Catone in Utica

10866230_10153210106859742_7169415138989299341_o.jpg
Giovanni Battista Piranesi, Via Appia e via Ardeatina, 1756

Leonardo Vinci, Catone in Utica

★★★★★

Versailles, Théâtre Royal, 19 giugno 2015

«Veni, vidi, vici»: in Vinci Franco Fagioli rinverdisce i fasti dell’opera barocca

Dopo il trionfo dell’Artaserse si fa il bis con il Catone in Utica, sempre di Leonardo Vinci. Ossequenti al decreto del 1588 di papa Sisto VI, anche sulle tavole de l’Opéra Royal di Versailles sono bandite le donne ed ecco che dei cinque controtenori di Artaserse due si ripropongono anche in questa nuova produzione (Franco Fagioli e Max Emanuel Cenčić) assieme alle new entry Ray Chenez e Vince Yi e ai tenori Martin Mitterrutzner e Juan Sancho, quest’ultimo nel ruolo del titolo.

L’allestimento ha debuttato a Wiesbaden a fine maggio e dopo Versailles si trasferirà a Bergen, Bucarest e a Vienna. Come nel caso dell’altro spettacolo, non c’è pericolo che valichi le Alpi a turbare le italiche platee.

Catone in Utica di Vinci è una rarità sulle scene: l’ultima volta era stata diretta da Rinaldo Alessandrini a Lugo di Romagna nel 1987, ma è la prima volta che viene data in terra di Francia e con un cast tutto al maschile.

La prima delle innumerevoli intonazioni del testo metastasiano (la più nota è quella di Vivaldi del 1737), questa del Vinci viene presentata il 19 gennaio 1728 al romano Teatro delle Dame di cui il futuro Poeta Cesareo era gestore artistico. Il libretto recupera l’elegia La morte di Catone scritta dal Metastasio in giovane età, ma l’inusuale quartetto del terzo atto e il finale con svolgimento tragico, la morte, appunto, di Catone, non piacquero al pubblico che si sfogò con motti irriverenti e pasquinate. Neanche l’Algarotti, amico e ammiratore del poeta, risparmiò la sua ironia: «Dover di Vinci in sui bemolle or ora | con lunghi trilli e florida cadenza | sua morte gorgheggiar Porzio Catone».

Atto primo. A Utica, ultimo baluardo della libertà repubblicana, Catone si è raccolto con i pochi uomini che gli sono rimasti. Benché Cesare voglia parlargli, dispera che possa abbandonare la sua posizione ormai prodromica alla nascita di un impero. Manifesta le sue preoccupazioni all’amico principe numida Arbace e alla figlia Marzia; in questo contesto Arbace chiede con successo a Catone la mano di Marzia, così da condividere più da vicino la causa romana di Catone e sposare la donna amata. Rimasta sola con Arbace, Marzia gli chiede di ritardare il matrimonio di un giorno. È infatti segretamente innamorata di Cesare, il quale nel frattempo incontra Catone, impetrando un’amicizia che questi reputa inaccettabile. Emilia, vedova di Pompeo, domanda a Fulvio, suo spasimante e vecchio compagno di Pompeo – ora divenuto fido alleato di Cesare -, di uccidere il dittatore, ritenuto responsabile della morte del marito. Dopo un breve incontro tra Cesare e Marzia, in cui il condottiero si dimostra pronto ad anteporre l’ammirazione per Catone al loro amore, l’Uticense preme affinché si celebrino le nozze. Arbace riesce a differirle adducendo improbabili pretesti.
Atto secondo. Fulvio reca a Catone un foglio in cui il senato, a nome anche del popolo romano, gli intima di accettare la pace con Cesare; Catone però rifiuta sdegnosamente. Convinto infine dagli Uticensi a parlare con il nemico, stabilisce che la pace si farà solo se Cesare rinuncerà al potere e si farà incarcerare. Il condottiero abbandona allora i propositi di pace mentre Marzia, ormai messa alle strette da Arbace ed Emilia – la quale ha intuito la verità -, confessa verso chi si rivolge il proprio amore. Catone intende ripudiarla, Arbace è combattuto tra rabbia e amore, Emilia preme affinché l’affronto sia punito.
Atto terzo. Cesare si dirige verso il campo di battaglia, ma Fulvio lo avverte di un agguato che Emilia prepara nei suoi confronti e lo convince a percorrere una via segreta. In seguito Cesare incontra Marzia, la quale lo prega di non seguirla e pensare a sé, mentre lei raggiungerà il fratello al porto per fuggire. Subito dopo manda Arbace da lei affinché ne assicuri la salvezza. Quando però intraprende il cammino suggerito, Cesare non trova via d’uscita; in compenso si palesa Emilia con un seguito di uomini armati. Ingannato Fulvio con false rivelazioni, l’ha indotto a condurre Cesare in trappola. Anche Marzia esce allo scoperto, poi arriva Catone. La trama di Emilia viene così vanificata e Fulvio, giunto con altri uomini, annuncia che l’esercito di Cesare si è impadronito di Utica. Conscio che non si sono più speranze, Catone si trafigge con la spada. La figlia implora il suo perdono, accordato solo dopo che la fanciulla ha giurato eterna fede ad Arbace ed eterno sdegno a Cesare. Morente, Catone predice a Cesare la sua morte violenta, mentre questi si dispera della morte di un eroe verso il quale nutre ammirazione, e getta il lauro.

In effetti se la vicenda può essere desunta storicamente da Plutarco, non mancano le fantasiose elaborazioni nel caso dei personaggi inventati allo scopo di vivacizzare l’intreccio. Oltre a Catone e a Cesare, abbiamo dunque Marzia (figlia di Catone e amante occulta di Cesare), Arbace (principe di Numidia, amico di Catone e amante di Marzia), Emilia (vedova di Pompeo) e Fulvio (legato del Senato Romano del partito di Cesare e amante di Emilia).

Lo stesso tema della contrapposizione tra la Roma repubblicana e quella imperiale Vinci l’aveva già messo in musica nel suo Silla Dittatore cinque anni prima: là era Domizio contro Silla, qui Catone contro Cesare. E anche là la vicenda era complicata dall’amore della figlia del paladino della repubblica per il suo avversario. Una lettura allegorica della vicenda vede il vecchio repubblicano come rappresentante dell’Italia delle città stato (Venezia e Genova) contro l’imperialismo asburgico (Milano e Napoli) con Marzia rappresentante il papato che cerca di mediare tra le due fazioni.

La distribuzione della prima rappresentazione riuniva il tenore fiorentino Giovanni Battista Pinacci «virtuoso di sua altezza serenissima il signor principe d’Armstat» (Catone), il castrato Giovanni Carestini detto il Cusanino «virtuoso di sua altezza serenissima il signor duca di Parma» (Cesare), il castrato Giacinto Fontana detto il Farfallino (Marzia), Giovanni Battista Minelli castrato contralto bolognese «virtuoso di sua altezza serenissima il signor principe d’Armstat» (Arbace), il castrato Giovanni Ossi «virtuoso di sua eccellenza il signor principe Borghese» (Emilia) e Filippo Giorgi (Fulvio).

Le venticinque arie e il quartetto si alternano a lunghi recitativi che vengono ridotti nella messa in scena (mancano quasi 50 minuti rispetto alla registrazione in studio appena uscita in CD). Cionondimeno con gli intervalli lo spettacolo supera abbondantemente le quattro ore. La lunghezza e complessità dei recitativi ha un indubbio vantaggio: rende ancora più preziosi i momenti melodici delle arie, qui magnificamente varie nei colori e negli affetti.

Nonostante il titolo, il mattatore della serata è Cesare, il cui ruolo infatti era stato assegnato al Cusanino: sue sono le arie più ricche di colorature e Franco Fagioli è perfettamente a suo agio nelle “invenzioni” delle riprese, con variazioni sempre magnificamente in stile e ogni volta diverse e una voce che passa con continuità attraverso tutte le tre ottave in cui sviluppa la sua prodigiosa vocalità. Il pubblico non si stanca di acclamarlo rinnovando, trecento anni dopo, gli entusiasmi per i castrati.

Per la seconda volta in poco tempo vediamo i disegni del Piranesi utilizzati in uno spettacolo lirico: era stato il caso delle sue prigioni per il sulfureo Benvenuto Cellini visto ad Amsterdam, sono ora le sue vedute con rovine romane qui a Versailles per la scenografia di Markus Meyer il quale disegna anche i costumi: in elegantissimo nero e argento quelli di Catone e della figlia Marzia, in rosso e oro quelli di Cesare e Fulvio. Un caso a parte è quello di Emilia, la vedova impegnata a vendicare l’uccisone del marito Pompeo. Il sopranista coreano Vince Yi non aveva fatto una buona impressione su CD con quella sua voce da bambina, ma sulla scena invece, e qualche mese dopo l’incisione discografica, la vocalità è migliorata, il timbro meno esile e quella sua insolita presenza dà un tocco quasi surreale al personaggio che esprime con la stessa intensità la sua sete di vendetta e le sue pulsioni erotiche verso il messo romano. Il collare di piume nere scelto dal costumista dà alla sua Emilia un’aria da pennuto impazzito perfettamente in linea con le agilità e gli acuti richiesti dalle sue arie che hanno sì l’andamento dolcemente cullante della scuola napoletana, ma che prefigurano serve padrone pergolesiane altrettanto determinate.

Cenčić, l’inesausto impresario di queste avventure barocche, nonostante un’indisposizione ha generosamente accettato di andare in scena e anche se sono mancate l’altra sera i momenti di maggiore agilità, si è potuto apprezzare però ancora meglio il colore caldo della sua voce da mezzosopranista nel ruolo un po’ masochista di Arbace perso d’amore per Marzia. La quale Marzia non ha il contributo di Valer Sabadus del disco, ma si avvale invece del giovane americano Ray Chenez dalla dizione perfettibile e dalla personalità ancora un po’ acerba. Lo stesso si può dire per l’austriaco Martin Mitternutzer, tenore lirico e liederista. Di Juan Sancho non si può che ripetere quanto detto per altre sue interpretazioni: eccesso di temperamento e vocalità non esente da difetti di musicalità.

L’altro trionfatore della serata è stato Riccardo Minasi. Il suo “Pomo d’oro” ha dimostrato le magnifiche possibilità dell’orchestra di strumenti d’epoca. Con il violino il direttore romano conduce infaticabile l’impresa di equilibrare sempre perfettamente le voci in scena e la gloriosa partitura, fatta rinascere con eleganza e verve. Il vigore con cui Minasi e la sua orchestra accompagnano la battaglia del terzo atto lascia poi in ansia per la sorte dei loro delicati strumenti messi a così dura prova.

La regia di Jakob Peters-Messer accompagna con efficacia ed eleganza le entrate e le uscite dei personaggi e porta in scena sei barbuti e scalzi figuranti che interpretano di volta in volta personaggi di contorno (i divertenti portatori del velo da sposa per il continuamente procrastinato matrimonio di Marzia e Arbace), animali (tra cui il pappagallo a cui Cenčić sembra aver rubato le penne per il suo scapolare arcobaleno) oppure oggetti (velieri portati come copricapi, maschere e teschi d’oro).

Vinci si dimostra un grande compositore del Settecento italiano e una figura essenziale per comprendere il bel canto, peccato che nel suo paese continui a essere pressoché sconosciuto.

La presenza di macchine da ripresa in sala fa sperare in un futuro riversamento in DVD.

_MG_3829

_mg_3335

Foto-secondaria-1-1040x415

Pubblicità