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Georg Friedrich Händel, Publio Cornelio Scipione
★★★☆☆
Bad Lauchstädt, Goethe-Theater, 12 giugno 2016
Tra Barbarella e Darth Vader
Perso nella campagna della Sassonia-Anhalt, una volta ricoperta di cupe foreste e ora punteggiata di centrali nucleari, tralicci di alta tensione e pale eoliche, il Goethe-Theater di Bad Lauchstädt testimonia come un tempo questo paesino fosse un rinomato centro di cure termali presso cui villeggiava volentieri madame Goethe.
Si spiega così l’incongruente presenza di un teatro in queste lande: nel 1791, infatti, Johann Wolfgang Goethe, allora direttore principale del teatro di corte di Weimar, propose la costruzione qui di una nuova sala. L’architetto berlinese Heinrich Gentz ricevette precise istruzioni da Goethe circa l’allestimento dell’interno secondo la sua Teoria dei colori. Il poeta stesso contribuì di tasca propria al finanziamento dell’impresa che per ragioni burocratiche si dilungò nel tempo e il teatro fu aperto solo il 26 giugno 1802 con La clemenza di Tito di Mozart.
L’edificio in sé è poco più che un granaio, con le quattro semplici pareti esterne in muratura che aspettano la ridipintura e un guscio interno di legno dall’ottima acustica. L’energia elettrica, di cui si fa ampia produzione fuori, qui all’interno non viene certo sprecata: l’illuminazione è affidata a poche fievoli lampadine che simulano l’impianto a gas originale, non ci sono né aria condizionata né riscaldamento. I sedili sono panche di legno e non parliamo di sopratitoli. Ma chissenefrega, in scena c’è un’opera in lingua italiana, il Publio Cornelio Scipione di Georg Friedrich Händel, una delle offerte del festival che ogni anno la vicina Halle dedica al suo figlio più illustre.
Il libretto di Paolo Antonio Rolli è tratto dall’omonimo lavoro (1704) di Antonio Salvi, basato a sua volta su un capitolo di Ab urbe condita di Tito Livio. Vi si narra dell’arrivo di Scipione (l’Africano, tra i tanti Scipioni di cui è ricca la storia di Roma) a Cartagine vinta dopo tanti sforzi. Il fedele Lelio offre al condottiero vittorioso due prigioniere tra cui c’è la bella Berenice. Ovviamente Scipione se ne innamora, ma questa sospira invece per l’amato Lucejo che doveva sposare il giorno stesso della caduta della città. Il suddetto Lucejo si presenta in incognito travestito da soldato romano e tra scoprimenti e malintesi i due giovani alla fine dei tre atti coroneranno il loro amore grazie anche alla magnanimità di Scipione. Il padre di Berenice, Ernando, e Armira completano il sestetto dei personaggi dell’opera.
Presentata nel marzo 1726, ripresa nel 1730 e poi mai più rappresentata fino a cinquant’anni fa, nella produzione di Händel Scipione costituisce una pausa durante la composizione di Alessandro: lo Haymarket aveva una lacuna di programmazione da colmare, Händel compone l’opera in tre settimane e questa va in scena appena dieci giorni dopo essere terminata. Scipione in origine conteneva anche il personaggio di Rosalba, la madre di Berenice. Ma poiché la cantante originariamente prevista per il ruolo non fu disponibile, quel ruolo fu rimosso e la musica e il testo trasferiti ad altri personaggi, soprattutto Berenice che ha ben nove numeri musicali tra cui quattro arie di lamento («Un caro amante» n. 4; «Dolci aurette che spirate» n. 9; «Ah, pria di rivederti» n. 15 con un bellissimo accompagnamento palpitante degli archi; «Com’onda incalza altr’onda» n. 18) e poi «Scoglio d’immota fronte» n. 22 che chiude il secondo atto o «Già cessata è la procella» n. 27 nelle quali si fa un gran sfoggio di agilità o ancora «Bella notte senza stelle» n. 31. Non sono comunque meno pregevoli le due arie di Armira o le sette di Lucejo, tra cui «Se mormora rivo o fronda» n. 24 dallo stupefatto accompagnamento dei fiati e degli archi.
Scipione come personaggio non ha molti numeri, ma un lungo importante recitativo accompagnato («Il poter quel che brami, il bramar quel che puoi sono in tua forza, e tu goder non vuoi?» n. 22) che dà spessore al personaggio fino a quel momento piuttosto scialbo.
Anche se non ci sono pagine memorabili, tutto il lavoro è di grandissima qualità comunque e il caro sassone ci sorprende ogni volta con la sua stupefacente orchestrazione e la sua invenzione melodica. Pregevoli sono i tre brani strumentali (Sinfonie), mentre delle varie marce presenti nello Scipione una è diventata la marcia del reggimento britannico dei Granatieri della Guardia.
La messa in scena di Angela Kleopatra Saroglou attinge a piene mani in tre diversi mondi fantascientifici della cultura popolare: dalla più lontana Barbarella di Jean-Claude Forest, senza però l’elemento sexy; da Star Trek, tanto che i guanti hanno solo tre dita per fare il saluto del vulcaniano Spock; e ovviamente da Star Wars. Scipione infatti appare nella prima scena uscendo da una nuvola di vapore bianco come Darth Vader e ogni tanto in buca gli archi gravi si divertono a inserire qualche nota delle famose colonne sonore. Le scene di Giorgios Kolios usano quinte e fondi dipinti con mondi lontani presi da illustrazioni di libri di fantascienza e non manca il firmamento fosforescente che adornava il soffitto delle camerette di un tempo. Il tutto ha l’aria un po’ naïf, ma si fa perdonare in un teatrino quasi di cartapesta come questo. Anche le movenze coreografate da Dimitra Kastellou hanno un che di ingenuo così come i costumi di Yiannis Katranitsas, una versione aggiornata di quelli impennacchiati di Pizzi. Non si giustifica comunque del tutto la scelta di ambientare nella fantascienza vicende del 200 a.C. – e non è neanche una novità: l’ambientazione da Guerre Stellari è stata già vista in dozzine di allestimenti d’opera, per lo più a sproposito. Debole la regia attoriale e i cantanti non fanno altro che entrare e uscire (anche da botole) quando è il loro momento. L’unico che si è inventato una sua presenza sulla scena è il tenore Juan Sancho, Lelio, che si è ispirato al robot C3PO per certe gag. Sulla sua resa vocale, però, non ripeto quanto scritto altrove.
Due controtenori interpretano i principali ruoli maschili e qui abbiamo due stili molto diversi: l’ucraino Yuriy Mynenko gioca sull’estensione e sulla forza della voce, il catalano Xavier Sabata sul calore del timbro. Gli applausi più convinti del folto pubblico vanno però al soprano marocchino Hasnaa Bennani, Berenice liricamente sofferta ma capace di agilità nitide e luminose. Di buon livello gli altri due interpreti.
Qui l’opera è diretta da George Petrou con il suo ensemble Armonia Atenea in una produzione della Parnassus Arts. Petrou utilizza la prima versione originale (ce n’è una seconda per la ripresa nel 1730) e concerta con la solita verve i suoi strumentisti che lo seguono a meraviglia, sembrano anche divertirsi e, anche se in pochi, riescono a fornire tutti i colori giusti ai diversi numeri musicali.
Il maestro Petrou in pausa
Il “foyer” del teatro all’intervallo
⸪
Nice comment! Thank you.