Roberto Devereux

Gaetano Donizetti, Roberto Devereux

★★★★☆

New York, Metropolitan Opera House, 16 aprile 2016

(registrazione video)

Il glamour si addice al MET

Si completa la “Trilogia Tudor” affidata a Sir David McVicar. E  Roberto Devereux arriva al Metropolitan Opera House per la prima volta – la mitica Beverly Sills aveva presentato la sua Elisabetta alla New York City Opera.

«Routine di alta classe» è stato definito il suo allestimento, infatti è prezioso e calligrafico anche questo terzo suo episodio delle regine Tudor, con le eleganti e lugubri scenografie disegnate dal regista stesso e i sontuosi costumi d’epoca di Moritz Junge. Curatissimi come sempre i dettagli, come le figure di morte ai lati del portale, memento mori onnipresente o il manichino con l’abito della regina che, subito dopo l’esecuzione del conte di Essex, entra in scena senza testa.

Ma non solo i particolari scenografici, ben più preziosi sono quelli sui personaggi: Elisabetta che confronta la pelle liscia e fresca di Sara con la sua proprio nel momento in cui parla di una possibile rivale, o lo sguardo di Roberto quando osserva la vecchia regina dall’andatura traballante. Durante la sinfonia, che cita l’inno God save the Queen, vediamo la corte osservare il catafalco della regina lasciare il posto al trono. Lo scambio inverso avverrà alla fine, «Dov’era il mio trono s’innalza una tomba…».

La vera Elisabetta nel 1601, anno della morte di Essex, aveva 67 anni. Sopravviverà ancora due anni lasciando il trono a Giacomo I, come recitano gli ultimi due versi del libretto del Cammarano: «Non regno… non vivo… Escite… Lo voglio… | Dell’anglica terra sia Giacomo il re».

I cortigiani di Elisabetta si trasformano nel plaudente pubblico in costume che non abbandona mai i laterali della scena e la balconata, sempre presente anche nei momenti più intimi. Come se si fosse al Globe. Tutto sembra nascere da una didascalia dell’aria di Elisabetta (III, 6) «(gettando uno sguardo alle Dame, e rammentandosi d’esser osservata)» o dall’ultimo verso del coro: «rammenta le cure del soglio: | chi regna, lo sai, non vive per sé», ma la finzione continua fino al momento degli applausi finali, quando gli artisti si inchinano anche verso questo finto pubblico.

La partitura del Devereux mostra un’orchestrazione quasi cameristica che Maurizio Benini non esalta nella sua trasparenza, privilegiando invece tempi spediti che non sempre favoriscono i cantanti. Sondra Radvanovsky ha interpretato tutte e tre le regine in una sola stagione qui al MET e come Elisabetta gioca le sue carte di volume sonoro e resistenza vocale, vincendo in entrambe. Il timbro non è dei più piacevoli, ma gestisce bene un’estensione amplissima con cui affronta sia i passaggi drammatici che l’espressività dei cantabili. Meno convincente è nei recitativi – qui il fatto di non essere di lingua italiana ha il suo peso – e nei passaggi di coloratura più impervi. Di grande effetto il suo ingresso nell’abito bianco con “ali” inamidate, viso laccato di bianco e parrucca rossa. Nel finale, spogliata di tutti gli orpelli, si rivela con la fragilità e la solitudine di una vecchia signora malata.

Il Roberto Devereux di Matthew Polenzani ha i suoi punti di forza nei fiati, nel fraseggio e nell’articolazione della parola. Sfumature e mezze voce hanno reso mirabile la cavatina della Torre e il duetto con Sara Duchessa di Nottingham, qui una Elīna Garanča dal timbro sontuoso, un’espressività controllata e una fascinosa presenza scenica. Presenza scenica e bella vocalità non mancano neppure a Mariusz Kwiecień, Duca di Nottingham. Più o meno deludenti le parti secondarie per una serata comunque esaltante che manda il pubblico in delirio.

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