Brown è ritratto da Peter Franke». (Petr Jerabek, Neue Musikzeitung)

Matthias Stötzel dirige la smilza orchestrina, Götz Loepelmann disegna gli scenari e Ilse Welter i costumi. Lo spettacolo è registrato e trasmesso dalla Norddeutscher Rundfunk.

 

Austieg und Fall der Stadt Mahagonny

Kurt Weill, Ascesa e caduta della città Mahagonny

★★★☆☆

Aix-en-Provence, Grand Théâtre de Provence, 15 luglio 2019

(video streaming)

Mahagonny, la città ragnatela non irretisce gli spettatori

E se il profetico teatro di Brecht-Weill non scandalizzasse più perché ne vediamo ben peggio oggi giorno e dei benpensanti non c’è manco più l’ombra? Quale rappresentazione dell’abiezione ci può ancora smuovere se la stessa abiezione ci è presentata lucidamente confezionata ogni giorno in immagini e video dai mezzi di comunicazione?

Questo veniva in mente vedendo l’ultima produzione di Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny, l’opera che aveva fatto scandalo a Lipsia nel 1930, l’opera che “non si poteva rappresentare all’Opera” e che aveva turbato la digestione del pubblico. Quasi novant’anni dopo le musiche di Weill e le parole di Brecht non riescono più a épater les bourgeois – semmai ancora ne esistessero, spariti tutti nell’informe e livellante massa dei fruitori di social. Non c’è più nessuna immagine che ci possa sconvolgere e far meditare. E se lo fa è per un lasso di tempo infinitesimo, prima di essere soppiantata da qualche altra icona più sconvolgente ancora in un processo continuo che porta alla saturazione. Eppure il mondo di Mahagonny non è solo contemporaneo, è una pallida  riflessione di quello che viviamo oggi: il potere gestito da dei criminali, la giustizia corrotta, gli enormi squilibri sociali, l’ecatombe ecologica prossima ventura. Gli autori non potevano pensare che le loro parole di allora («Non abbiamo bisogno di tifoni, non abbiamo bisogno di uragani. Il terrore e la distruzione che scatenano ce li procuriamo noi stessi») sarebbero state superate ampiamente dalla realtà.

Sui giornali francesi la nuova produzione di Mahagonny al festival di Aix-en-Provence era annunciata come «chic et dans le vent». Chic non lo è, mentre alla moda sì, se si intende l’utilizzo di riprese video e la contemporanea proiezione live, cosa vista già mille volte nei teatri lirici. Nella messa in scena di Ivo van Hove questo è l’elemento predominante e talora fastidioso per quella percettibile asincronia tra video e audio o per la nausea data dalle immagini en abîme. Qui tutto è falso e ricostruito con la tecnica del chroma key e nella carrellata dei vizi (cibo, sesso, violenza, alcol) in scena gli attori agiscono contro uno schermo verde e un abile montaggio di immagini rende “reale” una realtà solo virtuale. Mahagonny è dunque solo un’illusione. E i titoli dei vari capitoli che vengono proiettati sugli schermi, confermano lo straniamento e la teatralità di questa cruda vicenda di avidità e lussuria.

«Ihr bekommt leichter das Gold von Männern als von Flüssen!» (È più facile cavar oro dagli uomini che dai fiumi) è il cinico motto di Leokadia Begbick, la spietata intraprendente vedova che assieme a quegli altri due poco di buono che sono Fatty der Prokurist e Dreieinigkeitmoses fonda la città del piacere e della corruzione, dove tutto è permesso, basta avere i soldi, il denaro essendo l’unico valore su cui ruota la società di Mahagonny – così come la nostra. Anche i posti per assistere al processo hanno un prezzo. Un processo con giudici corrotti e dove un assassino viene lasciato libero perché il morto ammazzato non può esporre le sue ragioni («Die Toten reden nicht») mentre chi non ha pagato il whisky viene condannato a morte. Ma nella messa in scena di van Hove il messaggio è talmente insistito e ripetuto che perde di mordente e annoia. E ci vuole un finale in cui tutto viene distrutto fra fumi e fiamme per ridestare la tensione e l’attenzione del pubblico.

A capo della magnifica Philharmonia Orchestra e senza indulgere troppo sulla piacevolezza dei ritmi ballabili della musica di Weill, Esa-Pekka Salonen riesce a equilibrare le due diverse anime della partitura: le canzoni canaille e il rigore formale dei pezzi strumentali. Così sono lucidamente rese sia le ciniche ballate sia lo struggente addio di Jimmy in attesa dell’alba quando verrà giustiziato, «Nur die Nacht darf nicht aufhör‘n […] denn dann beginnt ein verdammter Tag». Analogamente compiute sono la pagina del tifone e la marcia funebre di Jimmy. E qui, se per caso qualcuno non avesse capito che l’opera che egli sta dirigendo parla del nostro presente, il direttore ferma l’orchestra e col cadavere di Jimmy steso al suolo si volta verso il pubblico e sotto un faro che ne illumina il volto Esa-Pekka Salonen fissa gli spettatori per pochi intensi istanti. Sì, i rifiuti della società di Mahagonny siamo noi.

Il problema dei cantanti in Mahagonny è che devono avere una voce non troppo impostata – Lotte Lenya prima, Gisela May dopo, furono soprattutto grandi attrici – e spesso ci si è lamentati che le voci negli ultimi allestimenti fossero troppo belle. Qui abbiamo tre veterani in fin di carriera a coprire le parti degli imprenditori del malaffare. Appurato che senza Willard White sembra non si possa avere un altro  Dreieinigkeitmoses e che le residue risorse vocali di Alan Oke non danneggiano più che tanto il suo Fatty, la Begbick di Karita Mattila si salva quasi solo per la presenza scenica. Come sappiamo a Jenny toccano le ballate più struggenti («Oh! Moon of Alabama») o ciniche («Meine Herren, meine Mutter prägte»). Qui anche Annette Dasch è ottima attrice ed efficace quando sibila fra i denti «Ein Mensch ist kein Tier!», ma la voce sempre tirata al limite fa un po’ effetto sirena e la oscillante intonazione non è proprio quella voluta dal compositore. Vocalmente apprezzabile è invece il quartetto dei boscaioli dell’Alaska: il Jimmy sensibile e sognante di Nikolai Schukoff, il simpatico Bill di Thomas Oliemans, il piacevole Sean Panikkar (Jack/Tobby) e l’autorevole Joe di Peixin Chen. Eccellente il Coro Pygmalion diretto da Richard Wilberforce.

L’opera da tre soldi

 

 Kurt Weill, L’opera da tre soldi

★★☆☆☆

Milano, Piccolo Teatro Strehler, 19 aprile 2016

Michieletto si fa in tre

È incredibile che non esista neppure una registrazione audio recente di quella che è l’opera più scandalosamente rivoluzionaria della prima metà del secolo scorso. Innumerevoli sono stati gli allestimenti in tutto il mondo e solo in Italia, a partire dalla prima rappresentazione del 1956 al Piccolo Teatro di Milano con la regia di Giorgio Strehler, se ne sono succedute innumerevoli altre fino ad arrivare a quella di Massimo Ranieri e Lina Sastri al Napoli Teatro Festival del 2012 e passando per la lettura di Bob Wilson a Spoleto nel 2008.

Ora Michieletto – che nel frattempo ha allestito il Trittico pucciniano a Roma e prepara la Lucia di Lammermoor a Torino, per tacere degl’impegni all’estero – riporta al Piccolo di Milano, esattamente sessant’anni dopo, Die Dreigroschenoper o meglio L’opera da tre soldi, perché in italiano.

 

La forte carica di condanna del lavoro di Brecht nei confronti degli sfruttatori di tutti i tempi la ritroviamo nella messa in scena del regista veneziano che ha buon gioco a renderne attuale il messaggio: oggi come ieri – più di ieri certo per la quantità – il denaro corrompe, compra anime e corpi, riduce in schiavitù parte dell’umanità. I reietti con il giubbotto salvagente arancione che si arrampicano sulle inferriate che li separano dal banchetto dei ricchi sono di un’attualità che però non disturba più il pubblico moderno – molto meno comunque del pubblico della produzione originale o di quella della Milano di trent’anni dopo. Forse questo è il limite dello spettacolo di Michieletto, che scalfisce le coscienze appena appena: le immagini della realtà sono ben più sconvolgenti di quelle proposte qui sulla scena. Ne è convinta anche Viviana Raciti che su Teatro e Critica scrive: «La carica eversiva che acquisiva quello spettacolo del dopoguerra o dopo nei Settanta, con in mezzo il ‘68, altre guerre, rivoluzioni, tirate più o meno direttamente in causa sulla scena, probabilmente qui arriva un po’ sottotono: il bordello di Jenny ha i fasti dei festini di Arcore, si punta il dito contro le grandi imprese che inglobano i piccoli artigiani (ma Piazza Gae Aulenti non c’entra), i completi dei mendicanti lasciano poi lo spazio per un riferimento ai migranti, dietro le sbarre o dispersi in acqua, arrancanti e appesi i loro giubbotti salvagente ad un filo troppo sottile. Eppure non ci sconvolgiamo, rimaniamo composti in poltrona, semmai canticchiando qualche motivo riconosciuto e amato. Ci aveva accolto Mackie Messer impiccato sul palco all’inizio dello spettacolo, con uno spostamento in avanti rispetto al testo, e quel sogno sembrava farci presagire il dramma dietro la goliardia, insinuando lo stesso riso dianoetico, sghembo, disturbato, senso di nausea mista a volontà propositiva che ricorda chi mi siede accanto. Nella ripresa finale l’esecuzione viene interrotta, finisce tutto bene perché in fondo siamo tutti complici. Forse dovrebbe esser questa la nostra presa di coscienza, siamo troppo accoglienti. Arriva il buffetto, non il pugno allo stomaco, abituati a trovare la mediazione, lasciando, dietro quella illusoria tenda dorata, i morti nell’acqua e il mascalzone nel letto».

Un altro limite è la scelta, comprensibilissima certo, della traduzione italiana (di Roberto Menin e di Michieletto stesso per le canzoni). Ottima traduzione, ma si indebolisce l’impatto che ha l’originale tedesco con quei suoi suoni duri e sibilanti («Und der Haifisch, der hat Zähne | Und die trägt er im Gesicht | Und Macheath, der hat ein Messer | Doch das Messer sieht man nicht…») che si perdono nella dolcezza della nostra lingua. Terzo limite è la presenza di interpreti appassionati ma che non raggiungono mai il livello di professionalità degli attori, ad esempio, della scuola anglosassone dove tutti sanno recitare, cantare, suonare, danzare. Qui sulla scena del Piccolo, ahimè, non tutti arrivano a svolgere con eccellenza almeno una di queste attività. Il Macheath di Marco Foschi ricorda molto Fiorello, ma non nella sua bravura vocale. Beppe Servillo sarebbe un Peachum efficace, seppure affetto da una certa napoletanità, ma quando canta diventa imbarazzante. Non meglio Maria Roveran come Polly. Quella che dimostra una più cosciente teatralità è la Jenny di Rossy de Palma, ma gli anni passano per tutti e calze nere e guêpière possono essere un azzardo. Meglio Giandomenico Cupaiuolo, il cantastorie, che trova il giusto accento per rendere le ballate di Weill.

Giuseppe Grazioli ricostruisce la partitura originale: fiati, contrabbasso, chitarre, banjo, mandolino, percussioni e un pianoforte formano la smilza orchestra dai suoni ora secchi ora suadenti che accompagnano con “leggerezza” il “pesante” messaggio del testo.

Il fidato Paolo Fantin ricostruisce la prigione/tribunale in cui è ambientata la vicenda che inizia subito con l’esecuzione di Macheath, ma nel vero (?) finale il malvivente è salvato dal “messo reale”, qui con una valigetta piena di soldi per corrompere il giudice, dalla quale valigetta vengono sparate le banconote su cui si gettano tutti avidamente.

Pubblico delle grandi occasioni, ma sorprende e delude che gli unici momenti in cui si siano sentite delle risate è quando in scena si dicono delle parolacce (le traduzioni in italiano non sembra possano farne a meno): anni di cattivo cinema e televisione hanno lasciato il segno su certi spettatori.

Rise and Fall of the City Mahagonny

tumblr_nl9241MQvm1rr3yo0o1_1280

Kurt Weill, Ascesa e caduta della città di Mahagonny

★★★★☆

Londra, Royal Opera House, 1 aprile 2015

(live streaming)

«Wir brauchen keinen Hurrikan,
wir brauchen keinen Taifun,
denn was er an Schrecken tuen kann,
das können wir selber tun»

Il messaggio di Brecht è profeticamente e tragicamente d’attualità oggi: «Non abbiamo bisogno di tifoni, | non abbiamo bisogno di uragani, | il terrore e la distruzione che scatenano | ce li procuriamo noi stessi»

Il titolo dello spettacolo è in inglese perché in questa lingua è stato tradotto il testo di Bertolt Brecht nel suo primo allestimento alla Royal Opera House. Che contrasto fra i velluti e gli ori della sala del Covent Garden e il crudo messaggio «dell’opera che non poteva essere rappresentata all’Opera»!

Una traduzione inglese era stata la scelta anche della produzione de La Fura dels Baus a Madrid nel 2010 e come per quella edizione valgono qui le stesse riserve: la lingua tedesca originale si adatta meglio alla musica e alla violenza del libretto e anche qui come là ci sono delle voci fin troppo “educate” rispetto a quelle “aspre” dei primi interpreti, come le aveva volute il compositore Kurt Weill per ricreare il cabaret tedesco anni ’20.

La svedese Anne Sofie von Otter abbandona Gluck, Mozart, Strauss e Mahler per calarsi nei panni, e parrucca bicolor, di Leocadia Begbick, la spietata fondatrice e tenutaria di quel gran bordello che è Mahagonny, incarnazione delle bibliche Sodoma a Gomorra. Willard W. White ritorna a interpretare il Trinity Moses di Madrid, ma è la Jenny di Christine Rice la più convincente, straziante com’è il contrasto tra quella voce di velluto e quella parte cinica ben sintetizzata dalla sua “Alabama Song”, ancora oggi una canzone di grande successo.

La direzione di Mark Wigglesworth mette brillantemente in evidenzia sia le asprezze che le ambigue seduzioni cantabili di quel pastiche musicale che è la partitura di Ascesa e caduta della città di Mahagonny e la regia di John Fulljames evidenzia la disperata modernità del lavoro, specchio dell’angoscia dei nostri tempi che, come nel ’29, è in preda ad una crisi che non è solo economica ma anche di valori. Questa allegoria musicale della crudeltà dell’uomo con sé stesso è evidenziata a più riprese dalla messa in scena di Fulljames, che si avvale per la scenografia delle geniali trovate di Es Devlin già ammirate in tanti altri spettacoli. Nella prima parte (atto I) il rimorchio trasportato dai tre fuggitivi si trasforma in container di prostitute, cabina di aereo, palco di Burlesque semplicemente ruotando su sé stesso. Nella seconda parte (atti II e III) un’immane e incombente piramide di container fa da sfondo al processo di Jimmy e alla sua esecuzione. Proiezioni di videografica, oramai sempre più comuni sulle scene delle opere liriche, completano visivamente lo spettacolo.

9b50f62a3969b60220100c1f9f79bc93.jpg

150307_1482 mahagonny adj PRODUCTION IMAGE (c) ROH. photo by Clive Barda.jpg

Rise and Fall of the City Mahagonny

71nMySDiQBL._SL1024_

★★★☆☆

«Un’opera che non può essere rappresentata all’Opera» (1)

Dopo la Dreigroschenoper (L’opera da tre soldi, 1928) riprende la collaborazione tra Bertolt Brecht e Kurt Weill con un’ambiziosa, ma meno efficace, satira della società tedesca, dapprima come Mahagonny-Songspiel (un lavoro da concerto per voci e piccola orchestra) e poi nell’opera in tre atti Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny,  che ingloba i dieci numeri di cui era formata quella prima versione orchestrale.

Atto primo. Leokadja Begbick, Dreieinigkeitmoses (Trinity Moses) e Fatty der Prokurist (il contabile) fuggono verso la Costa dell’oro inseguiti dalla polizia. Bloccati da un guasto in una zona desertica, decidono di restare lì dove si trovano: essi stessi fonderanno sul posto una città dell’oro, la chiameranno Mahagonny e sarà un paradiso dove si potrà avere tutto: «gin e whisky, ragazze e ragazzi», una trappola, una ragnatela per i cercatori d’oro dalle tasche piene di dollari. I tre malfattori organizzano un’efficace propaganda sui pregi della vita nella loro città: come tanti, anche Jenny e le sue sei compagne vi si trasferiscono per allietare la vita degli uomini che affluiscono numerosi. Tra questi sopraggiungono Jim e i suoi amici Joe, Bill e Jack, che si sono arricchiti dopo sette anni di duro lavoro in Alaska come tagliaboschi; la vedova Begbick offre loro le ragazze e Jim sceglie Jenny. Ma presto nella città sopraggiunge la crisi economica. Jim contesta le già liberali leggi di Mahagonny: basta con i divieti, deve esservi permesso proprio tutto, anche soddisfare un desiderio folle come quello di mangiarsi il proprio cappello. Disgustato dalla falsità dell’ordine fondato sul denaro, Jim lo vuole sostituire con il caos di un’anarchia senza freni mettendo a nudo l’ipocrisia della comunità e portandone la morale alle estreme, paradossali conseguenze. Per denaro, proclama Jim, qualsiasi sopruso e qualsiasi desiderio sarà d’ora in poi lecito: mangiare, bere, prostituirsi, fare a pugni sono i suoi quattro comandamenti fondamentali. Si annuncia intanto l’arrivo di un uragano che pare sul punto di distruggere la città. Il panico e lo sconforto provocati dalla notizia della fine imminente fanno sì che le proposte di Jimmy vengano accettate: al pensiero di una catastrofe sempre in agguato per distruggere ogni cosa, concordano tutti, tanto vale vivere come se si trattasse dell’ultimo giorno di vita.
Atto secondo. All’ultimo istante l’uragano cambia miracolosamente percorso: la città è salva. Ma le leggi di Jim sono rimaste in vigore e i suoi amici ne pagano gli effetti catastrofici. Jack si rimpinza di cibo sino a morirne, mentre Joe, sul quale Jim scommette tutti i suoi averi, è sconfitto e perisce in un’impari sfida pugilistica con Trinity Moses. Disperato, Jim invita Jenny e Bill a ubriacarsi. Con un tavolo da biliardo, un’asta e un lenzuolo i tre fingono di trovarsi su una nave che veleggia verso l’Alaska, nel patetico miraggio del ritorno alla vita da tagliaboschi. Ma l’incantesimo svanisce bruscamente: Jim non ha di che pagare il conto delle bottiglie di whisky che si è scolato e nessuno, neppure Jenny, si offre di farlo; viene perciò gettato in prigione.
Atto terzo. Ai danni di Jim viene celebrato un processo-farsa: i giudici sono i suoi stessi accusatori, Mrs. Begbick e Trinity Moses. Il crimine commesso da Jim è il più grave che si possa immaginare per Mahagonny: aver sedotto Jenny e provocato la morte dell’amico Joe sono peccati veniali in confronto a quello, imperdonabile, di trovarsi senza soldi. Solo la morte sulla sedia elettrica può lavare una simile vergogna, stabilisce la sentenza. Mentre la condanna viene eseguita, un incendio divora Mahagonny; in preda a una sorta di follia, gli abitanti sfilano in cortei di protesta con cartelli che si contraddicono a vicenda, ineggianti gli uni all’ordine gli altri alla libertà: la fine di Jim è anche quella della città.

Il debutto avvenne a Lipsia nel 1930 con grande scandalo (lo scopo di épater les bourgeois fu pienamente ottenuto), ma venne presto bandita dai nazisti e si dovranno aspettare gli anni ’60 per rivederla sulla scena. Nel 1974 l’opera arriva negli U.S.A. nella traduzione in inglese di Michael Feingold ed è in questa versione che viene curiosamente proposta al pubblico madrileno del Teatro Real nel 2010 con la sobria (rispetto a quello che ci ha fatto vedere altre volte) messa in scena de La Fura dels Baus in cui una discarica di rifiuti occupa il palcoscenico e dove i personaggi vengono scaricati assieme ai sacchi di immondizia, simbolo della loro sporcizia morale. Questa volta nella regia di Pedrissa e Ollé non ci sono proiezioni, videografica e acrobazie.

In questa produzione si evidenzia uno degli aspetti di Mahagonny, quello cioè di opera che mette in satira l’opera lirica e ne denuncia l’irrazionalità (sia Brecht che Weill pensavano che il genere fosse diventato un rito senza significato). Qui i suoi temi sono sovvertiti e portati al grottesco: l’amore è una merce di scambio, la legge è gestita dai criminali, la pena è inversamente proporzionale alla gravità del reato – l’omicidio è punito con sei giorni di detenzione mentre tre bottiglie di whisky non pagate portano Jimmy alla pena di morte – essendo il crimine peggiore quello di non avere soldi.

Mahagonny è soprattutto una parabola del capitalismo: la città di Mahagonny nasce per fornire utili servizi, ma poi porta alla distruzione i suoi abitanti con la corruzione e la violenza, temi di drammatica attualità anche oggi. Ambientata in un immaginario Far West, questa Las Vegas sorta nel deserto è popolata di prostitute, tagliaboschi, cercatori d’oro e criminali di ogni specie.

Dal punto di vista musicale in questa produzione si sono perse le asprezze sonore delle prime edizioni che conosciamo dai dischi. I cantanti qui sono tutti professionisti del bel canto: Michael König, Jane Henschel, Willard White e gli altri sono bravi sia vocalmente che scenicamente, ma non hanno la ruvidità dei primi interpreti, che erano infatti più attori che cantanti. Quello di Jenny è il caso più evidente: qui Measha Brueggergosman con la sua voce di soprano lirico è ben lontana dalla cruda sensualità delle grandi interpreti Lotte Lenya e Gisela May, in cui si evidenziava quell’effetto di straniamento richiesto dal teatro di Brecht. Il testo è “troppo ben cantato” e l’uso dell’inglese invece dell’originale tedesco ne accentua l’effetto lasciando solo all’immagine la forza della denuncia.

Eccellente la concertazione del trentaduenne Pablo Heras-Casado che domina l’orchestra anche nei momenti di maggior stanchezza della partitura.

La regia video privilegia i primi piani con il sudore dei cantanti. Sottotitoli in quattro lingue, ma non in italiano e nessun extra.

(1) Alfred Einstein sul Berliner Tageblatt all’indomani della prima.