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Gaetano Donizetti, Roberto Devereux
★★★★☆
Genova, Carlo Felice, 29 marzo 2016
(live streaming)
«Chi regna, lo sai, non vive per sé»
«E gnente, semo in Inghiltera, alla corte de quer vecchio troione pittato de Elisabbetta che però c’ha l’urtime vampate de calore e s’è invaghita der tenore Robberto Deveré co’ tutto che è tenore, ma lui se la fila giusto pe’ diventa’ quarcheduno a corte, sto fijo de ‘na mignotta, perché in realtà quello ama Sara. Senonché Robberto se ne va in campagna, no a fa’ er picnic ma a stermina’ un po’ de Irlandesi: ma per via der fatto che l’Inghiltera co’ l’Irlanda c’ha sempre sbattuto er grugno se ne ritorna a corte come er cerasaro e la corte lo vo’ vede’ morto». Così inizia il racconto della trama come forse non sarebbe dispiaciuto scrivere ad Alfonso Antoniozzi, ma lui non è romano, è viterbese e qui al Carlo Felice è ritornato non come cantante, bensì come regista.
Stavolta non si cimenta in uno di quei personaggi buffi in cui è insuperabile (non ultimo il suo don Magnifico proprio qui a Genova dieci anni fa) e nelle note di regia ci rivela la sua lettura del dramma donizettiano: «È stanca, Elisabetta. Gli anni di regno gravano su di lei come il suo manto ogni giorno più pesante, i giorni sempre uguali passati a recitare la parte della regina rinunciando ad essere donna sono come una maschera che è diventata troppo stretta; quella maschera, da zattera di salvataggio per navigare in un mare incerto come quello dell’esser donna e regina in un mondo di uomini e di re, ora è diventata limite, condanna, prigione. […] In questo gioco delle parti, nulla di quanto si crede e si percepisce è in realtà accaduto: Devereux non ha mai tradito Elisabetta, non ha mai disonorato Sara, non è mai venuto meno all’amicizia sodale con Nottingham, Sara non ha mai deliberatamente ritardato la consegna dell’anello, la serica sciarpa non era un pegno d’amore ma un pegno d’addio, Elisabetta non è stata mai amata, Sara non ha mai amato Nottingham, Nottingham si vendica del vuoto».
Ecco, con queste premesse Antoniozzi allestisce la sua messa in scena piena di tocchi intelligenti. Nessuna ambientazione moderna: Gianluca Falaschi disegna sontuosi abiti d’epoca in cui tutti sono nobilmente addobbati. I gonnelloni dei cortigiani contrastano con le braghe a palloncino a spacchi che sembrano macchiate di sangue del duca di Nottingham, ma è su Elisabetta che il lavoro del costumista raggiunge il massimo della teatralità. Durante la sinfonia assistiamo alla solenne vestizione della regina: un abito con ampia gonna a ricami d’oro in rilievo che la veste per tutto il primo atto, quella in cui ostenta il suo potere e ancora si illude dell’amore del conte di Essex. Nel secondo interviene la delusione e l’abito ha un che di luttuoso e di ingombrante. Nel terzo la vestaglia ha un mantello con chilometrico strascico su cui è disegnata una mappa dell’Europa in cui la Gran Bretagna è più grande del reale mentre è la regina che si è come rimpicciolita: niente più parrucca rosso-dorata, ma i capelli sfatti e biancastri di una vecchia mentre la maschera di biacca sta per sfaldarsi per rivelare la donna sola e disperata che c’è sotto.
E una maschera ce l’hanno pure quattro figure in nero onnipresenti che spiano il duetto degli sfortunati amanti, o diventano le guardie che imprigionano Devereux, o assistono nel finale la cadente sovrana. E che si accasceranno come marionette cui hanno tagliato i fili nel finale. Come onnipresente è un irriverente giullare cui solo è permesso stravaccarsi sul trono della regina. Trono che con il suo rigido schienale a grata sta al centro di un palco quasi circolare che ricorda le tavole del Globe Theatre di Londra su cui si sono rappresentati per tanto tempo i drammi elisabettiani. Le scarne scenografie di Monica Manganelli sono sapientemente illuminate dalle luci di Luciano Novelli e sobrie ma efficaci sono le indicazioni recitative – troppo spesso si è vista Elisabetta trasformata in una marionetta impazzita. Ogni personaggio qui mantiene invece la sua composta nobiltà.
La quinta e ultima recita del Carlo Felice è trasmessa live con il secondo cast. Manca la prima donna Mariella Devia (presente invece nell’edizione DVD come nella produzione di Campanella e Talevi) sostituita dalla moldava Natalia Roman, brava ma dal timbro un po’ acidulo e dalla strana dizione. Gli acuti sono comunque sicuri e le agilità precise. Il Devereux del titolo è un eccellente William Davenport dal bel colore pavarottiano, di stile perfetto, grande musicalità e pronuncia inappuntabile. Il punto forte della serata senza dubbio. Efficaci i due Nottingham, Elena Belfiore e Marco di Felice anche se forse un po’ sopra le righe quest’ultimo. Giorgio Bruzzone sostituisce Francesco Lanzillotta in questa recita e non credo abbia cambiato l’originale corretta impostazione musicale.
Qualità della immagine piuttosto scarsa: l’alta definizione è riservata forse a una eventuale uscita in DVD? Nel qual caso si spererebbe in una regia video meno piatta. Non meglio è l’audio, molto secco e metallico e con una non ottimale sistemazione dei microfoni.
⸪