John Gay

Die Dreigroschenoper

Kurt Weill, Die Dreigroschenoper (L’opera da tre soldi)

Amburgo, St. Pauli-Theater, 8 gennaio 2004

(registrazione televisiva)

Brecht a St. Pauli

Il testo di Bertolt Brecht Die Dreigroschenoper è del 1928 e si ispira a The Beggar’s Opera (L’opera del mendicante) che il drammaturgo e poeta John Gay aveva scritto nel 1728 e rappresentato con le musiche di Johann Christoph Pepusch. Nei tre atti si sviluppa la vicenda dei membri della famiglia Peachum, “imprenditori” del malaffare a Londra: ladri, prostitute, ma anche mendicanti devono dare una percentuale dei loro guadagni a Mr. Peachum, che quando non ha più bisogno dei loro servizi li consegna alla polizia ricavandoci ancora soldi per la ricompensa.

Prologo. Un cantore (aggiornamento novecentesco del menestrello) intona a mo’ di presentazione la Ballata di Macheath.
Atto primo. Peachum, organizzatore di una vasta rete di finti accattoni londinesi, viene a scoprire la relazione che lega la figlia Polly a Macheath (detto Mackie Messer) e monta su tutte le furie; ciò non impedisce ai due di sposarsi ugualmente e di meditare sul futuro della banda, di cui Mackie non pare molto soddisfatto. Tra gli invitati giunti a congratularsi c’è anche Brown, il capo della polizia, impegnato nei preparativi per la festa imminente dell’incoronazione; la scena termina con il duetto d’amore di Polly e Mackie rimasti soli mentre cala la notte.
Atto secondo. Intanto Peachum è deciso a eliminare l’indesiderato genero con mezzi legali, ossia denunciandolo; sua moglie sospetta che se ne stia nascosto e protetto presso alcune prostitute di antica conoscenza; Polly avvisa Macheath del pericolo e lo esorta a fuggire, impegnandosi a guidare personalmente la banda; tradito da Jenny, Macheath finisce ugualmente in cella, dove non si perde d’animo, sicuro com’è che qualche donna certamente lo aiuterà a tornare libero. Si presentano davanti alla prigione Polly e Lucy, quest’ultima (figlia di Brown) a sua volta segretamente sposata al fedifrago recluso, che ispira alle due donne uno sfogo di gelosia. Polly viene poi allontanata a viva forza dalla prigione per intervento della madre, inopinatamente ricomparsa; rimasta sola, Lucy riesce a far evadere Macheath.
Atto terzo. Peachum passa al contrattacco e predispone un piano con cui sabotare il regolare svolgimento della festa dell’incoronazione intrecciandovi una controproducente sfilata di (finti) accattoni; arrestato da Brown, lo minaccia di rivelare i loschi legami che lo vincolano al bandito; messo in tal modo con le spalle al muro, Brown fa ricercare Macheath (è Peachum stesso a fornirgli tutte le indicazioni necessarie) e lo fa arrestare. Il malvivente aspetta ormai l’esecuzione della condanna capitale; suonano le campane di Westminster e Macheath viene portato via; ma invece della notizia della sua morte arriva quella della sopravvenuta grazia, corredata per graziosa intercessione della regina della donazione di un castello e di un titolo nobiliare; ma l’ultima parola spetta a Peachum, che invita a non prestar fede al lieto fine, perché nella realtà le grazie arrivano molto raramente, soprattutto se a ribellarsi sono i deboli.

«Die Dreigroschenoper racchiudeva, al suo apparire, una carica provocatoria dirompente, ben avvertibile proprio attraverso il suo rapporto con l’originale, mantenuto su termini che smentivano la benché minima intenzione ‘neoclassica’; la cantabilità apparentemente corriva maschera un’aggressività neanche troppo latente e l’abbordabilità dei temi ridipinge con la vernice illusoria della rispettabilità le infami malizie dei protagonisti, inquietanti proprio per la loro scaltrita arte di dissimulazione. Theodor Wiesengrund Adorno ebbe a mettere in guardia contro un’interpretazione in chiave ‘operettistica’ della Dreigroschenoper; infatti per Weill la canzonetta ha un valore puramente funzionale, che non basta in alcun modo a relegare il lavoro nei ranghi del teatro leggero. Abbandonare il consueto pathos operistico in favore del ‘banale’, oppure abdicare alle arie canoniche per confezionare perfette imitazioni di musichette da cabaret, comportava essenzialmente una liberazione dal coinvolgimento psicologico tipico del teatro tradizionale, per l’artista come per l’ascoltatore. Ma il fine di questo anomalo Songspiel (così era stato battezzato il precedente Mahagonny, concepito anch’esso, nella versione originale, come sequenza di canzoni) non era certo solo quello di sconcertare il pubblico; il fatto è che sotto la dolcezza accattivante delle ariette si celano i malefici tranelli di Macheath e di Peachum, sotto l’apparente stupidità vengono occultate le malizie più proditorie. Le canzoni, che obbediscono a un calco stilistico magistralmente ‘reinventato’ da Weill e non sono quindi basate su temi preesistenti, assolvono a una funzione di ‘schermo’, celando dietro la loro benevola superficie l’ipocrisia reale dei protagonisti e della società che in esse viene adombrata». (Elisabetta Fava)

Se Pepusch aveva orchestrato delle ballad popolari per l’opera di Gay, qui è Kurt Weill a scrivere delle canzoni per il Theaterstück di Brecht. Attingendo al repertorio della musica del cabaret tedesco del tempo, le melodie di Weill hanno varcato la soglia dei teatri per diventare degli standard della musica popolare. Una per tutte la “Canzone dei Pirati” di Jenny, che è stata interpretata, fra le tante, da Lotte Lenya, Milly, Milva, Ute Lemper e Nina Simone.

Nel 2004 il lavoro di Brecht/Weill viene messo in scena ad Amburgo, al St. Pauli. Nel quartiere dietro al teatro fiorisce il più antico commercio del mondo nelle sale da gioco d’azzardo, negozi di erotismo, pub e club. Povera gente, violenza, dirigenti corrotti, riciclaggio di denaro sporco, crisi economica: il libretto di Brecht non è mai stato tanto attuale, tuttavia, il regista Ulrich Waller resiste alla tentazione di adattare lo spettacolo al quartiere di Amburgo, di modernizzarlo. […] L’ex regista di Kammerspiele presenta lo spettacolo davanti a scenografie scarne e in costumi tradizionali. Si fida dell’attualità ininterrotta del testo di Brecht, vecchio di 75 anni, e si affida soprattutto, giustamente, ai suoi grandi attori: Christian Redl ed Eva Mattes incarnano la coppia Peachum con grande arguzia; Ulrich Tukur interpreta Mackie Messer nei panni di un elegante teppista dai tratti leggermente chapliniani e si sente visibilmente a suo agio in questo ruolo; Stefanie Stappenbeck è convincente nel ruolo dell’ingenua Polly Peachum; Maria Bill si diletta nel ruolo di Jenny, soprattutto con il suo canto, e il capo della polizia Brown è ritratto da Peter Franke». (Petr Jerabek, Neue Musikzeitung)

Matthias Stötzel dirige la smilza orchestrina, Götz Loepelmann disegna gli scenari e Ilse Welter i costumi. Lo spettacolo è registrato e trasmesso dalla Norddeutscher Rundfunk.

 

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The Beggar’s Opera

John Gay, Johann Christoph Pepusch, The Beggar’s Opera

★★★★☆

Novara, Teatro Coccia, 27 ottobre 2018

Barock musical

Torino non si può permettere Robert Carsen. Novara sì.

Il suo spettacolo, nato sulle tavole del Théâtre des Bouffes du Nord parigino, ha girato quasi tutta la Francia e dopo essere passato da Edimburgo, Spoleto e Pisa approda ora tra i velluti del Teatro Coccia per far rivivere uno dei più popolari lavori del XVIII secolo: The Beggar’s Opera (1728, L’opera del mendicante), 62 repliche consecutive alla prima e 1463 (!) alla ripresa quasi due secoli dopo al Lyric Theatre di Londra.

Difficile anche da definire – ballad opera è il termine più preciso – si tratta di un’opera satirica ideata dal poeta e drammaturgo inglese John Gay (1685-1732) per mettere alla berlina la corruzione, l’avidità, il crimine e le disuguaglianze sociali della sua Londra. Il fatto che il soggetto sia perennemente d’attualità è alla base dal suo successo in tutte le epoche, fino ad arrivare ai nostri giorni dopo essere passato attraverso la rilettura che ne fece Bertolt Brecht nel 1928 come Die Dreigroschenoper (L’opera da tre soldi) con le accattivanti musiche di Kurt Weill. Nel lavoro di Gay le musiche utilizzate erano invece quelle di ballate e arie popolari arrangiate per l’occasione da Johann Christoph Pepusch.

E questo è l’elemento più difficile da rendere nelle moderne produzioni: gli oltre sessanta numeri musicali che farciscono la cinica vicenda erano brani musicali estremamente popolari all’epoca e il principale motivo di divertimento era proprio l’effetto di un nuovo testo cantato su melodie ben conosciute. L’unico esempio che si può invocare per capirne il meccanismo è quello delle parodie televisive del Quartetto Cetra che negli anni ’70 del secolo scorso portavano sul piccolo schermo le vicende di Traviata, Tosca, Turandot o Otello con i motivi delle canzonette più in voga allora al posto di romanze, arie e cabalette!

Non potendo sfruttare lo straniamento musicale, in questa produzione di Beggar’s Opera viene giocata la carta dell’attualizzazione del linguaggio: Ian Burton e Robert Carsen riscrivono la storia della famiglia Peachum utilizzando una lingua attuale che non si tira indietro quando deve usare i termini crudi ed espliciti che ci aspettiamo sulle bocche di ladri, papponi, spacciatori e prostitute.

Per contrasto le semplici melodie sono affidate ai raffinati strumentisti dell’Ensemble Les Arts Florissants, sì quello di William Christie che ne ha curato l’ideazione musicale e che a Novara è stato sostituito da Florian Carré alla conduzione e al clavicembalo (ancora inscatolato…). Nove giovani musicisti si sono destreggiati con altrettanti strumenti d’epoca o ricostruiti secondo la prassi storica: due violini, un violino contralto, un violoncello, un contrabbasso, un flauto traverso, un oboe, un arciliuto e percussioni. A loro agio in questo repertorio, i talentuosi strumentisti hanno perfettamente colto lo spirito e si sono esibiti in improvvisazioni ed imitazioni musicali che hanno dato colore alle ingenue melodie sommariamente annotate da Pepusch e quindi da completare e reinventare quasi come nel jazz. Alcuni di questi tunes sono anonimi, altri di autori quali Purcell e soprattutto Händel, del cui stile operistico questo lavoro voleva essere una neanche troppo benevola presa in giro.

A sipario aperto vediamo in scena una parete di scatoloni e un senzatetto che dorme per terra. Al suono lancinante di una sirena della polizia entrano in scena correndo dei giovani con scatole da cui traggono fuori i loro preziosi strumenti. Appoggiati i tablet su leggii improvvisati attaccano l’ouverture cui segue la solenne musica del corale  «Through all the employments of life | each neighbour abuses his brother» (Nella vita ognuno truffa il proprio vicino). Il contrabbassista ha la felpa col cappuccio abbassato sugli occhiali da sole, il primo violino ha una tuta da ginnastica e il berretto da baseball con la visiera all’indietro.

Dai cantanti in scena non possiamo aspettarci voci liricamente impostate: i sedici interpreti provengono dal musical, dove le voci sono amplificate. Qui no e la mancanza di proiezione si sente quando sono lontani dal proscenio. Ma non è quello che conta. La presenza scenica è ampiamente collaudata e tutti si dimostrano convincenti: recitano, cantano, ballano e fanno acrobazie con grande agilità. Segnaliamo almeno il cinico Mr Peachum di Robert Burt; la Mrs Peachum di Beverley Klein con i suoi volgari outfit leopardati, la bottiglia di gin e il selfie con l’impiccato; la Polly di Kate Batter e il Macheath di Benjamin Purkiss.

Qui sono i politici inglesi pre-Brexit a fare le spese di questa feroce satira, ma quando nel falso happy ending Macheath non solo viene salvato dall’impiccagione ma diventa Ministro della Giustizia del nuovo governo assieme ai componenti della banda di spacciatori e papponi insigniti degli incarici di Segretario di Stato preposto alla Disoccupazione e di Ministro dei Beni Culturali, a noi italiani passa la voglia di ridere.

(photo © Patrick Berger)

Acis and Galatea

 

Georg Friedrich Händel, Acis and Galatea

★★★☆☆

Dublino, O’Reilly Theatre, 11 aprile 2017

Ninfe e pastori al pub

Nei paesi anglosassoni Händel non è quell’autore paludato e parruccone come viene rappresentato al di qua delle Alpi quando, molto raramente, viene messo in scena. Anche a Dublino il caro sassone è trattato sì con rispetto, ma con la disinvoltura con cui si tratta un vecchio amico. La favola pastorale Acis and Galatea (1718, rifacimento della giovanile Aci, Galatea e Polifemo data nel 1708 a Napoli) è ambientata dal regista Tom Creed in un bar irlandese di oggi per l’Opera Theatre Company in una produzione itinerante per l’Irlanda. Questo spettacolo è stato registrato nella capitale al teatro O’Reilly.

A capo della smilza Irish Baroque Orchestra c’è uno specialista, Peter Whelan e in scena degli efficaci interpreti poco noti all’estero: Eamonn Mulhall, Susanna Fairbarn, Edward Grint e Andrew Gavin (rispettivamente, Acis, Galatea, Polyphemus e Damon). Altri quattro cantanti formano il coro di ninfe e pastori, qui degli operai che alla fine della giornata si tolgono la tuta da lavoro per rifocillarsi con una Guinness al locale pub gestito da Galatea e Damon, ricostruito fedelmente sulla solita piattaforma rotante (la scenografia è di Paul O’Mahony) che ci permette di vedere interni, retrobottega ed esterni del locale.

L’ambientazione pastorale (country, in inglese) diventa qui un “country pub” dove gli stivali, le camicie a scacchi e i cappelli da cowboy dei costumi di Catherine Fay trasformano la serenata in un film western con il cattivo che entra nel saloon armato non di una pistola, ma di un mattone… D’accordo che la vicenda dell’amore contrastato di due giovani non ha tempo, ma il divario tra il testo di John Gay e quello che vediamo diventa spesso sconcertante e far credere che la barista di un modesto pub abbia poteri divini tali da trasformare il cadavere dell’amato in una fonte è impresa dura. Per non parlare del mostruoso gigante Polifemo, qui un attraente giovane barbuto. Per di più ci si aspetta sempre un qualcosa di inedito dalla regia di Creed, ma inutilmente. Non c’è nessun colpo di scena che venga a movimentare l’andamento lineare, per non dire prosaico, della lettura registica.

Invece della country music, logicamente di casa, ci sono le belle musiche di Händel del tutto decontestualizzate e non particolarmente esaltate dal minuscolo strumentale e da una concertazione senza colore.

L’opera da tre soldi

 

 Kurt Weill, L’opera da tre soldi

★★☆☆☆

Milano, Piccolo Teatro Strehler, 19 aprile 2016

Michieletto si fa in tre

È incredibile che non esista neppure una registrazione audio recente di quella che è l’opera più scandalosamente rivoluzionaria della prima metà del secolo scorso. Innumerevoli sono stati gli allestimenti in tutto il mondo e solo in Italia, a partire dalla prima rappresentazione del 1956 al Piccolo Teatro di Milano con la regia di Giorgio Strehler, se ne sono succedute innumerevoli altre fino ad arrivare a quella di Massimo Ranieri e Lina Sastri al Napoli Teatro Festival del 2012 e passando per la lettura di Bob Wilson a Spoleto nel 2008.

Ora Michieletto – che nel frattempo ha allestito il Trittico pucciniano a Roma e prepara la Lucia di Lammermoor a Torino, per tacere degl’impegni all’estero – riporta al Piccolo di Milano, esattamente sessant’anni dopo, Die Dreigroschenoper o meglio L’opera da tre soldi, perché in italiano.

 

La forte carica di condanna del lavoro di Brecht nei confronti degli sfruttatori di tutti i tempi la ritroviamo nella messa in scena del regista veneziano che ha buon gioco a renderne attuale il messaggio: oggi come ieri – più di ieri certo per la quantità – il denaro corrompe, compra anime e corpi, riduce in schiavitù parte dell’umanità. I reietti con il giubbotto salvagente arancione che si arrampicano sulle inferriate che li separano dal banchetto dei ricchi sono di un’attualità che però non disturba più il pubblico moderno – molto meno comunque del pubblico della produzione originale o di quella della Milano di trent’anni dopo. Forse questo è il limite dello spettacolo di Michieletto, che scalfisce le coscienze appena appena: le immagini della realtà sono ben più sconvolgenti di quelle proposte qui sulla scena. Ne è convinta anche Viviana Raciti che su Teatro e Critica scrive: «La carica eversiva che acquisiva quello spettacolo del dopoguerra o dopo nei Settanta, con in mezzo il ‘68, altre guerre, rivoluzioni, tirate più o meno direttamente in causa sulla scena, probabilmente qui arriva un po’ sottotono: il bordello di Jenny ha i fasti dei festini di Arcore, si punta il dito contro le grandi imprese che inglobano i piccoli artigiani (ma Piazza Gae Aulenti non c’entra), i completi dei mendicanti lasciano poi lo spazio per un riferimento ai migranti, dietro le sbarre o dispersi in acqua, arrancanti e appesi i loro giubbotti salvagente ad un filo troppo sottile. Eppure non ci sconvolgiamo, rimaniamo composti in poltrona, semmai canticchiando qualche motivo riconosciuto e amato. Ci aveva accolto Mackie Messer impiccato sul palco all’inizio dello spettacolo, con uno spostamento in avanti rispetto al testo, e quel sogno sembrava farci presagire il dramma dietro la goliardia, insinuando lo stesso riso dianoetico, sghembo, disturbato, senso di nausea mista a volontà propositiva che ricorda chi mi siede accanto. Nella ripresa finale l’esecuzione viene interrotta, finisce tutto bene perché in fondo siamo tutti complici. Forse dovrebbe esser questa la nostra presa di coscienza, siamo troppo accoglienti. Arriva il buffetto, non il pugno allo stomaco, abituati a trovare la mediazione, lasciando, dietro quella illusoria tenda dorata, i morti nell’acqua e il mascalzone nel letto».

Un altro limite è la scelta, comprensibilissima certo, della traduzione italiana (di Roberto Menin e di Michieletto stesso per le canzoni). Ottima traduzione, ma si indebolisce l’impatto che ha l’originale tedesco con quei suoi suoni duri e sibilanti («Und der Haifisch, der hat Zähne | Und die trägt er im Gesicht | Und Macheath, der hat ein Messer | Doch das Messer sieht man nicht…») che si perdono nella dolcezza della nostra lingua. Terzo limite è la presenza di interpreti appassionati ma che non raggiungono mai il livello di professionalità degli attori, ad esempio, della scuola anglosassone dove tutti sanno recitare, cantare, suonare, danzare. Qui sulla scena del Piccolo, ahimè, non tutti arrivano a svolgere con eccellenza almeno una di queste attività. Il Macheath di Marco Foschi ricorda molto Fiorello, ma non nella sua bravura vocale. Beppe Servillo sarebbe un Peachum efficace, seppure affetto da una certa napoletanità, ma quando canta diventa imbarazzante. Non meglio Maria Roveran come Polly. Quella che dimostra una più cosciente teatralità è la Jenny di Rossy de Palma, ma gli anni passano per tutti e calze nere e guêpière possono essere un azzardo. Meglio Giandomenico Cupaiuolo, il cantastorie, che trova il giusto accento per rendere le ballate di Weill.

Giuseppe Grazioli ricostruisce la partitura originale: fiati, contrabbasso, chitarre, banjo, mandolino, percussioni e un pianoforte formano la smilza orchestra dai suoni ora secchi ora suadenti che accompagnano con “leggerezza” il “pesante” messaggio del testo.

Il fidato Paolo Fantin ricostruisce la prigione/tribunale in cui è ambientata la vicenda che inizia subito con l’esecuzione di Macheath, ma nel vero (?) finale il malvivente è salvato dal “messo reale”, qui con una valigetta piena di soldi per corrompere il giudice, dalla quale valigetta vengono sparate le banconote su cui si gettano tutti avidamente.

Pubblico delle grandi occasioni, ma sorprende e delude che gli unici momenti in cui si siano sentite delle risate è quando in scena si dicono delle parolacce (le traduzioni in italiano non sembra possano farne a meno): anni di cattivo cinema e televisione hanno lasciato il segno su certi spettatori.

The Beggar’s Opera

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★★★★☆

L’opera settecentesca di maggior successo

Tra il 1720 e il 1728 sulle scene del King’s Theatre di Londra furoreggiano le opere di Georg Friedrich Händel – George Frideric Handel da quando è sbarcato in Inghilterra. Ben 14, tra cui Giulio Cesare, Tamerlano, Rodelinda e Admeto. Ma il 1728 si apre con la rappresentazione di una ballad opera al Lincoln’s Inn Field Theatre il 29 gennaio cui seguiranno ben 61 repliche consecutive a testimoniare l’enorme popolarità di quella che è stata definita l’opera settecentesca di maggior successo, The Beggar’s Opera (L’opera del mendicante) prodotta da John Rich, scritta da John Gay e con le musiche raccolte e arrangiate da Johann Pepusch. È il lavoro che avrebbe reso «Rich very gay and Gay very rich», come scrisse il settimanale “The Craftsman” il 3 febbraio. (1) L’arguzia del testo, il dialogo brillante, la piacevolezza delle ballads ebbero la meglio sulle riserve preconcette del pubblico.

John Gay aveva prodotto sia poesie che opere in prosa ed era uno dei tanti drammaturghi inglesi che scrivevano per le scene dei teatri londinesi. Il suo intento con The Beggar’s Opera fu quello di mettere alla berlina il potere corrotto del primo ministro Walpole e allo stesso tempo prendersi gioco del modello operistico händeliano. Il primo obiettivo andò a segno, tant’è che il successivo suo lavoro, Polly, non andò in scena per espresso veto del politico suddetto e sul secondo basti a dimostrarlo la parodia della marcia del Rinaldo nel II atto. Qui sulla scena non ci sono eroi ed eroine del passato, bensì figure appartenenti al livello sociale più basso e dei sobborghi più malfamati della Londra dell’epoca: malviventi, corrotti, mendicanti, prostitute. Con lo stesso intento agivano Alexander Pope e Jonathan Swift in letteratura e in pittura William Hogarth.

Introduzione. Il mendicante espone al capocomico la sua opera che sta per andare in scena.
Atto I. Il ricettatore Peachum si presenta: «La professione dell’avvocato è onesta quanto la mia: entrambi lavoriamo grazie ai delinquenti. Per questo è bene incoraggiarne i crimini, giacché entrambi guadagniamo su quelli». Peachum apprende che la figlia Polly ha sposato segretamente il giovane bandito Macheath, idolatrato da tutte le donne della città. Nel timore che il genero possa danneggiare i suoi loschi affari, Peachum prepara il suo arresto, anche perché così la figlia potrà goderne l’eredità.
Atto II. Macheath è in una taverna in compagnia delle sue prostitute da cui viene tradito perché pagate da Peachum e viene portato in prigione, ma riesce a fuggire aiutato da Lucy, una sua ex amante e figlia del carceriere Lockit
Atto III. Macheath viene ripreso e questa volta sta per essere giustiziato tra il pianto delle sue donne. Sopraggiunge il mendicante che, su consiglio del capocomico, libera Macheath perché «an Opera must end happily»: in questo genere di dramma non c’è mai nulla di troppo assurdo e un finale diverso avrebbe dimostrato una morale troppo giusta, e cioè che poveri e ricchi sono tutti viziosi, ma che sono sempre i poveri a pagare.

The Beggar’s Opera è una pièce in prosa infarcita di 69 brevi arie in forma di ballad e melodie ben note prese dalla tradizione popolare e adattate da Johann Pepusch, compositore tedesco che come Händel trascorse gran parte della sua vita artistica in Inghilterra dove fu tra i fondatori della Academy of Vocal Music, poi diventata Academy of Ancient Music.

Nelle vecchie edizioni discografiche, come quella diretta da Sir Malcom Sargent nel 1955, la parte recitata era affidata ad attori e quella cantata a cantanti (Elsie Morison, John Cameron e Monica Sinclair ad esempio nell’edizione citata). Ma non essendo le parti vocali di particolare difficoltà, ora è più comune affidare agli attori anche le arie. Così è infatti in questa edizione televisiva della BBC nel 1983 diretta di Sir John Eliot Gardiner con la messa in scena di Jonathan Miller.

La cura particolare per costumi e ambienti, oltre che la leggendaria professionalità degli attori inglesi, contraddistinguono questa produzione ora in DVD. Per la parte di Macheath è stato scelto Roger Daltrey, leader del gruppo rock The Who, mentre come mendicante c’è Bob Hoskins. La versione di Gardiner è particolarmente gradevole e rispettosa dello stile dell’epoca.

Immagine ovviamente in 4:3 e sottotitoli in inglese che stranamente sono molto diversi da quello che viene detto e cantato.

(1) Negli anni ’20 del secolo scorso una ripresa del lavoro al Lyric Theatre di Hammersmith arrivò allo stupefacente numero di 1463 rappresentazioni. Sull’onda di quel fenomeno teatrale, nel 1928 Kurt Weill e Bertolt Brecht concepirono la loro Dreigroschenoper (L’opera da tre soldi), liberamente ispirata dal lavoro di Gay e Pepusch.

Acis and Galatea

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★★★☆☆

Per gli amanti del balletto

Masque, pastorale, serenata, oratorio, “little opera”. Si spre­cano le definizioni per questo lavoro del 1718 creato per una rappresenta­zione privata del Conte di Caernarvon su libretto a tre mani di Gay, Pope e Hughes. Dieci anni prima lo stesso Händel aveva scritto la sere­nata dramma­tica Aci, Galatea e Polifemo, stesso soggetto, tratto dalle Metamorfo­si di Ovi­dio (libro tredicesimo), ma con libretto in italiano e composta dal 23enne musicista durante il suo soggiorno napoletano.

La Royal Opera House di Londra, sempre nel 2009, decide di rappresentare Acis and Galatea affidando al balletto gran parte dell’azio­ne in scena. Il coreografo Wayne McGregor, sua è anche la re­gia, affianca a ogni personaggio uno o due ballerini che contrappuntano con i loro astratti movimenti il canto.

La vicenda è presto raccontata: la ninfa Galatea ama, ricam­biata, il pastore Aci che il perfido Polifemo uccide per fu­riosa ge­losia dopo che la ninfa ha rifiutato le sue sozze profferte. Ad Aci rimane la consolazio­ne di ottenere l’immortalità essendo trasfor­mato in fonte.

Il direttore Christopher Hogwood dirige con la solita sa­pienza l’Orchestra of the Age of the Enlightenment e i suoi stru­menti d’epoca (ma come sembra diversa la stessa orchestra sotto la bacchetta di Wil­liam Christie…). Danielle de Niese, Charles Workman e Paul Agnew cercano di infon­dere vita ai personaggi da pittura arcadica che, soprattut­to nella pri­ma parte, faticano a coinvolgerci. Se avete avuto una giornata pesante o avete la digestione difficile, difficilmente arri­verete svegli alla fine dell’att­o. Ma con il coro che dà inizio al secondo atto le cose cambia­no di colpo e si avverte la zampata del genio teatrale del “caro sassone”. Sui toni dapprima dolenti di «Wretched lovers» si in­nestano i nervosi contrappun­tismi che descrivono con vivezza l’arrivo del gigante Polifemo, la figura più vivace dell’opera, che Händel tratteggia con ironia. Qui però è affidata a un monocorde Matthew Rose (e chissà cosa avrebbe fatto un Bryn Terfel di que­sto ruolo).

L’attenzione va tutta ai bravissimi ballerini: l’intenso Ed­ward Watson e l’eterea Lauren Cuthbertson nei ruoli dei prota­gonisti, ma di prim’ordine anche gli altri membri del Royal Bal­let, tutti in una calzama­glia color carne che vuole simulare la nu­dità di una condizione di natura senza tempo. Anche la de Niese nel finale mette a profitto le sue abilità coreutiche in un pas de deux con il ballerino Aci. Parrucche e costumi sembrano pescati all’ultimo momento da un trovarobe preso dalla fretta. Che dire altrimenti della bionda trecciona e delle ciocie ai piedi della ninfa? E la mise da spaventapasseri dei due pastori?