
∙
Kurt Weill, Ascesa e caduta della città di Mahagonny
★★★★☆
Londra, Royal Opera House, 1 aprile 2015
(live streaming)
«Wir brauchen keinen Hurrikan,
wir brauchen keinen Taifun,
denn was er an Schrecken tuen kann,
das können wir selber tun»
Il messaggio di Brecht è profeticamente e tragicamente d’attualità oggi: «Non abbiamo bisogno di tifoni, | non abbiamo bisogno di uragani, | il terrore e la distruzione che scatenano | ce li procuriamo noi stessi»
Il titolo dello spettacolo è in inglese perché in questa lingua è stato tradotto il testo di Bertolt Brecht nel suo primo allestimento alla Royal Opera House. Che contrasto fra i velluti e gli ori della sala del Covent Garden e il crudo messaggio «dell’opera che non poteva essere rappresentata all’Opera»!
Una traduzione inglese era stata la scelta anche della produzione de La Fura dels Baus a Madrid nel 2010 e come per quella edizione valgono qui le stesse riserve: la lingua tedesca originale si adatta meglio alla musica e alla violenza del libretto e anche qui come là ci sono delle voci fin troppo “educate” rispetto a quelle “aspre” dei primi interpreti, come le aveva volute il compositore Kurt Weill per ricreare il cabaret tedesco anni ’20.
La svedese Anne Sofie von Otter abbandona Gluck, Mozart, Strauss e Mahler per calarsi nei panni, e parrucca bicolor, di Leocadia Begbick, la spietata fondatrice e tenutaria di quel gran bordello che è Mahagonny, incarnazione delle bibliche Sodoma a Gomorra. Willard W. White ritorna a interpretare il Trinity Moses di Madrid, ma è la Jenny di Christine Rice la più convincente, straziante com’è il contrasto tra quella voce di velluto e quella parte cinica ben sintetizzata dalla sua “Alabama Song”, ancora oggi una canzone di grande successo.
La direzione di Mark Wigglesworth mette brillantemente in evidenzia sia le asprezze che le ambigue seduzioni cantabili di quel pastiche musicale che è la partitura di Ascesa e caduta della città di Mahagonny e la regia di John Fulljames evidenzia la disperata modernità del lavoro, specchio dell’angoscia dei nostri tempi che, come nel ’29, è in preda ad una crisi che non è solo economica ma anche di valori. Questa allegoria musicale della crudeltà dell’uomo con sé stesso è evidenziata a più riprese dalla messa in scena di Fulljames, che si avvale per la scenografia delle geniali trovate di Es Devlin già ammirate in tanti altri spettacoli. Nella prima parte (atto I) il rimorchio trasportato dai tre fuggitivi si trasforma in container di prostitute, cabina di aereo, palco di Burlesque semplicemente ruotando su sé stesso. Nella seconda parte (atti II e III) un’immane e incombente piramide di container fa da sfondo al processo di Jimmy e alla sua esecuzione. Proiezioni di videografica, oramai sempre più comuni sulle scene delle opere liriche, completano visivamente lo spettacolo.
⸪