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Kurt Weill, Ascesa e caduta della città Mahagonny
Berlino, Komische Oper, 2 ottobre 2021
(registrazione video)
«Es gibt keine Wiederkehr»: Mahagonny, operetta senza speranza
Non sceglie la via facile Barrie Kosky per mettere in scena Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny. Nelle sue mani diventa un moderno morality play, come il secondo atto di Moses und Aron, l’opera incompiuta di Schönberg che veniva composta in quegli stessi anni, con gli ebrei nel deserto che costruiscono una città dove alcol e sesso sono a buon prezzo. Sono infatti un rabbino e un prete i compari della vedova Begbick che in una landa desolata fondano questa moderna versione di Sodoma e Gomorra. Le allusioni all’America del libretto di Brecht qui non hanno riscontro: in scena c’è uno spazio astratto, un cuneo definito dalla scenografia di Klaus Grünberg, le cui pareti sono inizialmente coperte da tende a rete che lasciano il posto a specchi trasformando il palcoscenico in una specie di caleidoscopio.
Kosky fa notare come Bach, Mozart e Mahler siano presenti nella partitura di quest’opera con grande orchestra e coro, un’opera che guarda al futuro per le invenzioni armoniche e dove i duetti di Jenny e Jim potrebbero stare alla pari con quelli di Wozzeck e Marie, con quelle frasi parallele senza mai un momento di contatto, a significare la solitudine irrimediabile dei personaggi. Ma è la parola che è sempre in primo piano con grande attenzione alle parole di Brecht. Ci mancherebbe, si potrebbe dire, ma quante volte il testo è stato solo funzionale alle melodie e ai temi canticchiabili qui ossessivamente ripetuti.
L’approccio del regista è del tutto opposto alla tradizione con cui è sempre rappresentato il teatro di Brecht/Weill, quella che Kosky chiama «park, bark and snark»: piazzati al centro della scena, canta tutto fortissimo e con tono sarcastico, con un certo disprezzo verso gli spettatori. Nel suo caso le immagini hanno una forza straordinaria, quasi terribile: la scena del sesso multiplo con Jenny è straziante proprio perché non vediamo nulla giacché avviene in una buca, come il combattimento di boxe. Nella prima parte i costumi sono i vestiti di tutti i giorni, nella seconda è come se Mahagonny diventasse Las Vegas, con tutti quanti in nero e lustrini, eccetto Jim, il quale attraversa una vera e propria passione: prima è giudicato da un tribunale corrotto, incarcerato, poi gli vengono cavati gli occhi e alla fine giustiziato, pugnalato da tutti quanti, ma non da Jenny. Il finale è spettrale: una scimmia-robot telecomandata, un Golem meccanico, attraversando la scena perde anche lui la lettera aleph delle tre (tav, mem, aleph) che formano la parola “verità” diventando così “morte”. Gli specchi riflettono il cadavere di Jimmy mentre le voci, invisibili e fuori scena, cantano l’ultimo corale.
A capo di una vera orchestra – non quella ridotta dell’Opera da tre soldi – nella sua lettura Ainārs Rubiķis evidenzia la modernità della partitura, un misto di opera seria, canzoni, musica da circo e oratorio, fino ai toni mahleriani del finale. Nadja Mchantaf, la Jenny che offre il sesso con candida innocenza, non ha la voce roca di Lotte Lenya, la prima interprete, ma esibisce al contrario una voce educata che esalta la fredda ingenuità del personaggio. Nessun personaggio è senza colpa in Mahagonny, ma di certo il trio dei fondatori è tra i peggiori moralmente. Ivan Turšić (Fatty) e Jens Larsen (Trinity Moses) non sono un esempio di bel canto e Nadine Weissmann, una spietata vedova Begbick, è spesso sfiatata ma scenicamente efficace. E poi c’è il Jim Mahoney di Allan Clayton, voce bellissima e luminosa in questo scuro inferno. Kosky ne fa il personaggio principale e l’ex corista inglese aggiunge un’altra grande performance alla sua bella carriera.