Mese: giugno 2015

GRAN TEATRO NACIONAL

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Gran Teatro Nacional

Lima (2012)

1500 posti

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Il Gran Teatro Nacional del Perú è un teatro multiuso che fa parte del Tridium Cultural giacché è fiancheggiato dalla Librearia Nazionale e dal Museo della Nazione.

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Inaugurato nel luglio 2012 con il balletto Aka Kats del compositore peruviano Nilo Valerde, utilizza le più recenti tecnologie in acustica e ingegneria del suono per permettere la rappresentazione  ottimale di spettacoli d’opera, concerti, musical e quant’altro.

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L’edificio ospita sale di prova, camerini, ristoranti, bar, una biblioteca e sale per vari tipi di eventi.

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TEATRO CHIABRERA

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Teatro Chiabrera

Savona (1853)

700 posti

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Sede dell’attuale Opera Giocosa, il Teatro Gabriello Chiabrera si trova a Savona, è il principale teatro cittadino e della provincia e si autodefinisce il più bel teatro storico in funzione della Liguria. Nel XIX secolo a Savona si parlava di costruire un nuovo teatro data la scarsa capienza di quelli presenti, quindi l’8 ottobre 1850 il sindaco diede il via libera alla costruzione su progetto dell’architetto messinese Carlo Falconieri. Realizzato in circa tre anni con la sottoscrizione per i due terzi da palchettisti, il teatro venne inaugurato il primo ottobre 1853 con l‘Attila di Verdi. Dal 1883 è interamente di proprietà comunale.

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La sala all’italiana ha una capienza di 700 posti, con 4 ordini, 3 dei quali originariamente a palchetti (62 in totale) e, a seguito di un restauro della fine degli anni ’50, trasfomati in balconate. Principalmente teatro d’opera per tutta la seconda metà dell’Ottocento con la gestione affidata a impresari in concorso con la sovvenzione comunale che prevedeva una stagione di prosa ad autunno ed una d’opera a Carnevale, ha visto rappresentare le maggiori opere del melodramma con la presenza di illustri cantanti. Nel 1954 inizia un lunghissimo restauro che si conclude nel 1963 con la ripresa di una programmazione di prosa. L’11 ottobre 1999 improvvisamente si distaccò dal soffitto della volta poco meno di un quarto dell’affresco presente frantumandosi in migliaia di frammenti poi minuziosamente ricomposti durante i restauri effettuati dal 2002 al 2005 che hanno ripristinato le decorazioni originali.

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Fedora

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★★★★☆

Opera in giallo

«Dopo 37 anni di assenza Fedora di Umberto Giordano è ritornata l’altra sera alla Scala diretta da Gianandrea Gavazzeni, regia di Lamberto Puggelli, con Mirella Freni e Plácido Domingo, accolta da un entusiasmo a dir poco trionfale». Così iniziava l’articolo di Duilio Courir sul “Corriere della sera” del 29 aprile 1993.

Il libretto di Arturo Colautti è tratto dal dramma omonimo di Victorien Sardou, interpretato al suo debutto nel 1882 da Sarah Bernhardt che Giordano vide a Parigi nel 1889. (E sarà l’interpretazione della stessa Sarah Bernhardt a convincere Puccini a mettere in musica La Tosca, sempre di Sardou). Le trattative per il testo durarono parecchio perché Sardou si convinse a cederne i diritti solo dopo il clamoroso successo dell’Andrea Chénier e quindi Fedora fu presentata al lirico di Milano quasi dieci anni dopo, il 17 novembre 1898 con Gemma Bellincioni ed Enrico Caruso. Anche questo fu un grande successo e Mahler portò subito l’opera a Vienna mentre a Parigi suscitò l’interesse di Massenet e di Saint-Saëns.

Fedora Romazoff è una principessa russa che sta per sposare il conte Vladimiro Andrejevič, figlio del capo della polizia imperiale. Non lo vedremo mai perché viene ucciso mentre il pubblico prende posto in sala. Fedora giura vendetta e nel secondo atto dà una festa a Parigi per smascherare il conte Loris sospettato dell’assassinio e segretamente innamorato di lei (tanto segretamente magari no visto che la prima cosa che fa è dichiararlo nella famosa aria «Amor ti vieta» che Caruso bissò alla prima). Quando Fedora sente la sua confessione del delitto, lo denuncia con una lettera al padre di Vladimiro. Ma presto scopre che quello non è stato un omicidio politico da addebitare ai perfidi nichilisti cui pensa appartenga Loris, bensì un delitto passionale in quanto il furfante aveva insidiato la prima moglie di Loris il quale aveva colto la coppia in flagrante adulterio. Fedora ora risponde con gioia all’amore di Loris e insieme si trasferiscono in Isvizzera. Ma qui i nodi vengono al pettine: Loris scopre che il fratello è morto in cella falsamente accusato di complicità dell’assassinio da una donna russa residente a Parigi e che la madre è morta di dolore di conseguenza. Loris capisce che la misteriosa donna è Fedora stessa la quale per il dolore e il rimorso si uccide con il veleno contenuto in una croce reliquiario che la donna ha sempre portato addosso. Fedora spira tra le braccia di Loris dopo averne ottenuto il perdono.

Scrive ancora Courir: «Fedora è una di quelle opere nelle quali non si è mai del tutto sicuri se sia più importante la musica o il testo drammatico. Si tratta di una storia che narra di nobili e di nichilisti russi, di un delitto d’onore che sembra un delitto politico e di un implacabile e fatale desiderio di vendetta, ma che in realtà è solamente una commedia borghese composta da mogli, mariti o quasi e da amanti. Il confronto sentimentale infatti tra Fedora e Loris rimane un poco isolato e la musica riesce con difficoltà a reggerlo. In questa impresa, a creare una vicenda di anime e di personaggi era riuscito Massenet nel Werther, sicuramente una delle fonti alle quali Giordano ha prestato attenzione».

L’opera ha una struttura molto moderna: inizia come in un giallo di Agatha Christie con l’ispettore di polizia che interroga i testimoni di un delitto. Massimo Mila ne coglie bene l’aspetto musicale: «un’inchiesta poliziesca iniziata con effetti di autentica suspense nella frammentazione del discorso strumentale in esitanti assolo di violino e clarinetto, e poi continuata su un fugato degli archi, significante l’arruffato dipanarsi delle indagini». Nell’atto parigino c’è poi un duetto su sottofondo di un pianista che suona un notturno di Chopin (o meglio un pezzo à la manière de Chopin) e poi un lungo passaggio unicamente orchestrale che sa già di musica da film (Giordano scriverà colonne sonore per il cinema negli anni ’30).

In questa produzione dalla Scala di Milano l’inverosimiglianza del libretto si aggiunge a certe ingenuità della regia di Puggelli (il corpo di Vladimiro riportato a casa nell’indifferenza generale) e all’impianto scenico di Luisa Spinatelli, mobili assortiti su una piattaforma circolare che ruota così lentamente che non si capisce a cosa serva. Paesaggi proiettati come fondali identificano le tre location: San Pietroburgo per il primo atto, Parigi il secondo e la Svizzera il terzo.

La Freni e Domingo, qui cinquantenni, esibiscono l’una la classe per interpretare la principessa Romazoff e l’altro lo squillo del giovane Loris, entrambi impegnati in un canto spiegato a piena voce appena appannato per la Freni, gloriosamente intatto per Domingo. Gli stessi cantanti riprenderanno l’opera in una nuova produzione al Metropolitan tre anni dopo diretta da Roberto Abbado, anche questa immortalata in DVD. Nel resto del nutrito cast si fa notare Alessandro Corbelli come vivace De Siriex.

Gianandrea Gavazzeni, che aveva già diretto l’opera alla Scala nel 1956 con la Callas e Corelli, dimostra la sua piena maestria e non si può non ricordare quello che di lui disse Fedele D’Amico a proposito delle sue interpretazioni, che «non sono soltanto esecuzioni incantevoli: sono silenziose e trasparentissime esegesi, che dicono più d’un commento scritto».

Immagine in formato 4:3, tre tracce audio e sottotitoli in cinque lingue “europee” sono le caratteristiche tecniche del DVD ArtHaus.

La traviata

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Giuseppe Verdi, La traviata

★★★★☆

Madrid, Teatro Real, 8 maggio 2015

(live streaming)

Una Traviata verista

Mentre a Torino l’opera di Verdi si prepara per il sesto anno ad andare in scena con la regia di Pelly creata per il Santa Fe Festival del 2009 e a Venezia si è appena conclusa la 135ª replica della regia di Carsen che gli era stata commissionata per la riapertura della Fenice nel novembre 2003, l’opera più rappresenta al mondo (750 diversi allestimenti nelle ultime cinque stagioni) viene ora trasmessa da Opera Platform con la messa in scena che David McVicar aveva ideato a Glasgow nel 2008. Questa ripresa avviene dal Teatro Real di Madrid.

Con l’andare del tempo McVicar si avvicina sempre più al modello di Visconti nella cura delle scene e nei suoi particolari: qui dai candelieri cola della vera cera, nei bicchieri forse non scorre champagne o cognac, ma liquidi che comunque fanno di tutto per sembrarlo, le rose sono vere rose, le vivande sulla tavola sembrano pronte da mangiare, i bicchieri sono di cristallo e gli argenti veri argenti.

Non c’è attualizzazione, ma siamo comunque verso la fine dell’Ottocento, qualche decennio dopo l’epoca della vicenda di Marie Duplessis, la cortigiana protagonista del romanzo del 1848 La dame aux camélias di Alexandre Dumas e soggetto di scabrosa attualità per l’opera di Verdi di appena cinque anni dopo.

Come è già stato fatto in altre produzioni (Zeffirelli fra i primi) e come è nell’originale di Dumas (dove Marguerite Gautier/Violetta è già morta all’inizio del romanzo ed è Armand Duval/Alfredo che la racconta) la storia è vista come un flashback di Alfredo che durante il preludio vediamo passeggiare sulle foglie e i fiori appassiti di una enorme lapide spezzata su cui sono incise le date di nascita e di morte della dame aux camélias, lapide che sarà il pavimento degli interni in cui si svolge la sua breve vicenda terrena.

I vetri scuri in cui si specchia Violetta («Oh, qual pallor») ci trasmettono le scene del ballo in casa sua e quella barriera semitrasparente è un muro che divide inesorabilmente il mondo di quei gaudenti belle époque dal dramma che si consuma invece al proscenio. L’arredamento del primo atto è nero totale, compresi i lugubri cortinaggi, con un effetto claustrofobico: il salotto di una demi-mondaine non era un grand salon e non era frequentato da donne rispettabili, niente contesse o duchesse, ma conti e duchi sì, tanti.

Neppure l’ambientazione di campagna del secondo atto sfugge a questa visione luttuosa, anche se ora i mobili in finto Luigi XVI sono laccati di bianco e le sedie di vimini sono le stesse dell’allestimento di Visconti.

Lo straziante preludio al terzo atto ci introduce alla camera di Violetta con i raccapriccianti segni della sua fine: le iniezioni di morfina, Annina che dorme su un materasso per terra perché gli altri mobili sono stati pignorati, le lenzuola sfatte e la camicia da notte sporchi di sangue e di catarro (yuck!), i capelli impregnati di sudore che si appiccicano al viso, la lettera che ormai conosce a memoria recitata su quel violino che fa accapponare la pelle.

Ermonela Jaho dà anima e corpo senza risparmiarsi nella parte da cui non esce neanche alla fine dello spettacolo quando si trascina esausta a ricevere gli applausi e si accascia istrionicamente in proscenio. «Dite alla giovane» è cantata con un filo di voce che sa già di morte, «Amami Alfredo» è un grido angosciato così come «È tardi». L’«Addio del passato» è ansante per il respiro soffocato dalla malattia. Non c’è però bel canto nell’intensa interpretazione del soprano albanese: imprecisa nelle agilità del «Sempre libera», la sua è una vocalità che già tende al verismo per eccesso di temperamento. Si vedano i manierismi con cui accompagna «Conosca il sagrifizio» nella scena con Germont padre o il terzo atto che è un un tour de force di effetti ed effettacci non sempre sublimati dalla musica, ma che mandano in visibilio il pubblico madrileño – è la regola del teatro: più si soffre in scena, più ci si diverte in platea…

Francesco Demuro è convincente come il bambinone insulso che è in fondo Alfredo. Scenicamente svagato (quelle occhiate al direttore sono passion killer) è troppo impegnato a non sbagliar nota per far scattare la scintilla della passione con Violetta. Il cantante sardo è l’unico italiano della compagnia, ha un bel timbro (forse un po’ troppo lirico soprattutto qui in confronto al registro grave e drammatico della protagonista), ma il fraseggio è piatto e le note troppo aperte («Dei miei bollenti spiriti» è cantato con una boria fastidiosa).

Juan Jesús Rodríguez dipinge un Germont padre autorevole ma molto umano e la sua calda voce in «Di Provenza il mare, il suol» accende l’entusiasmo del pubblico (il baritono spagnolo qui è di casa) anche se è buffo con quel colletto fuori misura che gli dà quasi l’aspetto di un clown.

Protagonista della serata è il direttore Renato Palumbo che si dimostra eccellente verdiano anche con un’orchestra non sempre eccelsa come è quella del Teatro Real.

In definitiva uno spettacolo che manda comunque a casa gli spettatori soddisfatti: la grande teatralità di McVicar si dimostra pienamente in tanti piccoli particolari e sul lavoro attoriale. La sua lettura del dramma è poi assecondata qui dall’interprete che ha sostituito all’ultimo momento la prevista Patrizia Ciofi.

Dardanus

Jean-Philippe Rameau, Dardanus

★★★★☆

Bordeaux, Grand Théâtre, 5 giugno 2015

(live streaming)

Un Rameau poco conosciuto

Tre sono le versioni della terza delle cinque tragédie lyrique di Rameau arrivate a noi: alla prima rappresentazione del 19 novembre 1739 all’Académie Royale de Musique seguirono una versione ampiamente riveduta nel libretto dall’abbé Simon-Joseph Pellegrin che fu presentata nel 1744 come un lavoro nuovo e un ulteriore rimaneggiamento senza prologo nel 1760 quando finalmente riscosse il successo di pubblico meritato dal 74enne compositore fino a che il Dardanus (1784) di Antonio Sacchini non venne a occuparne il posto in repertorio. A Parigi ritornerà sulle scene solo nel 1979!

Dardanus è la proposta di Rameau per una nuova tragédie lyrique che combini intrigo amoroso, gusto del meraviglioso, dello spettacolare e del fantastico soprannaturale con formule armoniche che guardano al futuro.

Il discontinuo libretto di Charles-Antoine Leclerc de La Bruère, tratto dalle Metamorfosi di Ovidio, narra della figura mitologia di Dardano i cui discendenti fondarono Troia. Qui l’eroe è in guerra con il re Teucro, che ha promesso di dare sua figlia Ifisa in sposa al re Antenore. Grazie all’intervento del mago Ismenore, Dardano e Ifisa si possono incontrare e dichiararsi il reciproco amore. Un mostro sta devastando il regno di Teucro e quando Antenore lo affronta Dardano uccide la creatura. Antenore giura eterna riconoscenza all’eroe sconosciuto che gli ha salvato la vita il quale gli chiede solo di rispettare la scelta di Ifisa. Teucro e Dardano concludono la pace, che viene sancita dal matrimonio di Dardano con Ifisa e dalla sofferta rinuncia di Antenore.

Per questa produzione il trentunenne direttore Raphaël Pichon dirige il suo altrettanto giovane ensemble Pygmalion (coro e orchestra di strumenti antichi che prendono nome da un balletto di Rameau) nella versione originale del 1739 con l’aggiunta della meravigliosa aria «Lieux funestes» dell’edizione del 1744.

Nel Grand Théâtre di Bordeaux, prima del trasferimento dello spettacolo a Versailles, il regista Michel Fau mette in scena una rappresentazione che riprende i cliché dell’opera barocca ma in un gusto moderno. Né ricostruzione museale né attualizzazione, i due poli su cui ad esempio sono state realizzate le produzioni dell’Hippolyte et Aricie di Parigi e di Glyndebourne, bensì re-inventando l’opera come si sarebbe potuto fare nel XVIII secolo ma con riferimenti moderni, «proponendo una scenografia e dei costumi tradizionali – magnificamente realizzati da Emmanuel Charles e David Belogou – ma come noi oggi li concepiamo: colorati, stravaganti e tuttavia stilizzati. Restando fedeli all’assunto, ma sfasandolo utilizzando il procedimento del teatro nel teatro caro alla nostra epoca. La scena è una replica della sala dell’Opéra di Bordeaux con le sue colonne antiche, i capitelli corinzi e i palchetti dove prendono posto i coristi, spettatori e commentatori dell’azione. Utilizzando una gestualità non naturale e manierata in accordo col carattere eccezionale dei personaggi e delle situazioni. Accettando i balletti, la staticità dell’azione, le inverosomiglianze della vicenda. Rispettando la pulsione drammatica, le sue lentezze, le sue digressioni, senza però che si instaurino tempi morti […] La brillante dimostrazione non ha per limiti che l’opera stessa: la ciaccona finale è un’aberrazione teatrale che prolunga inutilmente lo spettacolo e impedisce che termini nel miglior modo possibile, con i due amanti finalmente riuniti sotto un piccolo tempio rosa confetto di un kitsch delizioso» (Christophe Rizoud).

Il risultato è apprezzabile: fondali e quinte dipinte nel gusto dell’epoca, così come i costumi, ricreano uno spettacolo godibile nonostante la lunghezza (più di tre ore di musica) e gli innumerevoli balletti dove anche il coreografo Christopher Williams rinuncia sia alla filologia sia ai passi della danza più moderna – niente breakdance o capoeira per intenderci – per affrontare una terza via.

Ottimo il cast formato da professionisti del barocco francese: ricordiamo almeno l’haute-contre belga Reinoud van Mechelen (la Francia non è mai arrivata a quella orrenda pratica della castrazione maschile per il divieto della chiesa cattolica alle donne di calcare le scene dei teatri italiani) nel ruolo titolare, Gaëlle Arquez come Iphise di statuaria tragicità, Florian Sempey nel più complesso Anténor che vince la sfida con le note più basse della tessitura di baritono nell’aria più famosa dell’opera, «Monstre affreux», Karina Gauvin, ironica Vénus sospesa tra cielo e terra, e infine Nahuel Di Pierro come Teucer e Isménor.

Il direttore Raphaël Pichon, lui stesso haute-contre, dimostra il suo amore per la partitura di cui esalta colori, vivacità e ricchezza armonica.

Faust

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Charles Gounod, Faust

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 9 giugno 2015

La macina del tempo

«Visionario, immaginifico, estroso, sensazionale, inquietante, impressionante». Si sprecano gli attributi dei recensori per questa terza collaborazione di Stefano Poda col Regio dopo Leggenda di Alessandro Solbiati (2011) e la gelida e lambiccata Thaïs del 2008. Il regista trentino porta a Torino il Faust di Gounod che aveva già allestito nel 2003.

La scena potrebbe essere quella per un Ring wagneriano, essendo dominata da un enorme anello monolitico. Invece no, ed è lo stesso Poda a spiegarci trattarsi del «cerchio in cui si chiude l’esperienza della vita, la contemplazione insegue l’azione e viceversa, la terra rincorre il cielo e tutto torna polvere, è il segno del patto fra Dio e l’Uomo. La funzione principale è far nascere domande in chi guarda. Ha poi un ulteriore effetto: a poco a poco, mentre si osserva, si ha l’impressione che l’anello, come una gigantesca ruota, rotoli verso l’osservatore. Secondo me le immagini potenti devono assumere valenze multiple affinché lo spettatore si scopra spettatore di sé stesso».

La filosofia del poema goethiano, trascurata dal libretto di Barbier & Carré e da Gounod che ne hanno fatto una borghese storia d’amore tanto amata dal pubblico, riprende il suo ruolo con Poda, ma così contrasta con la musica. Ma già lo sapevamo: gli spettacoli del regista-scenografo-costumista-coreografo-illuminotecnico sono la dimostrazione di un teorema in cui libretto e musica sono spesso elementi accessori.

Come è stato scritto altrove «una produzione di Stefano Poda è un’esperienza, un viaggio all’interno di noi stessi, e ancora una volta la musica, sia essa rock, pop, lirica, “fa sempre il proprio dovere”». Ma è proprio questa interscambiabilità tra rock, pop e lirica a indebolire il lavoro di Poda che rimane essenzialmente un’esperienza visiva, la sua regia non si piega alla musica (come non fare il confronto con Laurent Pelly, ad esempio, che invece la regia la fa “sulla musica” e non c’è colore o timbro orchestrale che non abbia il suo corrispondente visivo) e rimane sorda alle prescrizioni del libretto: non c’è metamorfosi per Faust che era un giovane palestrato prima e rimane tale dopo il patto col diavolo; Marthe sarebbe una vecchia vicina di Margherita a cui Mefistofele fa grottescamente la corte, ma qui è un gran pezzo di figliola sexy e così via. E il cerchio di pietra si inclina, ruota, macina il tempo della storia a vuoto senza coinvolgere emotivamente.

E neanche gli interpreti sono trascinanti: indubbiamente corretti i due giovani, ma senza charme il Faust di Charles Castronovo e senza vita la Marguerite di Irina Lungu. Raramente si è sentito un duetto d’amore del terzo atto, «Laisse-moi, laisse-moi, contempler ton visage», così noioso.

Neanche quello che dovrebbe essere il mattatore della serata, Mefistofele, trova in Il’dar Abdrazakov molta verve: a parte le indiscutibili qualità vocali, l’affascinante basso russo si aggira senza costrutto, fa cucù o si inerpica sul sempre presente anello, ma non ha la presenza scenica di un Bryn Terfel, per citare un caso recente, nella sulfurea messa in scena di David McVicar o anche di Ruggero Raimondi in quella di Ken Russell. E pensare che nel Mefistofele di Boito ripreso da Robert Carsen lo stesso Abdrazakov aveva confermato la sua grande capacità attoriale dimostrata tante altre volte, non ultima come brillante Figaro ne Le Nozze di Richard Eyre al MET.

Qui tutti quanti girano in tondo nei loro elegantissimi completi come per un défilé di moda, le coriste nei loro abiti in shantung di seta cremisi e scarpe a stiletto in tinta, Marguerite ad un certo punto in un cappottone di fiori rubato a Il Don Giovanni di Filippo Timi. Durante il funerale di Valentin compaiono anche degli ombrelli presi in prestito da Les Boréades di Carsen mentre la croce di luce s’era invece già vista nella Forza del destino dello stesso Poda.

Le coreografie sarebbero il clou di questo grand opéra, ma qui sono risolte da tic nervosi per il valzer del secondo atto e da un groviglio di corpi grigi in perizoma per la notte di Valpurga: eh no, da un geniale coreografo come Poda ci aspettavamo qualcosa di più, qualcosa da épater les bourgeois

La direzione orchestrale di Gianandrea Noseda è accurata e piena di finezze strumentali, ma senza grandi momenti passionali, coerente quindi con la scelta registica.

CROSBY THEATER

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Crosby Theater

Santa Fe (1998)

2128 posti

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La Santa Fe Opera (SFO) ha sede a 11 km a Nord della città di Santa Fe nello stato del New Mexico. Dopo aver creato l’Opera Association of New Mexico nel 1956, il direttore John Crosby inizialmente ottenne fondi dai genitori per l’acquisto del terreno per l’edificio che fece costruire: un teatro all’aperto di 480 posti che funzionò nel periodo 1957-1967. Nel 1968 fu rimpiazzato da un più capace teatro di 1889 posti che nel 1997 fu parzialmente demolito per far posto all’attuale auditorium di 2128 posti a sedere e 106 in piedi intitolato dopo la morte nel 2002 al suo fondatore.

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Disegnato dalla Polshek di New York, l’edificio mantenne il retropalco e i locali annessi e dopo soli dieci mesi fu inaugurato nel luglio 1998 con Madama Butterly, la stessa opera con cui si erano aperti i precedenti due teatri all’aperto. Il Crosby ha una struttura a vela per riparare dalle intemperie, ma i lati sono aperti sulla campagna circostante e ai venti, che talora possono creare problemi solo in parte risolti dalla costruzione sopravento della Stieren Hall, la sala prove dell’orchestra.

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La programmazione si sviluppa nei mesi di luglio e agosto. Dal 1999 i sottotitoli delle opere sono trasmessi su piccoli schermi rettangolari negli schienali dei sedili tradotti in inglese o spagnolo. Il sistema ha la possibilità di gestire fino a sei lingue.

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ULRIKSDALS SLOTTSTEATER CONFIDENCEN

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Solna (1753)

200 posti

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L’Ulriksdals Slott (originariamente Jakobsdal Slott) è un castello reale nel Parco Nazionale della municipalità di Solna, 6 km a Nord di Stoccolma. Fu costruito dall’architetto Hans Jacob Kristler nel 1643-1645 come residenza di campagna del maresciallo Jacob de la Gardie.

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A metà del 18° secolo fu donato come regalo di matrimonio al re Adolf Frederick e alla regina Louisa Ulrika la quale, amante del teatro e della musica della corte di Berlino in cui era cresciuta fece costruire un teatro in quella che fino al 1670 era una scuderia.

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Sotto la direzione dell’architetto Carl Fredrik Adelcrantz nacque un bell’auditorium a forma di salone con 200 posti e un palcoscenico dotato di ingegnosi macchinari con quinte semoventi azionate da funi e ruote sotto il palco. Si poteva passare quindi in pochi secondi da una foresta all’interno di un castello a una strada secondo le esigenze del copione.

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Il teatro rimase in abbandono per quasi duecento anni quando la cantante e manager di spettacolo Kjerstin Dellert riuscì a raccogliere il denaro per far rinascere questo gioiello. La sala riebbe le sue pareti decorate, le scene e il sipario ritornarono al loro posto e il tavolo della sala da pranzo poteva essere calato al piano inferiore come accadeva nel 18° secolo.

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Da allora ogni estate vengono presentati spettacoli a lume di candela secondo un ricco programma.

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Linda di Chamounix

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★★☆☆☆

«Ma chi vien? Nel barlume un savoiardo. Parmi…»

Opera di mezzo carattere in cui è dipinto un ambiente bucolico ricco di tutte le virtù rurali in contrapposizione all’ambiente urbano “peccaminoso” con personaggi che vorrebbero essere buffi e una protagonista che immancabilmente impazzisce per amore per poi rinsavire al momento buono.

«Viveva in Chamounix, piccolo villaggio della Savoia, una povera, ma onesta famiglia di affittàiuoli, composta di due coniugi alquanto attempati, e d’un’unica figlia. A questa avevano i genitori rivolte tutte le loro cure, e se l’indole nobile della fanciulla era loro di dolce conforto, non li lasciava però senza pensiero la non comune bellezza di Linda, che tale era il nome di essa. Non tardò a scoprire questa sorgente beltà il giovane Visconte di Sirval, figlio della marchesa feudataria del villaggio. Il vederla ed accendersi per lei di vivissimo amore fu un sol punto; ma informato della virtuosa condotta di Linda egli ben previde che l’alta sua nascita anziché favorire il suo amore sarebbe stata un ostacolo alla corrispondenza della fanciulla, e giudicò miglior partito di celare il suo stato, e ad essa offrirsi sotto la semplice foggia di pittore. Ma nello stesso tempo il fratello della marchesa, uomo di principii non troppo austeri, erasi preso di capriccioso amore per Linda, e recatosi al villaggio sotto pretesto di rinnovare alla famiglia l’affitto dei beni, e di provvedere alla sorte futura della fanciulla, cercava di seco condurla al castello. Le sue mire furono però facilmente scoperte dal Prefetto del villaggio, e a salvare l’onesta fanciulla dal pericolo che la minacciava consigliò ai genitori di essa di unirla agli altri abitanti del villaggio, i quali, com’è costume, appunto in sul finire d’autunno si recano a Parigi, onde guadagnarsi col canto e la ghironda il sostentamento nella rigida stagione. Appena informato della partenza di Linda, il Visconte non tardò a seguirla a Parigi, e colà rinvenutala, le scoperse il suo vero stato, di nuovo le giurò eterno amore, e le diede comodo ed elegante alloggio in casa d’una sua parente, che incaricò di provedere a tutto quanto potesse abbisognarle. Ma intanto la madre del giovane Visconte, era per condurre ad effetto il progetto, che da gran tempo nutriva di unire il proprio figlio ad una nobile e ricca donzella. Terribile fu nell’animo del Visconte il combattimento fra l’amore per Linda, e l’obbedienza al volere materno. E già questo sentimento stava in procinto di vincere il primiero affetto: già tutto era pronto per gli sponsali, quando ad un tratto il Visconte scompare dal corteo nuziale. Intanto Pierotto, orfanello savoiardo, che era stato a Linda compagno nel viaggio, informato a caso dell’imminente sposalizio del Visconte, era corso ad avvertirne l’infelice fanciulla. Questo colpo inaspettato le tolse la ragione, e vedendola in tale stato deplorabile Pierotto stimò miglior partito ricondurla al tetto paterno. Il Visconte che dopo l’interrotta scena degli sponsali era corso da Linda non avendola rinvenuta dopo inutili ricerche fatte a Parigi, si diresse a Chamounix, onde mitigare per quando gli fosse possibile il dolore degl’infelici genitori. Breve tempo dopo il suo arrivo giunge Linda accompagnata dal fedele Pierotto. Alla voce affettuosa dell’amante ritorna a Linda la smarrita ragione, il Visconte al colmo della gioia la proclama sua sposa in presenza di tutti gli abitanti del villaggio».

Tratto da La grâce de Dieu (1841) di Adolphe-Philippe d’Ennery e Gustave Lemoine, l’ingenuo libretto di Gaetano Rossi è messo in musica da Donizetti tra il gennaio e il marzo 1842. L’opera è presentata il 19 maggio di quello stesso anno con grande successo al Kärtnertortheater di Vienna. L’ouverture aggiunta all’ultimo momento è ricavata dal primo movimento del suo quartetto per archi composto nel 1836. Dopo la prima italiana al Carignano di Torino il 24 agosto, il lavoro è ripreso il 27 novembre a Parigi al Théâtre des Italiens con la Fanny Tacchinardi per la quale Donizetti scrive su versi propri la tyrolienne «O luce di quest’anima» che diverrà il pezzo più famoso dell’opera e aria di baule di tanti usignoli del bel canto.

Uno di questi usignoli è Edita Gruberová, per la quale a Zurigo nel 1996 viene prodotta una Linda per una Diva forse un po’ troppo avanti negli anni, ma che continuerà comunque a proporre ancora il ruolo, l’ultima volta alla Scala nel 1998. E qui a Zurigo è un tripudio di applausi e di inchini alla fine dell’aria in cui Linda si presenta. La direzione di Ádám Fischer è tutta al servizio della Diva, alle sue pause, alle sue corone, ai suoi vezzi manierati, agli acuti fissi o calanti o da sirena dei pompieri con cui il soprano ceco infarcisce la parte. Sollucchero per i suoi fan, quasi inascoltabile per il resto del mondo.

La parte en travesti di Pierotto con quelle sue meste ballate accompagnate dalla ghironda ha la figura androgina e la voce particolare di Cornelia Kallisch. Al ruolo del Prefetto Donizetti regala una preghiera «O tu che regoli | gli umani eventi, | speme dei miseri |degl’innocenti» che richiama per intensità e bellezza melodica l’analoga pagina rossiniana del Mosè. Il basso ungherese László Polgár conclude così nobilmente il primo atto di quest’opera in cui si susseguono pagine ineguali e slegate fra di loro ma di notevole bellezza, come il suadente duetto tra Linda e Carlo/Visconte di Sirval il cui tema ritornerà nel corso dell’opera come motivi conduttori a sottolineare i punti più intensi della vicenda. Il tenore Deon van der Walt è però un Don Ottavio mozartiano un po’ troppo leggero per la parte del Visconte.

Nel secondo atto, così come nella Manon Lescaut, siamo a Parigi tra “le trine morbide” del «comodo ed elegante alloggio» messo a disposizione dal Visconte che si è finalmente palesato in quanto tale. Linda è agghindata come una Pompadour tanto che sia Pierotto sia il padre stentano a riconoscerla. Non tarda ad arrivare però quell’«uomo di principii non troppo austeri» e pervaso di «rie brame impure» che è il marchese di Boisfleury, il personaggio buffo che prefigura il Don Pasquale dell’anno seguente e il tono dell’opera cambia ancora una volta. Però, se neanche Rossini nella Gazza ladra aveva pienamente azzeccato il genere “melodramma semiserio”, così avviene per questo Donizetti. Il miracoloso mix di patetico e umorismo dell’Elisir d’amore di dieci anni prima qui non si ripete.

Il regista Daniel Schmid che aveva presentato uno stilizzato paesaggio bucolico nel primo atto tramite gigantografie, nel secondo atto si sfoga in scenette “a parte” e in una recitazione esagerata degli attori per poi raggiungere toni surreali nel terzo con Pierotto spara neve e il ghiacciaio alpino.

Immagine nel formato 4:3, tre tracce audio e sottotitoli in cinque lingue, italiano compreso.

OPERNHAUS

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Opernhaus
Graz (1899)
1400 posti

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Il secondo teatro d’opera austriaco per grandezza dopo l’Opera di Stato viennese, l’Opera di Graz fu costruita in un solo anno sui disegni degli architetti Ferdinand Fellner & Hermann Helmer (che con questo avevano progettato trenta teatri)  e inaugurata il 16 settembre 1899 con il Wilhelm Tell di Schiller all’occasione dei festeggiamenti per i 50 anni di regno dell’imperatore Franz Joseph I.

Opernhaus Graz HDR

Il teatro si aggiungeva al Landständisches Theater fondato nel 1776 dall’imperatrice Maria Theresia sul cui sito si trova ora il Schauspielhaus e al Thalia am Stadtpark, del 1864, adattamento di un edificio per circhi.

Opernhaus Graz HDR

Dall’esterno l’edificio si distingue per la cupola e la rampa di accesso all’ingresso sotto un porticato. Diversamente dai teatri della stessa epoca gli architetti non optarono per uno stile neo-rinascimentale con tocchi di gotico, bensì per un neo-barocco inteso come autentico stile austriaco e omaggio al viennese Fischer von Erlach.

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L’edificio è nettamente diviso in tre volumi di diversa altezza: quello dello scalone di ingresso, quello dell’auditorium e infine quello della scena, con la sua torre per i servizi del palcoscenico.Graz_Opernhaus_Stiege_1