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Georg Friedrich Händel, Acis and Galatea
Dublino, O’Reilly Theatre, 11 aprile 2017
Ninfe e pastori al pub
Nei paesi anglosassoni Händel non è quell’autore paludato e parruccone come viene rappresentato al di qua delle Alpi quando, molto raramente, viene messo in scena. Anche a Dublino il caro sassone è trattato sì con rispetto, ma con la disinvoltura con cui si tratta un vecchio amico. La favola pastorale Acis and Galatea (1718, rifacimento della giovanile Aci, Galatea e Polifemo data nel 1708 a Napoli) è ambientata dal regista Tom Creed in un bar irlandese di oggi per l’Opera Theatre Company in una produzione itinerante per l’Irlanda. Questo spettacolo è stato registrato nella capitale al teatro O’Reilly.
A capo della smilza Irish Baroque Orchestra c’è uno specialista, Peter Whelan e in scena degli efficaci interpreti poco noti all’estero: Eamonn Mulhall, Susanna Fairbarn, Edward Grint e Andrew Gavin (rispettivamente, Acis, Galatea, Polyphemus e Damon). Altri quattro cantanti formano il coro di ninfe e pastori, qui degli operai che alla fine della giornata si tolgono la tuta da lavoro per rifocillarsi con una Guinness al locale pub gestito da Galatea e Damon, ricostruito fedelmente sulla solita piattaforma rotante (la scenografia è di Paul O’Mahony) che ci permette di vedere interni, retrobottega ed esterni del locale.
L’ambientazione pastorale (country, in inglese) diventa qui un “country pub” dove gli stivali, le camicie a scacchi e i cappelli da cowboy dei costumi di Catherine Fay trasformano la serenata in un film western con il cattivo che entra nel saloon armato non di una pistola, ma di un mattone… D’accordo che la vicenda dell’amore contrastato di due giovani non ha tempo, ma il divario tra il testo di John Gay e quello che vediamo diventa spesso sconcertante e far credere che la barista di un modesto pub abbia poteri divini tali da trasformare il cadavere dell’amato in una fonte è impresa dura. Per non parlare del mostruoso gigante Polifemo, qui un attraente giovane barbuto. Per di più ci si aspetta sempre un qualcosa di inedito dalla regia di Creed, ma inutilmente. Non c’è nessun colpo di scena che venga a movimentare l’andamento lineare, per non dire prosaico, della lettura registica.
Invece della country music, logicamente di casa, ci sono le belle musiche di Händel del tutto decontestualizzate e non particolarmente esaltate dal minuscolo strumentale e da una concertazione senza colore.
⸪